Parlando d'altro
proposte di
lettura
Percorsi, innanzitutto,
quelli dell'alterità. Tracce, per dirla con Levinas. Questa sezione
della rivista intende proporre brevi recensioni di titoli significativi
(in ordine alfabetico), anche non recenti, sul tema dell'altro e delle
sue varie declinazioni disciplinari e linguistiche. Il nostro auspicio
è che la inevitabile parzialità delle scelte non privi il lettore paziente
della possibilità di ricavare autonomi percorsi di studio e di lettura.
La redazione sollecita
eventuali altre indicazioni bibliografiche che possono essere inviate
attraverso la mailing list.
Marc AUGÉ,
Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia
"aut aut",
n. 252, Retoriche
dell’alterità
Renaud BARBARAS, L’altro
Ronald BONAN, La
dimension commune
Gennaro CICCHESE, I
percorsi dell’altro, antropologia e storia
Alessandro DAL LAGO (a cura di), Lo
straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea
Jacques DERRIDA, Cosmopoliti di
tutti i paesi, ancora uno sforzo
Franco
LA CECLA, Il malinteso. Antropologia dell’incontro
Valerio MAGRELLI,
Vedersi Vedersi. Modelli e circuiti visivi nell'opera di Paul Valéry
Theo SUNDERMEIER Comprendere lo
straniero, Una ermeneutica interculturale
Bernhard WALDENFELS, "Il pensiero
interrogante. Sulla filosofia dell’ultimo Merleau-Ponty", in:
Negli specchi dell’essere. Saggi sulla filosofia di Merleau-Ponty
Bernhard WALDENFELS, "‘Vérité
à faire’. La questione della verità in Merleau-Ponty",
in: La prosa del mondo. Omaggio a Merleau-Ponty
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Marc AUGÉ, Il senso
degli altri. Attualità dell’antropologia,
trad. it. di Adriana Soldati, Torino, Bollati Boringhieri, 2000 (Saggi,
Storia, filosofia e scienze sociali), 139 p., ISBN 88-339-1257-4, L.
30.000 (€ 15,49); Le sens des autres. Actualité de l’anthropologie,
Paris, Fayard, 1994, 199 p., ISBN 2-213-59182-2, 95 F.
Nella contemporaneità il senso
dell’altro o degli altri sembra ad un tempo attenuarsi ed acuirsi nel
panorama in cui la tolleranza del diverso è sempre più
compromessa, anche se essa stessa genera, paradossalmente, la rivendicazione
dell’alterità propria nel nazionalismo, nel regionalismo, nel
fondamentalismo. Per comprendere questa paradossale dissociazione si
tratta di indagare, per Marc Augé, i complessi meccanismi che
regolano l’intreccio e il controllo della doppia polarità di
individuale/collettivo, medesimo/altro, tradizionalmente articolata
nelle feste, nei riti che accompagnano la nascita o le esperienze di
passaggio, nell’elaborazione della malattia, della disgrazia o del lutto
e storicamente indagata dalla ricerca antropologica. Ormai è
però necessaria un’antropologia generalizzata senza esotismo
e senza compiacimenti folcloristici, occorre quindi capovolgere l’esperienza
che l’etnologia ha in genere offerto dell’altro, invertendone il percorso
non tanto nel senso di "un ritorno a se stessi che si arricchirebbe
dell’esperienza dell’altro", quanto nella direzione di "un
ritorno alle domande che noi abbiamo rivolto agli altri e di cui forse
misuriamo meglio il senso e la portata quanto le rivolgiamo a noi stessi"
(p. 44).
Alla questione se il medesimo e l’altro
siano o meno la stessa cosa, l’africanista e ad un tempo etnologo della
vita quotidiana francese (sono celebri i suoi studi sulla metropolitana
di Parigi) risponde mostrando la paradossalità che caratterizza
tali tipi di indagine, l’ambivalenza ed ambiguità implicite nel
sottolineare similitudini né vere e né false, che rischiano
di tacere poi del tutto l’uguaglianza assai più fondamentale.
Un’etnologia ‘presso di noi’ (ossia un’etnologia ‘del vicino’), come
si è fatta ‘presso l’altro’ (‘l’etnologia del lontano’), rinvia
di fatto alla doppia possibilità di una ‘autoetnologia’ e di
una ‘alloetnologia’ a sua volta plurale, visti i tanti ‘altri’ cui si
riferirebbe e che potrebbero esserne i soggetti/oggetti (cfr. p. 47),
per non parlare poi dell’etnologia ‘del noi’ praticata ‘dall’altro’,
per esempio la sempre ancora assai auspicabile indagine etnologica sull’Europa
condotta dall’ex presunto ‘selvaggio’, per cui allora noi stessi diventiamo
‘gli altri’ di quel precedente ‘altro’ che è ora il vero ‘noi’
(cfr. p. 48).
In ogni caso, "se c’è una
cosa che le società concretamente studiate dall’etnologo manifestano
a tutte le latitudini, è proprio la compresenza dell’‘altro’
a tutti i livelli di identità" (105), mentre negli eccessi
plurimi della ‘surmodernità’ che si tratta ormai di indagare
(eccesso di tempo, di spazio, di eventi, di informazioni, di individualità
ed individualizzazione) il vero problema sembra essere piuttosto l’isolamento
nonostante ogni possibilità di trasporto, l’impossibilità
dell’incontro a dispetto di tutti i raccordi e gli snodi, l’indebolimento
della mediazione (dalla scuola agli organismi rappresentativi) a tutto
vantaggio dei media e del messaggio. Così l’autoetnologia di
quanto è più prossimo rischia di diventare una contraddittoria
"etnologia della solitudine" (p. 128).
(G.B.)
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Retoriche dell’alterità,
"aut aut", n. 252, novembre-dicembre 1992, pp. 1-101, ISSN
0005-0601, L. 12.000 (€ 6,20)
Dell’altro si parla in molti modi,
come Pier Aldo Rovatti sottolinea nel presentare il fascicolo dedicato
al problema (Retoriche dell’alterità, 1-8), per esempio
è Il nemico, categoria dell’alterità, proposto
da Alessandro Dal Lago (9-15), oppure sono quelle Alterità
cosmiche di una natura invisibile nella dimensione troppo piccola
o troppo grande di cui argomenta Giampiero Comolli (16-27), quell’altro
che è un’altra (Rossella Prezzo, Riserva di alterità,
29-37), l’altro di Heidegger (Fabio Polidori, Verso un’etica della
necessità, 39-46), della psicoanalisi (Graziella Berto, Estranea
familiarità, 47-55), della fenomenologia (Renato Cristin,
Molteplicità e alterità, 57-68), dell’interrogativo
religioso (Riccardo De Benedetti, L’innesto impossibile: l’alterità
imperfetta del confronto ebraico-cristiano, 69-81), L’altro io
che Edoardo Greblo tematizza con Hare (83-93), oppure L’"essere
altrove" dell’etnografia proposto da Rocco De Biasi (95-101).
(G. B.)
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Renaud BARBARAS, L’altro,
tr. it. di Luciano Andreotti, [Milano], Episteme, 1996 (Quintette filosofiche),
96 p., [ senza indicazione di ISBN]
, £ 10.000 (€ 6,20); Autrui, Paris, Quintette, 1989 (Philosopher,
11), 64 p., ISBN 2-86850-024-2, 38 F
Come in Agostino quella del tempo,
così anche la nostra esperienza degli altri, che pure è
innanzitutto l’esperienza stessa, è tanto oscura, a volerla pensare,
quanto chiara invece nell’essere vissuta. L’altro io che è il
mio pari, tuttavia non è me; ma altro è anche il mondo
oggettivo. L’ego e l’alter sembrano allora inavvicinabili
e contraddittori, visto che rimandano insieme ad un’interiorità
e ad un’esteriorità apparentemente inconciliabili tra di loro.
Attraverso un percorso che fa riferimento soprattutto alla tradizione
fenomenologica, Barbaras tematizza la sfida che il problema rappresenta
nel pensiero del Novecento, in particolare all’interno di una prospettiva
di fedeltà all’esperienza.
Si prendono le mosse da Husserl, in
particolare dal concetto di fenomeno come essere per la coscienza e
di intenzionalità come rapporto al mondo. Le argomentazioni husserliane
a proposito dell’appresentazione analogica dell’altro o relative all’esperienza
dell’estraneità dimostrano, secondo Barbaras, come il tema dell’altro
sia un vero e proprio punto limite della fenomenologia. Con Sartre l’incontro
con l’altro risulta non la negazione della mera esperienza, ma più
radicalmente l’esperienza di una negazione, ossia della mia stessa alienazione
nello sguardo dell’altro che mi fa provare il mio essere-in-mezzo-al-mondo
come parte di una bruta esteriorità e finitezza. Se è
necessario comunque problematizzare l’apertura ad un’altra esistenza,
allora l’intersoggettività di Merleau-Ponty, come intercorporeità,
fornisce nella tematizzazione del corpo un ulteriore elemento di riflessione.
È infatti precisamente il corpo proprio il terzo modo di essere
tra il soggetto e l’oggetto: soggettività incarnata, mondo nel
corpo mio, anche se resta da chiedersi, per Barbaras, in che misura
un corpo eccentrico a se stesso riesca davvero a garantire l’incontro.
Con Levinas il campo dell’alterità è affrontato senza
conferire all’essere altro la determinazione preliminare di una identità
con me. Nell’epifania del volto, nella sua nudità ed esposizione
abbiamo la vivente manifestazione dell’altro come distanza che diventa
relazione eccedente, parola originaria e vocativa prima di ogni discorso
o significazione. Nonostante ogni possibile esito teologico, secondo
Barbaras Levinas continua comunque a pensare l’etica come esperienza
e l’altro come apparizione.
Per concludere l’autore propone di
pensare l’altro non come esperienza di una trascendenza, bensì
come ambito che trascende l’esperienza in quanto tale, restando peraltro
nel campo fenomenico. Occorre pensare, per Barbaras, la divaricazione
tra ontologia ed etica cogliendo la dimensione originaria dell’esperienza
come esperienza di una comunanza.
(G.B.)
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Ronald BONAN, La dimension commune,
vol. I: Le problème de l’intersubjectivité dans la
philosophie de Merleau-Ponty, Paris/Budapest/Torino, l’Harmattan,
2001 (L’ouverture philosophique), 362 pp., ISBN 2-7475-1633-4,
190 F (€ 28);
vol. II: L’institution intersubjective comme poétique générale,
Paris/Budapest/Torino, l’Harmattan, 2001 (L’ouverture philosophique),
336 pp., ISBN 2-7475-1634-2,
170 F (€ 25)
I due volumi di Ronald Bonan, ‘agrégé’
e dottore in filosofia, docente presso l’Università della Provenza
di Aix en Provence, rappresentano un invito a rileggere il pensiero
di Merleau-Ponty dal punto di vista della questione dell’altro e dell’alterità.
Il primo volume tematizza esplicitamente
il problema dell’intersoggettività nel pensiero merleau-pontyano,
incomprensibile altrimenti nel suo complesso se non a partire dall’evidenza
quasi naturale della presenza dell’altro. Questo primato ridefinisce
e trasforma dall’interno le nozioni fondamentali della filosofia della
coscienza, per esempio quel cogito cartesiano aporeticamente
destinato a sfociare nel solipsismo e nei paradossali dibattiti da questo
suscitati, implicanti di fatto precisamente quella pluralità
di soggetti e di soggettività che si negano invece di diritto.
Quello di Merleau-Ponty è invece un pensiero che ha mirato a
riconoscere il diritto del fatto attraverso un ritorno alle cose
stesse ed una presa di coscienza del carattere primario e fondamentale
dell’intersoggettività, certo non semplicemente intesa come un
risultato, ma come il primo dei dati trascendentali. Ripercorrendo minuziosamente
l’intera opera merleau-pontyana (non solo i libri e i saggi pubblicati
in vita, ma anche i corsi universitari, gli inediti, le lettere, gli
appunti di lavoro, gli schizzi e gli abbozzi provvisori) l’autore intende
ristabilire l’unità profonda del pensiero filosofico di Merleau-Ponty.
L’intersoggettività risulta esserne il concetto chiave, grazie
al quale si evidenziano i legami che connettono tra di loro gli ambiti
diversi dell’arte, della scienza, così come della politica e
della storia, tra i quali il grande fenomenologo non ha mai cessato
di sottolineare il profondo legame.
Il secondo volume esamina le conseguenze
di questa ‘scoperta’ del primato dell’intersoggettività: l'alternativa
offerta alla filosofia della coscienza è infatti anche un’occasione
per ripensare l’arte, la politica, l’etica e la scienza da questo punto
di vista originale. Merleau-Ponty sviluppa (senza in realtà concluderla
non solo per il dato contingente della sua improvvisa scomparsa, ma
soprattutto perché una conclusione nel senso di una chiusura
sistematica sarebbe in questo caso del tutto fuori luogo) una filosofia
dell’immanenza, nella quale l’essere umano trova la vera dimensione
della sua esistenza, una dimensione che può essere definita come
‘estesiologica’. Spostando l’accento dal problema della percezione a
quello della visibilità, il fenomenologo francese ha fatto sì
che i numerosi temi che vivificano dall’interno la sua opera si ordinassero
secondo un orientamento sufficientemente chiaro, che può essere
definito come una poetica generale della carne, regionalmente
specificata poi in una politica, in un’etica e in un’epistemologia.
Il principio base della dimensione intersoggettiva è ‘messo in
opera’ anche nel senso di un quadro istituzionale, inteso in
alternativa alle difficoltà che caratterizzano invece le filosofie
della coscienza da Descartes a Sartre, passando per Kant, Hegel e Husserl.
La coerenza dell’opera merleau-pontyana è così messa di
nuovo alla prova, ma questa volta alla prova della sua fecondità.
(Ronald Bonan)
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Gennaro CICCHESE, I percorsi
dell’altro, antropologia e storia,
prefazione di Aniceto Molinaro, Roma, Città Nuova, 1999 (Idee,
Filosofia), 302 pp., ISBN 88-311-0121-8, L. 32.000 (€ 16,53)
L’interessante saggio di Gennaro Cicchese
si articola in tre parti, che rispondono a tre domande-guida: chi è
l’altro? Perché l’eclissi dell’idea cristiana di prossimo nella
modernità? Perché c’è l’altro e non solo io? Con
la prima questione si cerca di determinare lo statuto dell’alterità
nella cultura contemporanea; con la seconda, si attraversa diacronicamente
la storia della filosofia per ricostruire le avventure dell’alterità;
con la terza, ci si propone di ripensare l’altro come prossimo, trattando
l’alterità in chiave di prossimità.
Affascinante è la ricostruzione
della storia della filosofia in chiave di alterità: si parte
dalla filosofia antica, con l’altro che è il non-greco, il barbaro.
Platone affronta per primo il nesso di identità e differenza,
ponendo le basi per un discorso ontologico: l’altro è
il non essere relativo contrapposto al non essere assoluto
parmenideo. Con la sua concezione dell’uomo come essere sociale,
Aristotele è invece il precursore della filosofia contemporanea
rispetto alla questione dell’altro, ma in fin dei conti egli ritiene
che l’uomo virtuoso ami l’amico perché in quest’ultimo vede semplicemente
un altro sé. Con lo stoicismo e l’epicureismo inizia il processo
di superamento del pregiudizio culturale (per esempio nei confronti
delle donne, dei barbari o degli schiavi) in nome di ideali nuovi, come
l’universalismo e il cosmopolitismo. Con il cristianesimo poi si ridefinisce
il pensiero occidentale soprattutto attraverso "un’idea nuova d’uomo
e d’umanità, ispirata teologicamente dalla relazione
di prossimità" (p. 94).
Con l’avvento della modernità,
secondo Cicchese, l’uomo è destinato a ‘sloggiare’ dalla posizione
privilegiata che lo aveva precedentemente visto al centro della creazione
in quanto immagine stessa di Dio. Ecco allora la filosofia di Cartesio
che si chiude "in una sorta di solipsismo e intellettualismo che
non gli permette di incontrare l’altro come altro" (p. 108). L’altro
è infatti solo un alter ego, da cogliere attraverso un
processo induttivo, per analogia. Dopo un excursus sui sentimentalisti
e gli utilitaristi inglesi, si affronta quindi la filosofia di Kant,
cui si deve riconoscere di aver posto il problema dell’uomo e dell’altro
nell’orizzonte del regno dei fini e nei termini regolativi dell’etica,
per poi misurarsi con il pensiero di Hegel, e in particolare con la
dialettica servo-padrone, che presuppone un riconoscimento delle coscienze
che apre alla dimensione intersoggettiva.
Tra le figure filosofiche del panorama
contemporaneo, Cicchese tematizza soprattutto Husserl (e il gap
incolmabile tra l’ego trascendentale e la concretezza empirica
dell’altro uomo), Heidegger (con particolare attenzione per le categorie
del Mitsein e Mitdasein), Sartre (per cui non posso essere
me stesso senza l’altro, che però è anche il mio inferno),
Buber (che coglie finemente l’interrelazione del dialogo), Mounier (che
invita a cercare in ogni altro un tu, nell’ottica di un cammino di personalizzazione
delle relazioni umane), Levinas (cui si rimprovera di separare l’altro,
elevandolo troppo in alto e rendendolo irraggiungibile per l’io), Ricœur
(con la sua ermeneutica del sé) e infine il pensiero debole.
Nella parte conclusiva del testo, Cicchese
analizza, per concludere, la dimenticanza dell’idea di creazione e di
prossimo che ha caratterizzato le antropologie pessimistiche e utilitaristiche
della modernità. Si tratta, a suo parere, di riscoprire l’altro
come tu e di considerare l’altro uomo non solo come altro da me,
ma anche come altro di me, recuperando l’idea cristiana di prossimo
e di agape.
(Stefano Curci)
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Alessandro DAL LAGO (a cura di),
Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografia contemporanea,
Genova-Milano, Costa&Nolan, 1998, 316 pp., ISBN 88-7648-296-2,
L.34.000 (€ 17,56)
Chi è davvero l’altro? Il migrante,
il nomade, il profugo, lo zingaro cioè le non-persone della globalizzazione
planetaria. Di queste figure si occupa il volume collettaneo curato
da Alessandro Dal Lago "Lo straniero e il nemico".
Dodici saggi narrano l’universo dell’esclusione
ossia descrivono da angolature diverse (antropologiche, storico-sociali.
filosofiche) la condizione dei diversi tipi di "alieni", "nemici"
che minaccerebbero la convivenza del ricco Occidente o nel migliore
dei casi, tollerati come lavoratori ospiti, prossimi all’espulsione.
In realtà, l’immagine dello
straniero come nemico è all’origine della filosofia politica
moderna, la fonte creatrice dei nuovi stati e delle nuove patrie, il
modello di tutte le rappresentazioni identitarie dell’Occidente.
Lungo questa direttrice si muovono
i saggi che ricostruiscono genealogie e paradigmi dell’esclusione dentro
gli scenari inquietanti e confusi della contemporaneità. Basti
pensare alla conversione poliziesca delle politiche migratorie in Europa
e in America, quando invece pensare l’immigrazione significa ripensare
il legame sociale.
Tra i tanti saggi, segnalo quello di
Luca Burgazzoli "Lo straniero nel pensiero di Georg Simmel"
che riassume il senso del celebre testo simmeliano Excursus sullo
Straniero (1908), testo inaugurale della riflessione moderna sull’estraneità
sociale. L’essere straniero - secondo Simmel - è una particolare
forma di azione reciproca, che costringe la società a ridefinirsi
incessantemente.
(A.M.)
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Jacques DERRIDA, Cosmopoliti
di tutti i paesi, ancora uno sforzo!,
trad. it. di Bruno Moroncini,
Postfazione del Collettivo 33, Napoli, Cronopio, 1997 (tessere), 54
p., ISBN 88-85414-30-3, L. 10.000 (€ 5,16);
Cosmopolites de tous
les pays, encore un effort!, Paris, Galilée, 1997 (Incises),
58 p., ISBN 2-7186-0484-0, 66 F
Destinato al primo congresso delle città-rifugio,
tenutosi nel 1996 a Strasburgo per iniziativa del Parlamento internazionale
degli scrittori ed inteso a creare una rete di protezione per quegli
intellettuali perseguitati per motivi religiosi o politici, il piccolo
scritto di Derrida riflette sui nuovi modelli di cosmopolitismo che
propongono le città più che gli Stati ed anzi in alternativa
a quel modello di Stato che soprattutto nel Novecento ha prodotto minoranze,
apolidi, rifugiati, deportati, profughi. "Se ci riferiamo alla
città piuttosto che allo Stato, è perché speriamo
da una nuova figura della città ciò che quasi rinunciamo
ad attenderci dallo Stato" (14; 17). Si tratta di pensare "un
altro concetto, un altro diritto, un’altra politica della città"
(16; 22) all’interno di una rete di solidarietà che sia modello
di appartenenza e ospitalità. A questo proposito la tradizione
ebraica di proteggere i perseguitati da una giustizia vendicativa e
i colpevoli di crimini involontari, lo stoicismo antico, il cristianesimo
paolino, l’esempio delle città sovrane medievali o delle chiese
che offrivano immunità e poi naturalmente il lascito dell’Illuminismo
e di Kant risultano i poli di orientamento per sperimentare un luogo
di pensiero capace di dare asilo e ospitalità in vista "di
un diritto e di una democrazia a venire" (35; 58). "L’ospitalità
è la cultura stessa e non è un’etica fra le altre. Nella
misura in cui tocca l’ethos, cioè la dimora, l’esser presso-di-sé,
il luogo del soggiorno familiare quanto il modo di esserci, il modo
di rapportarsi a sé e agli altri, agli altri come ai propri o
agli estranei, l’etica è ospitalità, è da
parte a parte coestensiva all’esperienza dell’ospitalità, in
qualunque modo la si apra o la si limiti. Ma per questa stessa ragione,
e perché l’esser-sé presso di sé (l’ipseità
stessa) presuppone un’accoglienza o un’inclusione dell’altro nel tentativo
di appropriarsene, di controllarlo, padroneggiarlo, secondo differenti
modalità della violenza, c’è una storia dell’ospitalità,
una perversione sempre possibile della Legge dell’ospitalità
(che può sembrare incondizionata) e delle leggi che la
limitano e la condizionano, iscrivendola in un diritto" (26-27;
42-43).
Nell’edizione italiana la Postfazione
del Collettivo 33, che cita nel titolo la bella definizione della filosofia
data da Maurice Blanchot: "Nostra compagna clandestina" (39-54),
riflette sul contesto politico dell’attuale discussione sull’immigrazione,
anche alla luce dei paradossi contemporanei di popoli a vario titolo
rimasti senza Stato e quindi strutturalmente ‘sans papier’. Certamente
il caso degli scrittori perseguitati accolti nella rete delle città-rifugio
rappresenta una variante ‘nobile’ dell’immigrazione, pone tuttavia in
risalto la crisi di sovranità dello Stato-nazione riattualizzando
la tradizione dell’autonomia cittadina, ma soprattutto mette in evidenza
il nostro stesso essere costitutivamente degli ospiti di passaggio,
già semplicemente perché ‘venuti al mondo’, originariamente
senza identità e senza documenti, appunto come dei clandestini.
(G. B.)
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Franco LA CECLA, Il malinteso.
Antropologia dell’incontro,
Roma-Bari, Laterza, 1997, 200 pp., ISBN 88-420-5155-1
Libro originale ed anticonformista,
Il malinteso. Antropologia dell’incontro di Franco La Cecla,
sulla scorta di alcune importanti riflessioni di Wladimir Jankelevitch
(Il non so che e il quasi niente, tr. it., Marietti, Genova,
1987), mostra come il malinteso e l’incomprensione tra
le culture siano stati, storicamente, una risorsa per incontri duraturi
e fecondi.
Non è per nulla detto, infatti,
che l’incontro tra le culture possa avvenire solo in conformità
ad una comune valutazione delle situazioni di vita. Anzi, i fraintendimenti,
i malintesi (anche se non in tutte le loro forme) possono diventare
"lo spazio in cui le culture si spiegano e si confrontano, scoprendosi
diverse. Il malinteso è il confine che prende una forma. Diventa
una zona neutra, un terrain-vague, dove le identità, le
identità reciproche si possono attestare, restando separate appunto
da un malinteso" (p. 9).
Nel malinteso, nel fraintendimento,
potremmo dire, noi facciamo esperienza dell’alterità dell’altro.
Tuttavia, proprio per tale motivo, esso può divenire occasione
di "traduzione", o almeno di "onorevoli" compromessi;
ed è, in ogni caso, un’occasione per mettersi in gioco.
Quella forma di malinteso che La Cecla,
seguendo Jankelevich, chiama malinteso-beneinteso può,
anzi, divenire una buffer-zone, una zona cuscinetto in cui sperimentare
delle forme semplificate e superficiali di "incontro". Avremo
quindi i "giochi di faccia", la messa in scena di vere e proprie
maschere culturali, di cliché e stereotipi, che
spesso, sottolinea La Cecla, non sono altro che ciò che una cultura
è disposta a concedere di sé agli altri, a "dare
ad intendere" agli altri per gestire le "relazioni" da
posizione di vantaggio o solamente per poter "essere lasciata in
pace".
In tal modo il malinteso (beninteso)
può diventare uno strumento per evitare conflitti irreparabili,
oppure – qualora quest’ultimi si diano – può essere un modo di
"dare tempo al tempo" per "raffreddarli" e, a volte,
per guarirli.
Ora, il luogo dove tali malintesi tra
le culture sono più comuni e dove possono generare conflitti
ma anche feconde esperienze di traduzione sono le frontiere.
Riprendendo l’importante distinzione tra frontiera e confine fatta da
Piero Zanini (Significato del confine, Milano, Bruno Mondatori,
1997), La Cecla afferma: "il confine indicherebbe più un
limite interno o esterno da non valicare, mentre invece la frontiera
richiamerebbe l’idea che c’è un luogo, dove ‘si fanno fronte’
due diversità" (p. 133). Se questo è vero, "se
le frontiere sono il ‘faccia a faccia’ tra due compagini, due culture,
due paesi, allora è fondamentale che esse ‘abbiano luogo’ perché
siano davvero filtro e palcoscenico della differenza" (p. 134).
(V.C.)
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Valerio Magrelli,
Vedersi Vedersi. Modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul
Valéry,
Torino, Einaudi, 2002, 323 pp., ISBN 88-06-16186-5,
€ 17,50
Lo sguardo è il tema di questo
libro intenso "Vedersi Vedersi" che Valerio Magrelli
dedica a Paul Valéry, una personalità tra le più
prorompenti e creative del ‘900. I Cahiers, per certi aspetti,
ancora misteriosi, sono la vera opera-laboratorio, opera-officina del
secolo ove prevale l’abolizione del limite, il dileguarsi del canone,
l’ibridazione dei codici, dei saperi e dei linguaggi dalla luce del
loro consistere ai luoghi della loro origine e della loro formazione.
Che nulla sia più visibile da una parte sola è la consapevole
esperienza che il soggetto moderno ha del vedere, frantumato nella sua
configurazione euclidea. In Valéry, l’esercizio dello sguardo
è conoscenza perturbante e straniante. Valerio Magrelli ne indaga
tutti i risvolti teoretici ed artistici per verificare, alfine, la natura
e la consistenza del soggetto moderno. Chi guarda cosa guarda? Come
guarda? E in che misura è a sua volta guardato? Che cos’è
quella radicale esperienza del guardare e dell’essere guardato? E’ da
qui che si dipana l’incontro di Magrelli con Valéry, è
da qui si delinea l’intera costruzione del libro intorno a tre figurazioni
simboliche dell’esperienza visiva: lo schermo del vetro, l’azione dello
specchio e il ritratto fotografico. Ossia i riti e i miti valeriani
di attraversamento dell’Io : specchi, vetri, finestre , laghi immobili,
cristalli oggetti come tante trappole ottiche disvelano prepotentemente
le inevitabili fratture dell’identità moderna, la sua precarietà,
il suo inevitabile scacco. Percorso da flussi, multiplo e disgregato,
l’io di Valéry sembra derivare dalle ipotesi di Hume e di Locke
cioè un’entità priva di qualsiasi spessore e soprattutto
di una qualsiasi certezza.
Lo scarto tra l’io e la propria immagine,
riflessa o fotografata, tra il soggetto e il suo doppio è uno
dei temi centrali dei Cahiers in cui Valéry annota "
Guardarsi allo specchio non significa forse pensare alla morte ?
". E su questi temi Magrelli scava con perizia filologica e lucidità
argomentativa.
(A.M.)
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Theo SUNDERMEIER Comprendere
lo straniero, Una ermeneutica interculturale,
Brescia, Queriniana,
1999, 297 pp., ISBN 88-399-0763-7, L.28.000 (€ 14,46)
Dei tanti studi e saggi sulla figura
dello Straniero "l’ospite che forse resterà",
il volume in questione merita una speciale attenzione per l’approccio
militante e per le modalità interdisciplinari con cui si accosta
al problema dell’altro.
Theo Sundermeier muove dal presupposto
che la comprensione sia il fondamento di ogni paradigma comunicativo
e di ogni teoria ermeneutica che insegni a comprendere ciò che
è diverso senza incasellarlo nei nostri schemi.
Infatti, uno dei tratti peculiari della
riflessione occidentale sullo straniero è di averlo percepito
sempre come una nostra proiezione, come una nostra immagine. Ciò
ha provocato, come è noto, la sottomissione oppure l’annientamento
dell’altro, cioè i disastri e i genocidi dell’era moderna, almeno
a partire dalle scoperte dei nuovi mondi.
L’autore, che è docente di missiologia
ad Heidelberg con una lunga esperienza in Africa, propone una verifica
dall’interno delle varie discipline (l’etnologia, la storia dell’arte,
la filosofia e la teoria della comunicazione) dei modelli possibili
di incontro con l’altro. L’esito del bilancio è negativo. Etnologi,
artisti, filosofi non hanno mai davvero spianato la strada per una vera
e propria comprensione dello straniero benché abbiano suggerito
comportamenti etici, modi di agire in reazione all’incontro. Ad esempio
il modello filosofico predominante in Occidente è stato quello
della complementarità (lo straniero mi completa, è un
sentiero verso me stesso, mi fa conoscere i miei limiti) che si è
rivelato inadeguato e poco fecondo per un incontro tra le culture. Occorre,
perciò, spingere lo sguardo oltre l’Occidente, sporgersi su altri
orizzonti storici e culturali.
Sundermeier auspica uno scambio omeostatico
tra l’altro e me stesso, un’ermeneutica xenologica che guarda alla dialettica
di lontana e vicinanza per un’effettiva comprensione dello straniero.
In altri termini, si tratta di essere presso se stessi e nello stesso
tempo presso lo straniero, di mantenere la distanza che è vicinanza
ed include l’essere con l’altro.
(A.M.)
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B. WALDENFELS, "Il pensiero
interrogante. Sulla filosofia dell’ultimo Merleau-Ponty", in M.
CARBONE e C. FONTANA (a cura di), Negli specchi dell’essere. Saggi
sulla filosofia di Merleau-Ponty, Cernusco L. (Co), Hestia, 1993
(Studi, 2), pp. 87-103.
Soprattutto a partire dai testi dell’ultimo
Merleau-Ponty, Waldenfels problematizza un pensiero interrogante che
mantenga se stesso nella domanda senza ammutolire semplicemente in una
risposta, con riferimento soprattutto a Il visibile e l’invisibile,
la cui parte iniziale non a caso è dedicata proprio a "L’interrogazione
filosofica". Se un interrogare radicale pone in questione anche
se stesso e il proprio ordine, allora abbiamo un’interrogazione potenziata
ad autointerrogazione, certo non nel senso di una speculatività
autocoscienziale o in un autoriferimento per cui ogni domanda presupporrebbe
solo se stessa o sarebbe una domanda pura che in realtà non mette
in discussione nulla. Avremmo insomma una domanda sul domandare all’interno
di quelle duplicazioni che Merleau-Ponty amava e che spesso illustrava
in immagini fortunate e di lungo corso anche nella riflessione filosofica
successiva (si pensi solo alla ‘diplopia’ dello sguardo doppio). Se
ciò che è interrogato è in realtà esso stesso
interrogativo, allora siamo al centro di un chiasmo in cui l’interrogante
e l’interrogato si scambiano i ruoli, in uno iato analogo a quello che
accomuna e divide il toccante e il toccato, il vedente e il visto, il
dire e il detto. Se non resta nient’altro che la questione stessa (nihil
nisi quaestio ipsa), il problema è però precisamente
quell’altro da cui sorge ogni domandare, necessariamente un domandare
rispondente ad un appello, ad un’ingiunzione, ad uno stimolo
o ad un’esigenza che provengono da altrove e che fanno essere ogni domanda
già sempre un responso, certo non nel senso behaviouristico
del termine. In realtà per Waldenfels, come non si dà
mai una prima o un’ultima parola, allo stesso modo non si ha mai neanche
una domanda prima o una risposta ultima, visto che stiamo sempre necessariamente
in mezzo.
(G.B.)
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B. WALDENFELS, "‘Vérité
à faire’. La questione della verità in Merleau-Ponty",
in A.-M. SAUZEAU BOETTI (a cura di), La prosa del mondo. Omaggio
a Merleau-Ponty, Atti del convegno svoltosi nei giorni 21-23 aprile
1988 a cura del Centre Culturel Français di Roma con la collaborazione
del Goethe Institut, dell’Istituto di Filosofia e Storia della Filosofia
dell’Università La Sapienza di Roma e dell’Istituto Italiano
per gli Studi Filosofici di Napoli, Urbino, QuattroVenti, [
1991] , pp. 81-90.
Muovendosi al di fuori e al di sotto
della vecchia distinzione tra verità teoretica e verità
pratica, Waldenfels propone, con Merleau-Ponty, una radicalizzazione
del problema della verità, una verità ‘ancora da fare’,
una verità quindi che non rifugge la prassi, ma anzi assume un
carattere etico (il riferimento testuale è, per esempio, alle
Avventure della dialettica). Se la verità non è
mera adeguazione, coincidenza, corrispondenza, esattezza, allora occorre
distinguere tra una verità già bell’ e fatta (presuntamente
stabilita una volta per tutte) e la verità ‘che si fa’ in una
vera e propria genealogia del vero. Vista secondo un tale dinamismo,
la verità risulta necessariamente nella prospettiva di una distanza,
è addirittura una verità deviante rispetto a quella semplicemente
invalsa e stereotipa. Che cosa resta allora della verità, se
nel suo evento si evidenziano piuttosto faglie, frantumazioni, pluralizzazioni,
moltiplicazioni? Waldenfels risponde indicando la direzione di una razionalità
responsiva in una forma aperta di replica all’altro che non cerca
di ricomporlo e ricondurlo all’interno di una totalità, si tratta
di una ‘rispondenza’ che precede ogni ‘corrispondenza’.
(G.B.)