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Spazialità personale, Husserl, Heidegger *

di Jan Patocka 

(cfr. il testo originale inglese
e Patocka, "filosofo resistente" di Domenico Jervolino)

Cominciamo brevemente, in modo schematico, a dare un’occhiata al viaggio che abbiamo percorso. Siamo partiti dall’osservazione che una regione personale (relazioni e tratti personali), è qualcosa di filosoficamente recente, che appare evidente solo nella filosofia moderna, sebbene qui appaia così fondamentale e così filosoficamente rilevante, che diviene il centro delle riflessioni, diviene ciò che è essenziale, poiché appartiene alla natura di ciò che è semplicemente perché è. La filosofia di Aristotele è una filosofia in terza persona, e sebbene la persona non sia completamente assente, essa non è tematizzata, rimane celata. La terza persona fa parte in linea di principio principio della prima e della seconda, e, quindi, una filosofia che comincia con il mondo in terza persona non è affatto apersonale. Ad esempio: Aristotele descrive il mondo come un’entità vivente in terza persona, attribuendogli tratti del nostro senso d’orientamento: su, giù, destra, sinistra, vicino-lontano, relazioni personali. L’antichità oscura la dimensione personale poiché le espressioni così centrali per la filosofia moderna, a cominciare da Descartes per culminare nella filosofia classica tedesca, termini come " io", non appaiono affatto nell’antica filosofia. Per Platone ed Aristotele, l’interesse di un filosofo si rivolge a ciò che esiste nella sua esistenza, ma non accade mai per loro – neanche quando arrivano alla natura dell’esistenza nella sua forma più intensa, come lo spirito – che il nous possa riferirsi a se stesso come io. Questa pura realtà, questa pura attualità che non contiene alcuna traccia di potenzialità, vale a dire di qualcosa che non è stato realizzato, di qualcosa che potrebbe non essere in atto in senso forte, Aristotele non ha mai pensato di caratterizzarla con espressioni prese dalla situazione umana, come "io".

La parola situazione ha a che fare con situs, collocazione. Una situazione è il modo della nostra collocazione tra le cose. All’inizio abbiamo mostrato, in una prospettiva storica, come Descartes abbia scoperto la prima persona. Ciò appariva già alla portata filosofica della filosofia cristiana in Agostino. Ciò nondimeno in quel contesto era chiaramente collegato alla tradizione del mondo antico di modo che il senso profondo di questo collegamento non conduceva ad una fondazione filosofica della conoscenza di noi stessi e del mondo ma piuttosto ad un regno teologico basato sulla moralità e la soteriologia. Filosoficamente parlando – fu Descartes il primo a creare il concetto di persona come base della filosofia. Non abbiamo intrapreso la via da lui percorsa, concentrandoci solo su un aspetto, (rischioso per lui) – la nostra posizione nel mondo.

Una filosofia fondata sull’ego cogito cogitatum, sulla consapevolezza della conoscenza di se stessi, si sgretola alla domanda della mia posizione nel mondo. L’origine personale è risultata non essere abbastanza radicale. Descartes è partito dalla prima persona come punto di partenza per passare alla terza persona e così ha generato una filosofia apersonale che va oltre l’apersonalità dell’antichità – una filosofia di una impersonale res extensa di natura matematica. È una natura nella quale gli esseri umani sono integrati in un modo puramente oggettivo. Non c’è posto qui per concetti situazionali o per una situazionalità in generale. La nostra esperienza vissuta, così come la viviamo e come la comprendiamo nella riflessione, è soggetta ad una nuova interpretazione da questa prospettiva impersonale. L’inizio di Cartesio dall’Io, da qualcosa di fondamentalmente personale, resta qualcosa di fallito partenza.

Abbiamo bisogno di scavare al di là di questo strato dell’impersonale e portare fuori l’originaria esperienza personale: l’esperienza del modo in cui viviamo situazionalmente, del modo in cui siamo persone nello spazio. Non possiamo accontentarci della concezione banale che vede il nostro corpo in prospettiva dualistica – contenuto nella res extensa come una cosa tra le cose e i processi oggettivi, con i quali i processi soggettivi sono coordinati come loro riflessi. Anche quelli [i processi soggettivi] necessitano di essere oggettivati a loro volta, trasformati in entità impersonali che possiamo impersonalmente coordinare con altre entità impersonali. Natura impersonale, processi soggettivi impersonali, coordinazioni impersonali: cosa è rimasto dell’elemento originale dal quale siamo partiti, dov’è il punto d’appoggio originario e l’analisi della fondazione su cui questo tipo di filosofia è concepibile?

Così ci siamo chiesti in che modo siamo nello spazio. Siamo all’interno di esso come una cosa tra le cose? È tale concetto pensabile? Abbiamo cercato di mostrare che il caso è diametralmente opposto, che la conoscenza delle cose che sono soltanto posizionate vicino alle altre, in pura relazione oggettiva, è possibile solo se c’è un essente che sta nello spazio in maniera differente, non solo come una delle cose, indifferentemente vicino ad esse nello spazio, ma posizionata nello spazio esistendo in esso, cioè relazionandosi a sé e alla sua vita attraverso la sua relazione con le cose. Il che significa un essente capace di rappresentar[si] la sua vita, che si comporta in vari modi semplicemente relazionandosi alle altre cose e così trovando un posto nel mondo. Non siamo vicini indifferenti delle cose. Le nostre relazioni non sono esteriori, indifferenti. La nostra non indifferenza verso il nostro proprio essere, che conta per noi, che non ci fa essere indifferenti al nostro esistere – tutto ciò è espresso nella forma tipicamente umana, in vista di: facciamo qualcosa in vista di qualcosa. In ciò consiste la nostra non indifferenza al nostro modo di essere. Quell’in vista di implica l’essere integrati nel mondo. In vista di denota i mezzi per raggiungere un particolare scopo, mezzi forniti per la maggior parte dalle cose intorno a noi. C’è una continuità tra quello che è progettato in vista di e tali mezzi. Ciò significa che il nostro essere tra le cose non è un mero essere indifferente vicino a, una giustapposizione di cose nello spazio.

Abbiamo quindi cercato di caratterizzare questo essente da vari punti di vista come un essere orientato, tendente alle cose, predisposto ad agire tra le cose, come un essente che agisce, e co-agendo in tale azione con gli altri, è orientato non solo verso le cose ma anche verso il mondo delle altre persone. La nostra spinta originaria verso le cose torna indietro su se stessa come relazione agli altri nella quale vediamo innanzitutto noi stessi. Quella è la naturale tendenza riflessiva del nostro andare verso le cose. Dato il modo tipico in cui gli umani si posizionano tra le cose, questo posizionarsi è una parte della struttura del loro essere nel mondo, un mero essere vicino a,  esteriore ed indifferente al loro essere; l’essere nello spazio tra le cose è una parte della nostra non indifferenza verso le cose e verso noi stessi.

Abbiamo inoltre posto in questione la portata essenziale delle nostre riflessioni. Il nostro obiettivo era raggiungere un tale livello di descrizione, di comprensione del fenomeno originario, da metterci in grado di rifiutare tutti i modelli oggettivanti della vita umana, precedenti la personale integrazione umana in un mondo. Questo ci ha portati a riflettere su due fenomenologie, due concetti di fenomenologia. Il pensiero fenomenologico che o non costruisce alcun costrutto o lo fa solo come ultima risorsa, attenendosi a ciò che appare, a ciò che si automanifesta. Tuttavia, tale concezione dell’apparire, dell’auto-presentazione, non è per nulla qualcosa di ovvio. Non basta aprire i nostri occhi ed accogliere qualsiasi cosa si presenti: il punto cruciale della fenomenologia verte precisamente su questo, sulla ricerca di una via che giunga a tale originalità.

Abbiamo comparato il pensiero di Husserl con quello di Heidegger. Nel pensiero di Husserl abbiamo cercato di mostrare il Cartesianesimo moderno nella sua forma più estrema e sofisticata. Il suo personale punto di partenza sta nell’ego cogito e cerca di rimanere nel personale, cioè in ciò che Husserl chiama intersoggettività trascendentale, intesa come fondamento ultimo cui porta la riduzione fenomenologica, un’intersoggettività per la quale il mondo rappresenta la base della comunicazione. Il mondo personale non è un insieme di isole in mezzo ad un’impersonale natura, piuttosto la natura impersonale diviene un mero polo oggettivo di intenzionalità unificate, di monadi armoniosamente viventi che stabiliscono il contatto attraverso questa oggettività. L’accesso ad esso è la riflessione, l’autocomprensione in pura originalità e autocertezza.

Ancora, questa concezione è problematica. Da una parte, è immensamente attraente nella prospettiva che essa apre sui flussi soggettivi d’esperienza vissuta, al di là delle banalità della vita, possibilità d’introspezione, d’analisi, e profondità. Ci sono, comunque, problemi al di là di tale attrattiva. C’è, per esempio, la questione dell’assoluta riflessione che ancora una volta trasforma la nostra personale e finita esperienza vissuta, in un oggetto assoluto che sta lì solo per l’osservazione, in un assoluto che, per essere certi, si afferra in assoluta completezza, adeguatezza, originalità ma che, ciò nonostante, viene oggettivato. La riflessione trasforma una vita vivente e vissuta in una vita contemplante e contemplata.

Husserl ha posto rimedio a molte carenze del Cartesianesimo, per esempio al grottesco dualismo che rende impossibile trovare una sostanziale relazione tra la res extensa e la res cogitans e che non rende possibile spiegare che abbiamo un corpo, il fenomeno della corporeità e la nostra collocazione nel mondo attraverso la corporeità. Perché, comunque, questi errori non si manifestano in Husserl? Perché la concezione di Husserl non è un dualismo ma un idealismo dell’intersoggettività trascendentale. Un oggetto, la natura, è il polo unitario d’intenzionalità unitarie, qualcosa sostenuto come l’oggetto unitario delle nostre intenzioni, ma senza quella realtà vivente che appartiene solo al soggetto vivente. Pertanto possiamo affermare che la fenomenologia di Husserl ha superato il dualismo cartesiano in un certo senso, sebbene non sia chiaro se essa non fosse diretta a conservare un certo fondo di cartesianesimo, una certa impersonalità cartesiana.

Senza dubbio Husserl stesso enfatizza e analizza sensibilmente il fenomeno del corpo soggettivo. Tuttavia nel suo lavoro il significato del soggetto corporeo non è mai chiaramente introdotto con assoluta riflessione. Volenti o nolenti, dobbiamo chiederci perché, in definitiva, la soggettività è sempre una soggettività incarnata. In un certo senso, la concezione di Husserl è che l’incarnazione della soggettività, la corporeità del soggetto, è una condizione necessaria del nostro vivere insieme, non in isolamento, ma in quanto essenti in mutuo contatto. Eppure ciò presume che il significato proprio della nostra soggettività, il nucleo più profondo del nostro io, della persona, non sia veramente ciò che è personale, ma ciò che noi osserviamo dopo la riduzione, precisamente ciò che è dato in assoluta riflessione come flusso d’esperienza. Il fondamento ultimo non è personale, è piuttosto soggettività: qualcosa che possa costituire, nei suoi atti, sia le nostre persone che le altre cose nel mondo, ma che non è essa stessa, nella sua natura fondamentale, una persona nel mondo.

Qual è il fondamento della riflessione assoluta? Essa riposa in se stessa. Non v’è alcuna ulteriore teoria, alcuna più profonda spiegazione, alcuna ulteriore ragione o base. La riflessione assoluta è il fondamento di ogni filosofia, non vi è alcuna teoria al riguardo. È la base cui è necessario ridurre tutto il resto. Qui ci è sembrato che una tale teoria tagli il nodo gordiano della riflessione invece di scioglierlo. C’è, senza bisogno alcuno di trovarla, una teoria della riflessione che, senza rendere impossibile la conquista della verità, della chiarezza, di tutto ciò che la fenomenologia trascendentale di Husserl ha reso possibile, rimarrebbe comunque una teoria della riflessione finita, in continuità con la caducità della vita umana?

Qui entra in gioco una seconda concezione della fenomenologia, quella di Heidegger, che muove dall’esistenza, dall’essente apertamente personale, cioè, da quello che non è indifferente al suo proprio essere, e finché non lo è al suo proprio, neanche all’essere in generale. Alla base della teoria di Husserl, potremo di nuovo percepire un fondamento impersonale, un esistente che meramente osserva se stesso, che è dato a se stesso puramente per l’osservazione. Vi è comunque, alienazione nell’osservazione, una distanza, una mera giustapposizione. In Heidegger, c’è una concezione di un esistente, vivente nelle sue proprie possibilità e in relazione ad esse. Abbiamo mostrato, iniziando da quella, una concezione del mondo come un contesto di rapporti in cui il nostro abitare vive il suo in vista di, che esso stesso progetta e dà a se stesso. Un mondo non come aggregato di entità, ma come contesto appartenente alla nostra propria intrinseca struttura, alla struttura del nostro essere.

Abbiamo mostrato che Heidegger è stato in grado di rimarcare molto acutamente la finitezza entro la struttura base del nostro vivere, per cui la finitezza della riflessione deriva dalla nostra originale preoccupazione con le cose e con noi stessi e dal bisogno di reagire contro tutto ciò. La riflessione è fondata sulla finitezza più intima dell’essere umano e sulla sua relazione con la verità. Queste, in ultima istanza, sono le ragioni della riflessione. Quello che Husserl recide con un colpo di spada, Heidegger lo sonda solo con l’indagine. Il bisogno di verità, la possibilità di verità sono, per Husserl, radicati nella nostra capacità di comprenderci nell’originale per mezzo della riflessione assoluta: possediamo noi stessi nella potenza dell’assoluta visione e, in quel senso, siamo assoluti. Chiunque volesse indagare ulteriormente proverà solo un’unica risposta: ciò è come è e nient’altro: cogito ergo sum. Quel cogito, tuttavia, mantiene tutti i problemi all’interno di esso. Persino il sum è problematico, è il sum di un essente finito. Come può un essente finito pervenire ad un’assoluta verità? Sotto questo aspetto, Heidegger è più umano, sebbene sia allo stesso tempo anche più oggettivo nel vedere un’essenziale fallibilità intorno all’essere umano, la confusione dell’essere vero con il non vero, nell’occultamento, nell’inganno, nella reticenza, nell’autoaccecamento, nell’ingannare se stessi e gli altri. Per l’universum degli esseri umani e per la sua interpretazione, la concezione filosofica di Heidegger offre maggiori possibilità dell’assoluto che Husserl trova. La ricerca di Heidegger è più profonda, è una ricerca del fondamento dell’esistenza.

C’è un punto, comunque, dove abbiamo sentito il bisogno di essere più onesti e chiari di quanto lo sia stato Heidegger. Esso è stato il fenomeno della nostra collocazione dentro le cose mediante la nostra corporeità (tale collocazione non avrebbe alcun senso per un essente puramente spirituale). Heidegger non nega la corporeità, non nega che siamo anche oggettivamente fra gli oggetti, ma non va oltre nella sua analisi, non la riconosce come il fondamento della nostra vita qual è. Seguendo l’analisi di Merleau-Ponty, abbiamo mostrato che la progressiva autointegrazione nel mondo, ci rende spaziali e all’interno dello spazio, si realizza mediante la nostra soggettiva corporeità che è orizzontale, che si manifesta, quindi, come corporeità nel senso più forte del termine. In tal senso siamo d’accordo coi materialisti, o concorderemmo, se i materialisti fossero del tutto capaci di approcciare il fenomeno del corpo soggettivo, cioè il corpo esistente che è la pre-condizione di tutta l’esperienza delle cose e della natura materiale.

Sulla base di questa critica abbiamo dimostrato la possibilità di interpretare l’esistenza come triplo movimento. E l’abbiamo fatto utilizzando un'idea sia antica sia moderna. L’idea moderna era di Heidegger, e cioè che la vita è una vita nella possibilità, caratterizzata da una relazione al nostro proprio essere; noi progettiamo che in vista di ciò che siamo, che l’in vista di è la possibilità della nostra vita; nel mondo una totalità di possibilità è sempre aperta per noi. L’idea antica: la definizione di movimento di Aristotele come una possibilità nel processo di realizzazione – non il moto nel senso di Galileo. Per Aristotele, di sicuro, il movimento è sempre il movimento di una sostanza. Soltanto in modo condizionato il generare e il perire potrebbero essere compresi, in Aristotele, come movimento qualitativo. Un’analisi di questi tre movimenti ha distinto: (a) il movimento di penetrare le radici, di ancorarsi nelle cose, mediante cui gli esseri umani sono esseri per altri, (b) il movimento di auto-prolungamento, di auto-riflessione, in cui gli esseri umani vivono per il bisogno e per rispondere al bisogno – in un mondo non più tenuto insieme dal ceppo familiare ma, nell’aspro tumulto della realtà del lavoro e del conflitto, non più protetto dalla comunità di parentela, (c) un movimento in cui gli esseri non si rapportano con le cose nel mondo mediante gli strumenti ma piuttosto col mondo come tale.

Questo ci ha portato a interrogarci per una concezione del mondo in un senso più radicale che non quella di Heidegger per cui il mondo è un mondo di cose-a-portata-di-mano utilizzabili nell’ambito delle significazioni pratiche. Ci siamo interrogati per un concetto di mondo che da un lato è ciò che rende capaci di incontrare i particolari e, dall’altro, di vivere nella verità. Gli esseri umani sono i soli esseri che, non essendo indifferenti a se stessi e al loro essere, possono vivere nella verità, possono scegliere fra una vita d’inquietudine per il proprio ruolo e i propri bisogni ed una vita in relazione al mondo [in generale], e non soltanto in relazione alle entità esistenti [nel mondo]. Questo essere non indifferente (non indifferente verso le cose così come verso l’essere in generale) ha il proprio campo precisamente qui, in questa regione di esplicito relazionarsi con ciò che non c’è né come mera esistenza individuale né come somma di esse; qui esso è insostituibile, qui è a casa propria. Qui è anche ciò che costituisce lo speciale mistero, che aggiunge la profondità e la prospettiva di cui la vita manca nel contatto con i particolari, con ciò che ci sfugge dalle mani, come l’oro dello sciocco delle fiabe, [e ciò accade ] dovunque la vita si dissolva nei contatti individuali. Nel contrapporre la concezione husserliana del correlato irreale dell'esperienza vissuta alla concezione heideggeriana dell’essere che non è nessuna cosa particolare, abbiamo cercato di mostrare quella relazione degli esseri umani con qualcosa che li rende capaci di trascendere tutti i particolari e tutte le somme dei particolari pur restando nell’essere, pur essendo in esso.

Qui la fenomenologia ha sfiorato qualcosa che tutto l’umanismo moderno ha trascurato, ciò di cui l’umanismo è manchevole. L’umanismo moderno prospera sull’idea che gli esseri umani sono in un certo senso gli eredi dell’assoluto – un assoluto concepito lungo le linee del Cristianesimo (da cui il nostro umanismo si è sviluppato) – che essi sono autorizzati a soggiogare tutta la realtà, ad appropriarsene e a fruirne con nessun obbligo a dare qualcosa in cambio, disciplinando se stessi. Qui la fenomenologia ha sfiorato il problema fondamentale dell’umanismo, cioè il fatto che gli esseri umani diventano veramente umani soltanto in questa non indifferenza all’essere, quando l’essere si presenta a loro e presenta se stesso come qualcosa che non è reale né umano, come qualcosa che li sfida e li rende umani.

Siamo arrivati alla conclusione che il mondo, nel senso della totalità antecedente che fa comprendere gli esistenti, può essere compreso in due modi: (a) come ciò che rende possibile la verità per noi e (b) come ciò che la rende possibile per le cose individuali all’interno dell’universum, e per l’universum come somma di cose. Qui di nuovo il fenomeno della corporeità umana potrebbe essere cruciale dal momento che il nostro elevarci sopra il mondo, la nostra individuazione dentro il mondo, è un’individuazione della nostra corporeità soggettiva; siamo individui [solo] nel portare a compimento i movimenti del nostro vivere, i nostri movimenti corporei cioè i movimenti in un mondo che non è una mera somma di individui, un mondo che ha un aspetto non individuale, in quanto precede l’individuo. Cosa che Kant ha intravisto nella sua concezione di spazio e tempo come forme che necessitano di essere comprese prima, se deve diventare evidente che ci sono particolari che appartengono ad una realtà unificata. È in quanto esseri corporei che siamo individui. Nella loro corporeità, gli esseri umani stanno al confine tra l’essere, indifferente a se stesso e a tutto il resto, e l’esistenza nel senso di una pura relazione con la totalità di tutto ciò che è. Sulla base della loro corporeità, gli esseri umani non sono solo gli esseri della distanza, ma anche gli esseri della vicinanza, esseri radicati, non solo esseri intimi col mondo ma anche esseri nel mondo.

(traduzione dall’inglese di Aldo Meccariello)

(La presente traduzione accoglie in vari luoghi suggerimenti e consigli di Cristina Calkioti e Vincenzo Cuomo)

* Il testo che pubblichiamo è tratto dal volume di Jan Patocka, Body, Community, Language, World (Corpo, comunità, linguaggio, mondo), Translated from the original Czech by Erazim Kohák,

Chicago and La Salle, Illinois, 1998

Si tratta di lezioni trascritte dagli allievi che l’autore tenne alla facoltà di Filosofia di Praga nell’anno accademico 1968-69.

Spazialità personale, Husserl, Heidegger è la ventesima ed ultima lezione.