Osservazioni sulla posizione della
filosofia
dentro e fuori del mondo
di Jan Patocka
(cfr.
il testo originale francese
e Patocka,
"filosofo resistente" di Domenico
Jervolino)
Queste poche parole non hanno la pretesa di essere
filosofia nel senso proprio del termine. Non entreremo qui nel cuore
dei problemi propriamente filosofici. Non è nostra ambizione
dare un contributo al dialogo filosofico che si svolge tra le varie
epoche, di millennio in millennio: dialogo di coloro la cui esistenza
nel tempo è un’abolizione del tempo – più ancora che quella
del poeta o dell’eroe, misurata all’eternità. Ogni grandezza
dipende, in definitiva, da un varco che la dimensione extra-temporale
si apre in seno al tempo, ma la grandezza filosofica implica, inoltre,
la comprensione esplicita dell’unità del tempo e del sovratemporale.
Ora questa grandezza non è forse estranea all’epoca attuale,
insensibile persino alla grandezza del poeta e dell’eroe? L’idea che
ci facciamo del filosofo non è forse quella di un uomo al quale
la vita intera appare necessariamente come materia da pensare, di un
uomo quindi che non è semplicemente filosofo in un momento o
in un altro, all’occasione, tra gli altri piccoli vizi e virtù,
ma di un uomo che è filosofo per davvero? Proprio mentre la filosofia
dei nostri giorni sembra essere diventata una cosa contingente che il
percorso della vita può incrociare o lasciare completamente da
parte. Come può una filosofia del genere, alla deriva e senza
passione, resistere agli assalti del "mondo"? Non sarà
forse necessario che essa torni in sé, che cerchi un sostegno
innanzitutto in ciò che essa è nella sua idea, in ciò
che essa può dunque essere per il filosofo concreto? Esiste in
questo senso un’esperienza filosofica, processo disagevole che nessun
individuo può rivendicare per sé, ma che è l’opera
di una filiazione di grandi. È questa esperienza, in alcuni suoi
tratti che consideriamo essenziali, a costituire l’oggetto dell’improvvisazione
che segue. Lo ripetiamo: il nostro proposito non è qui quello
di fare filosofia. Ci limiteremo ad un modesto tentativo di strappare
la filosofia all’oblio – ad un’anamnesi, quindi, che non smetta di rendersi
conto dei rischi ai quali si espone. In effetti, tanto varrebbe parlare
della terza dimensione in un mondo senza profondità. Il quadro
ristretto di cui disponiamo non ci permette di giustificare le nostre
tesi come lo avremmo desiderato, nonostante esse abbiano senza dubbio
una legittimità più profonda rispetto all’insulsaggine
afilosofica della produzione che osa presentarsi al giorno d’oggi sotto
il titolo di filosofia.
Incominciamo dunque dalla tesi, dall’idea generale
di cui la filosofia è la realizzazione concreta: 1) Tra le possibilità
dell’uomo figura la capacità di conoscere il mondo (non
le singole cose, ma la "totalità"). 2) Il soggetto
non può cogliere questa possibilità se non abbandonando
in una certa maniera il suolo del mondo, trascendendolo. 3) A differenza
della conoscenza delle singole cose, questa conoscenza della totalità
non è contingente; nonostante non sia mai definitiva, essa è
di un altro ordine rispetto alla comprensione intramondana delle
singole cose. 4) Solo la conoscenza del mondo (in quanto "totalità")
conferisce al sapere quell’unità richiesta dalla conoscenza del
contenuto mondano, vale a dire delle singole cose.
Approfondire queste idee sarebbe filosofare, ma questa
non è qui la nostra intenzione. Poniamo piuttosto una questione.
Se il filosofo è separato dal mondo da un abisso così
profondo, separato dunque dall’umano nella sua totalità (visto
che l’uomo stesso fa parte del "contenuto mondano"), la sua
attività non ci è allora perfettamente indifferente? Applicato
al nostro mondo che è questo qui, il suo campione di misura non
si riduce forse a nulla e, inversamente, le sue preoccupazioni non appaiono
forse – misurate al metro di quaggiù – come un semplice gioco
cerebrale che schiva la serietà della vita? In breve, la filosofia
non è magari uno di quei divertimenti di cui l’uomo può
permettersi il lusso nei momenti di serenità, nei rari rifugi
ed oasi di pace intorno ai quali si scatena l’uragano del mondo? Il
primo lavoratore arrivato, un uomo qualsiasi che è stato provato
dalla vita e che tuttavia assume su di sé la propria esistenza
con un minimo di forza e di fierezza, non ha forse il diritto di guardare
a questo diseredato come a qualcuno che ignora tutto della vita ed essenzialmente
non può saperne nulla, non ha forse il diritto di considerarlo
di conseguenza – ammesso che egli pretenda nondimeno di spiegare l’esistenza
a suo modo – come un falsario del senso della vita? Non si dovrà
dar ragione a coloro che, dietro la facciata sovrumana della professione
di fede filosofica, vedono un’evasione troppo umana, una fuga impaurita
davanti alla vera realtà, indipendentemente dal fatto che le
motivazioni siano individuali o sociali? E fuggendo così la realtà,
il filosofo non è forse condannato a sbagliarsi egli stesso,
ad ingannare anche gli altri? Non è forse un povero buffone,
un pagliaccio suo malgrado, mai più dipendente se non quando
si crede libero, mai più profondamente determinato dal dramma
della collettività umana se non quando si crede solo, al di sopra
della mischia? – Tutto questo significa che il mondo non è indifferente
e senza difesa nei confronti del filosofo. Se il filosofo si distacca
rispetto al mondo, il mondo risponde rivolgendo il suo odio contro
il filosofo. Dal punto di vista del "mondo", la filosofia
è perversione e frode, una depravazione essenzialmente fallace.
La si può tollerare, sfruttare, metterla nella condizione di
non nuocere, riducendola ad una funzione puramente ausiliare. Ma se
rifiuta di servire, allora bisogna combatterla come un processo patologico
incomprensibile che mina la vita della collettività; occorre
estirparla di fatto dall’insieme delle funzioni vitali e, così,
devitalizzarla. È evidente che intrinsecamente queste
obiezioni non hanno alcuna presa sulla filosofia, che esse non ne colpiscono
che le prospettive e il modo di espressione – ossia la proiezione mondana
della filosofia stessa. Tutte queste critiche sono vane per la semplice
ragione che, pur passando in rivista tutto l’universo, restano incapaci
di mettere le mani sulla filosofia – il loro bersaglio si rivela introvabile.
Per noi altri uomini del mondo, la filosofia è un fantasma che
gioca i suoi brutti scherzi alle nostre spalle, ma che non potremo mai
costringere ad apparirci faccia a faccia. Il tema dell’isolamento della
filosofia, l’idea della separazione evocata dapprima in Eraclito e ripresa,
in termini eloquenti, da Meister Eckhart conduce così, intensificandosi
ed approfondendosi, dall’indifferenza verso la filosofia ad un’ostilità
attiva che la considera come un pericolo.
Concretizziamo questa idea, vediamo quali sono, in
casi differenti, i rapporti reciproci tra il mondo e la filosofia. Il
mondo non può vedere nulla della filosofia se non la sua proiezione
mondana; la filosofia, da parte sua, vede il mondo quale esso è
effettivamente – perché questo è il suo tema. Il filosofo
è esteriormente senza difesa contro il mondo, il mondo interiormente
senza difesa contro la filosofia. Ne consegue che non può esserci,
tra il filosofo e il mondo, alcuna discussione sulla filosofia.
Le tesi attraverso le quali il mondo interpreta la filosofia – i diversi
materialismi, positivismi, economicismi, psicologismi, psichiatrismi,
sociologismi, teologismi, ecc. – si fondano tutti sul presupposto errato
secondo il quale sarebbe possibile incominciare una discussione con
la filosofia sul terreno di questo mondo. Il filosofo non può
accettare questa posizione – adattarvisi, sarebbe ammettere la possibilità
che la filosofia dipenda da un qualsiasi fatto intramondano e, pertanto,
condannarla in quanto comprensione della totalità.
C’è ancora un altro aspetto strettamente collegato
a tutto ciò – l’impossibilità, per il filosofo, di dimostrare
la sua verità agli altri. Coloro che intendono la filosofia in
una maniera che esclude a priori ogni comprensione, non vedono
nei suoi argomenti che delle pezze d’appoggio per le loro tesi. Non
si possono fornire prove se non laddove si riconoscano gli stessi principi,
e non è questo il caso: gli argomenti addotti contro la filosofia
si collocano al livello dei fatti intramondani e non sul piano in cui
il filosofo stesso si situa. Da ciò proviene anche l’imbarazzo
del filosofo costretto a dire che cosa sia la filosofia: "Di quello
che è il loro oggetto [delle ricerche filosofiche] non si deve
parlare, come si fa per le altre scienze".
(1)
Come dimostrare qualcosa che non ha analogo nel mondo e che,
nella sua proiezione mondana, è intaccato dalla relatività
comune a tutte le cose umane? Anche il silenzio diventa una modalità
della risposta filosofica.
Se è impossibile al filosofo provare la sua
verità, si può dire, ampliando ancora il discorso, che
il suo linguaggio non potrà mai essere compreso. Utilizzando,
per ragioni essenziali, la stessa lingua alla quale si affida il resto
degli uomini, egli conferisce alle parole un senso che esse non avevano
fino ad allora. In nulla il filosofo vede lo stesso di quanto vedono
coloro che restano in un atteggiamento ingenuo, non riflettuto. I termini
"mondo", "cosa", "uomo" designano, agli
occhi del filosofo, tutt’altra cosa rispetto a quanto intendiamo noi
altri non filosofi, che siamo giunti a questi significati Dio solo sa
come. In filosofia, tutto sembra dunque capovolto al contrario (secondo
il motto di Hegel: "la filosofia è il mondo capovolto")
– il "reale" diventa "irreale" e viceversa, le cose
sono determinate dall’idea piuttosto che le idee dalle cose. Confrontando
il suo pensiero ingenuo (termine che non ha qui un valore peggiorativo)
con la filosofia hegeliana dello Stato, Karl Marx constata: "La
differenza risiede non nel contenuto, ma nel modo di considerare ossia
nel modo di dire".(2) Qui si vede tutta l’ambiguità
del rapporto tra la filosofia e il mondo. Il filosofo può sottoscrivere
tutte queste parole, dando loro tuttavia un senso che celerà
in sé una proposizione ben diversa da quella che Marx ha creduto
di enunciare. Pretendendo di pronunciare una condanna radicale della
filosofia in quanto verbalismo, queste parole dicono implicitamente
la disfatta del mondo. Così il filosofo è in primo luogo
un umorista, perfino quando lascia parlare il mondo al posto suo e contro
di lui.
La "storia della filosofia" è una
disciplina che si impegna a ripercorrere non tanto la vita della filosofia
stessa, quanto, piuttosto, questo conflitto incessante della filosofia
con il mondo. La scoperta del mondo è opera della filosofia che
ne ha tirato, per di più, certe conseguenze per la vita umana.
Eppure la maggior parte di ciò che i manuali presentano sotto
l’etichetta di "filosofia" non è nient’altro che la
risposta del mondo all’appello alla chiarezza radicale e al coraggio
del pensiero lanciato dalla filosofia. Il primo uomo che ha posto espressamente
la questione di che cosa sia la filosofia si trova fin dall’inizio confrontato
ai fenomeni del bello spirito e della tesaurizzazione del sapere, che
tendono a dissimularne l’essenza, e infatti li stigmatizza in quanto
tali. (3) È lo stesso che argomenta del principio filosofico
sostenendo che gli uomini restano per sempre incapaci di comprenderlo,
che ciò avvenga prima di averne sentito parlare o dopo averne
avuto conoscenza.
Evidentemente Eraclito non ha dovuto far fronte alla
crociata organizzata contro la filosofia di cui noi siamo oggi i testimoni
e i cui ausiliari sono la scienza e la religione. La scienza sostituisce
l’idea della conoscenza della "totalità" con
quella della conoscenza di tutto (di tutte le cose e relazioni
esistenti), l’idea della conoscenza del mondo con quella della conoscenza
del contenuto mondano, l’idea della conoscenza dell’essenza delle cose
con quella di un sistema formale di pensiero sulle cose, l’idea della
conoscenza in generale con quella di una ricerca che ignora l’opposizione
tra l’architettonica e il dettaglio, tra la concezione e la tecnica.
Quanto alla religione, essa cancella la trascendenza a beneficio del
trascendente, giacché pone la differenza originaria, irriducibile
ed incomprensibile di due piani ontici al posto del movimento che abbandona
il piano dell’ente per dirigersi verso un altrove.
La scienza è nata dalla filosofia, alla quale
la religione deve, quanto meno, la propria organizzazione concettuale.
Siccome tuttavia l’ideale della filosofia non si accontenta di ciò
che soddisfa l’ideale della scienza, la filosofia non può essere
una semplice "fondazione delle scienze" (così come
se lo immaginano i neokantiani), una riflessione sulle scienze nella
loro fattualità. Non potendo svilirsi dal rango di padrona a
quello di serva, essa non può inoltre neanche mettersi al servizio
di un trascendente. Separate dalla filosofia, sia la scienza che la
religione le si rivoltano contro, divenendo gli strumenti dello stupro
dell’uomo da parte di un surrogato mimetico dell’aspirazione alla verità.
La scienza, che si colloca sul terreno di questo mondo – in un processo
che avanza dal singolare al singolare, senza mai giungere ad una chiusura
definitiva di queste serie –, suggerisce un’idea falsa della conoscenza
come totalmente subordinata ad altre necessità della vita. La
religione, da parte sua, è l’organo di un’oppressione trascendente.
L’una e l’altra sbarrano la strada che conduce l’uomo fuori dal mondo,
verso la conoscenza filosofica di sé. Spesso la filosofia e la
sua mimesis coesistono in una stessa persona, provocando una
lacerazione che può andare fino allo sdoppiamento più
tipico. Laddove il filosofo crede di trionfare, è in questi casi
il suo doppio a trarne tutto il profitto. Il genio maligno che ispira
a Cartesio la sua più grande scoperta è anche lui responsabile
dell’ossessione per la certezza che gli impedisce di raccogliere i frutti
del suo pensiero, tracciando al contrario l’itinerario seguito dalle
scienze moderne. Una storia della filosofia che volesse essere altro
che non una classificazione di dottrine, dovrebbe appoggiarsi ad una
demonologia, ad una concezione delle potenze interne che governano il
conflitto tra il filosofo e il mondo.
Che strano spettacolo, questo conflitto! Come può
esserci un conflitto senza contatto? Il contatto non è possibile
che su un terreno comune – il che sembra qui precisamente mancare. Il
mondo può cancellare l’esistenza del filosofo, ma – paradosso!
– è così che la filosofia entra nella storia. Nulla
illustra meglio a che punto tali mezzi siano poco adeguati a misurarsi
alla potenza interna della filosofia. La ragione per la quale la filosofia
non può non essere perseguitata a partire dall’istante
in cui si cristallizza nella sua forma pura è quella che Nietzsche
ha colto così bene nelle sue invettive contro Socrate: il fatto
che la proiezione mondana della filosofia appare, nell’ottica della
vita, come una decadenza. La filosofia è una forma di rallentamento
della vita, una forma nella quale la vita cessa di essere ingenuamente
e spontaneamente creatrice. Il motto di Nietzsche secondo cui "il
comprendere è una fine" (4) ha un senso profondo
e spiega perché riguarda non solo la scienza moderna, ma per
di più anche Socrate come il sintomo di una malattia. La scienza
attuale, nella sua forma fattuale, è mossa dal principio dell’utilità
per la vita; l’autocomprensione dello scienziato dei nostri giorni è,
per così dire, identica a quella del tecnico, oppure non se ne
discosta che per la sfumatura di un più o di un meno. Per la
filosofia antica, al contrario, la comprensione è l’unico scopo.
Prima della filosofia, l’uomo vuole sapere e si immagina di sapere,
ma non ci tiene a comprendere. "Sapiente / è chi
nasce sapendo / ma i dotti rapaci / simili a corvi dalle mille lingue
/ stridono confusamente contro la sacra aquila di Zeus", scrive
Pindaro. (5) Nel suo primo slancio ingenuo, la vita non cerca di conoscere;
comanda – anche in questo punto Nietzsche ha visto giusto. La vita non
riflettuta crea il mito e la poesia, visioni potenti nelle quali la
sua autocomprensione immediata si deposita sotto forma di modelli da
contemplare, nella forma di un’azione esaltante, di un’estasi comunicativa
ed inebriante. Essa crea inoltre uomini che vivono e muoiono per mostrare
a se stessi e agli altri la loro forza e la loro grandezza più
proprie. Mettetevi al posto del poeta e dell’eroe e forse l’intellettualismo
filosofico vi apparirà, per lo spazio di un istante, come pretenzioso
e plebeo. "Socrate era plebaglia". (6) L’importanza di Nietzsche
ha a che vedere anche con questo modo di dare la parola al poeta e all’eroe
contro la filosofia. Il poeta è l’ispiratore dell’eroe, l’eroe
il realizzatore del poeta; il loro mondo è fatto di coraggio
e di pericolo, mentre la filosofia sarebbe – in apparenza – una ricerca
di certezze rassicuranti. Il filosofo è come un ostacolo che
la vita avrebbe messo sul cammino dell’eroe, per frenare il suo slancio
verso la libertà sovrana che egli rivendica. Eppure coloro che
condannano Socrate non sono né poeti né eroi, ma semplici
ombre parodistiche di eroi e poeti di altri tempi. Non è la vita
immediata, in tutta la pienezza della sua forza, ma la sua discendenza
indebolita che non ha più alcuna forza creatrice propria e teme
per l’eredità, che vede minacciata, che teme di perdere l’appoggio
fornito dallo spirito degli avi. L’avversione che i grandi rappresentanti
della vita non riflettuta nutrono contro la filosofia si intensifica
in questi epigoni, diventa una convulsione dello spirito di vendetta.
Nei due casi l’opposizione è guidata da una nostalgia per la
vita infinita, visto che l’infinitezza è concepita come inesauribilità
e, nei veri eroi, possibilità di accrescimento continuo. Come
se questa inesauribilità fosse un’evidenza che va da sé!
Come se bastasse sopprimere gli ostacoli perché la vita si infiammi
di una forza superiore! L’opposizione alla filosofia non è forse
nutrita, in ultima analisi, dalla comprensione del fatto che la filosofia
mette il dito sul momento essenziale che è la finitezza della
vita? La vita non arretra forse davanti alla perspicacia della filosofia
che vi scopre "questa noia in sé assoluta [che] non è
altro che la vita ignuda nell’atto in cui chiaramente si contempla",
"che non ha altra sostanza oltre la vita stessa e altra causa propizia
oltre la chiaroveggenza del mortale"? (7) Come il cristianesimo
pretende di salvare la vita grazie ad un aldilà, Buddha nella
fusione con l’universo e il socialismo con la visione di un futuro radioso,
Nietzsche predica la salvezza da parte del superuomo. La filosofia significherà
forse, in fin dei conti, che non c’è alcuna salvezza per la vita?
Nel cogliere questo pericolo, non si può forse scoprire una certa
comprensione per la filosofia, sia pura repressa? La lotta condotta
contro l’"intellettualismo" della filosofia è un malinteso
che, senza essere deliberato, nondimeno ubbidisce ad una finalità.
Comprendere la propria sovranità interiore è pericoloso
per la vita; l’orientamento spontaneo della vita la fa uscire da se
stessa, la porta a soffermarsi presso le cose, gli scopi, i modelli.
Che la vita stessa sia creatrice e criterio ultimo, questa è
una verità alla ricerca della quale la vita non si mette, è
una verità che la vita si nasconde.
La vita segue il suo corso ingenuo per tutto il tempo
in cui proietta la sua sovranità interiore di fronte a sé
in quanto realtà mondana. In altri termini: la vita ingenua ha
sempre degli dei ai quali rimettersi e che si ritengono capaci di salvarla
dalla sua finitezza di fatto. Gli dei possono essere dei modelli di
una aretè perfetta, ispirati all’uomo in una visione poetica;
possono essere le Idee ipostatizzate dei filosofi, degli ideali ipostatizzati,
la potenza della natura concepita in diverse maniere – come nell’"umanesimo
reale" di Marx, che sogna il futuro di un uomo che non sarà
più sottomesso alle cose, ma ne disporrà a suo piacimento
oppure, in tutt’altro modo, nella concezione nietzscheana di una natura
brutale, ma grande, che, riscattandosi nel superuomo, diventa gioia
e creazione pura. Tutto questo a condizione che gli dei impongano una
regola di condotta, che assegnino un ordine ed uno scopo e, con ciò,
assicurino la salvezza. Ma il loro comandamento non è a sua volta
possibile se non alla condizione che essi siano reali, investiti di
una forza che determina il divenire. "Ingenuità, come se
la morale restasse, quando viene a mancare il Dio sanzionante"!
(8) Non è solo paradossale, ma francamente cinico credere al
comandamento divino senza credere in Dio. Finché si attende la
salvezza dalla divinità, questa deve essere ciò che determina
in ultima analisi ogni divenire e deve ammettere un comportamento al
suo stesso riguardo, un rapporto mosso dal pathos o dall’amore o dall’interesse
o infine dalla volontà di potenza. La religione è fondata
sulla reciprocità: osserva i comandamenti divini e Dio ti ricompenserà
nel corso della tua vita. – Che cosa significhi invece la filosofia,
nessun’altro lo ha espresso meglio, in tutta la sua durezza, se non
Spinoza: "Chi ama Dio, non può sforzarsi affinché
Dio lo ami a sua volta". (9) Il pathos della filosofia non
è quello della reciprocità, ma un pathos unilaterale che
va, senza ritorno, dall’uomo verso il sovrumano. Salvo errore da parte
nostra, è d’altronde implicito nella logica dell’idea
della filosofia il fatto che l’attività stessa del filosofo non
sia compresa come ricompensa divina. Il filosofo non può dire
agli uomini: filosofate e sarete salvati. Che si fondi la salvezza sul
merito o sul principio della grazia, la filosofia non salva. Essa è
semplicemente la vocazione individuale e, pertanto, la necessità
interiore di certi uomini. La filosofia procura piacere a coloro che
vi si abbandonano (piacere raro, è vero, e che si accompagna
ad una lotta ardua e dolorosa, condotta contro di sé per il sé
più proprio), perché vive in essa la passione di conoscere,
non meno imperiosa di altre grandi passioni dell’uomo. La profonda visione
aristotelica dell’identità tra edonè, theoria
ed energeia theou ci sembra quindi prestarsi all’interpretazione
che segue: la vita è l’opera della visione eterna della divinità
e, finché viviamo, c’è sempre in noi un po’ di felicità.
Ma non si tratta di qualcosa che è riservato alla sola filosofia,
perché si può dire altrettanto della vita intera.
La filosofia è l’istanza della chiarezza ultima.
All’origine, essa è un coraggio per l’essenza ultima dell’ente
che la vita ingenua cerca di schivare. La finitezza della nostra vita
attuale fa sì che noi proviamo il bisogno di un appoggio esteriore,
di una salvezza che impianti la nostra vita su una potenza assoluta.
La filosofia, quanto ad essa, capovolge questa situazione: in fin dei
conti, ci è impossibile "appoggiarci" ingenuamente
su una potenza assoluta per la buona ragione che l’assoluto come tale
è integralmente contenuto nel finito; il mondo stesso non è
nient’altro che l’assoluto, come esso si scopre nella sua ingenuità.
Non ci si può rimettere agli dei, perché l’assoluto non
è al di fuori, ma all’interno di noi. L’uomo intrattiene con
Dio un rapporto troppo stretto per poter essere confortevole, un rapporto
più intimo di quanto non vorrebbe la sua stessa sicurezza. Dio
in noi sancisce la nostra finitezza. Il Dio assolutamente creatore non
è lo stesso che comanda e che salva. È un Dio al quale
non possiamo domandare ciò che è nostra incombenza fare.
Il filosofo è tenuto a sostenere questa idea, di "soffrire
il privilegio della sua gloria nascosta". (10) L’intimissimum
del Dio dei filosofi, sprovvisto di ogni progetto, è la creazione
immemoriale – senza volontà, senza pathos, senza slancio, nel
ritrarsi dissimulato al suo stesso sguardo.
Se, oltre a Dio, ci sono ancora degli altri dei – dice
il filosofo – questi non sono né creatori in ultima istanza,
né, in senso proprio, infiniti; sono semplici creazioni. Ma perché
ridiscendere dall’altezza una volta raggiunta e desiderare ciò
che si è già superato? Dal momento che Dio si incarna
nell’uomo, quest’ultimo non ha bisogno di creare dei. Non avendo più
il compito di realizzare il comandamento esteriore di un dio, non resta
all’uomo che prendersi carico della propria libertà. Ora, chi
è libero? Quale sarà la risposta del filosofo a una tale
questione, che si impone tanto più imperiosamente da quando l’uomo
è stato privato di ogni appoggio trascendente? Non sarà
costretto allora ad arrossire del vuoto interiore del proprio principio?
Non si sarà convinto senza alcuno scampo del pallido intellettualismo
di cui lo accusa il mondo?
La filosofia non prescrive nulla, non comanda niente.
Gli basta rimandare a ciò che ha luogo nella vita pre-filosofica
ed elucidarne il significato. Gli basta rimandare a una cosa che, senza
violenza, senza convulsioni né commedie, riempie la vita, senza
per forza coinvolgere una qualche istanza che si troverebbe al di fuori
dell’uomo. È la possibilità che ha ciascuno, in virtù
della propria decisione, di farsi carico del proprio destino oppure
di schivarlo. La risoluzione autentica per il destino più proprio
non tiene conto delle circostanze, della fattibilità o meno delle
varie prospettive, visto che l’uomo cresce tanto più, quanto
più si scontra con degli ostacoli. Resta senza importanza che
cosa egli sia esteriormente, il posto contingente che occupa nella società.
Più una vita è esteriormente frivola ed irresponsabile,
meno ci saranno in essa le possibilità di una sostanzialità
autentica. Lontani dalle costrizioni e dalle volgarità della
vita, gli uomini si dissimulano la loro stessa colpevolezza e vivono
sul solo piano delle apparenze. Il fenomeno al quale la filosofia può
rinviare è la possibilità che ha l’uomo non solo di apparire,
ma anche di essere.
In fin dei conti la filosofia si rivela così
un appello all’uomo eroico. Ecco la parola chiave umana della filosofia.
L’eroismo non è una passione cieca, amore o vendetta, ambizione
o volontà di potenza. Lungi da questo, l’eroismo implica una
chiarezza serena sulla totalità della vita e, in colui che ne
è capace, la coscienza che questa maniera di agire è per
lui una necessità, la sola modalità possibile della
sua esistenza al mondo. L’esser-ci dell’eroe, il suo essere al mondo,
nell’istante, non attende alcuna conferma, alcuna continuazione in un
aldilà. L’eroismo assume la propria finitezza. Non è nient’altro
che una attestazione irrefragabile della sostanza propria, irriducibile
alle contingenze del mondo. La filosofia è allora in grado di
purificare l’autocomprensione dell’uomo eroico, di fargli comprendere
la sua fede non come una rivelazione del trascendente, ma in quanto
atto umanamente libero. Ciò che si manifesta in questa fede non
è il comandamento trascendente della divinità, ma il principio
dell’uomo, collocato in una situazione storica. La comprensione dell’essere
che la filosofia realizza trascendendo intellettualmente il mondo, si
rapporta all’esistenza umana autentica rappresentata dall’atto libero.
Forse possiamo quindi, per concludere, formulare l’ideale di una filosofia
sovrana sotto la doppia specie di una filosofia dell’eroismo e di un
eroismo della filosofia.
(Traduzione dal francese di Gabriella Baptist)
Note:
1) PLATONE,
Lettera VII, 341 c; trad. it. a cura di F. Adorno, in Dialoghi
politici. Lettere, vol. II: Leggi, Epinomide, Minosse, Clitofonte,
Menesseno, Lettere, Torino, UTET, 1988, p. 695.
2) K. MARX, Zur Kritik der Hegelschen
Rechtsphilosophie, in K. MARX e F. ENGELS, Werke, vol. I,
Berlin, Dietz Verlag, 1956, p. 206; trad. it. a cura di S. Moravia,
Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Scritti
filosofici giovanili, Milano, Fabbri, 1998, p. 3.
3) Cfr. ERACLITO, Frammento 40,
cfr. A. Lami (a cura di), I presocratici. Testimonianze e frammenti
da Talete a Empedocle, con un saggio di W. Kranz, testo greco a
fronte, Milano, Rizzoli, 1991, pp. 212-213.
4) F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente.
Anfang 1888 bis Anfang Januar 1889, 14 [224], in Werke. Kritische
Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/3, Berlin/New
York, de Gruyter, 1972, p. 190; trad. it. di S. Giammetta, Frammenti
postumi. 1888-1889, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari,
vol. VIII/3, Milano, Adelphi, 1974, p. 187.
5) PINDARO, Seconda Olimpica,
94-97; trad. it. di E. Mandruzzato, in L’opera superstite. I: Le
Olimpiche, introduzione, traduzione e note di E. Mandruzzato, Milano,
SE, 1989, pp. 76-79.
6) F. NIETZSCHE, Götzen-Dämmerung
oder Wie man mit dem Hammer philosophirt, in Werke. Kritische
Gesamtausgabe, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/3, Berlin/New
York, de Gruyter, 1969, p. 62; trad. it. di F. Masini, Crepuscolo
degli idoli ovvero come si filosofa col martello, in Opere,
a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI/3, Milano, Adelphi, 1970,
p. 63.
7) P. VALÉRY, L’âme
et la danse, in Œuvres, vol. II, Paris, Gallimard, 1960,
p. 167; trad. it. di V. Sereni, L’anima e la danza, in Eupalinos,
preceduto da L’anima e la danza, seguito dal Dialogo dell’albero,
Introduzione di E. Paci, Milano, Mondadori, 1947, p. 58.
8) F. NIETZSCHE, Nachgelassene Fragmente.
Herbst 1885 bis Herbst 1887, 2 [165], in Werke. Kritische Gesamtausgabe,
a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VIII/1, Berlin/New York, de
Gruyter, 1974, p. 146; trad. it. di S. Giammetta, Frammenti postumi.
1885-1887, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol.
VIII/1, Milano, Adelphi, 1975, p. 135.
9) B. SPINOZA, Ethica, V, prop.
XIX; trad. it. di G. Durante, Ethica, con Note di G. Gentile,
rivedute e ampliate da G. Radetti, Firenze, Sansoni, 19842,
p. 609.
10)
Citazione approssimativa di un verso dal poema "Bolest clovereka"
(il Dolore dell’uomo) di Otokar Brezina (1868-1929),
principale rappresentante del movimento simbolista nella letteratura
ceca: “E allora della nostra potenza magica, del mistero della nostra
razza, / del privilegio della nostra gloria nascosta abbiamo sopportato
la sofferenza".