Antonin Artaud:
l'altro
e il suo doppio
di Marco Dotti
Occorre pensare allo scrittore (o al lettore,
ma è la stessa cosa) come ad un uomo smarritosi in
una galleria di specchi: c'è un'uscita dove manca
la sua immagine e lì c'è il mondo
Roland Barthes, Il rifiuto di ereditare
Perché non siamo noi a sapere,
ma una certa nostra condizione è quella che
sa
Heinrich von Kleist, Sulla graduale
produzione di pensieri
Chi, allora? Eh, un altro, è entrato
per la finestra. Ma se ci sono le sbarre!
Francesco Saba Sardi, Dottor sottile
1. Il presupposto: alcuni modi di intendere l'altro
Per Antonin Artaud (Marsiglia, 1896
- Ivry, 1948), la lettera, la traduzione e il disegno (1) rappresentano
mezzi privilegiati di apertura verso l'altro. Quest'apertura,
com'è ovvio, può degenerare in scontro perché,
spesso, chi ci sta di fronte è un "altro" che si nega,
non risponde, si sottrae, o aggredisce alle spalle.
Nel caso di Antonin Artaud, quest'altro
assume, di volta in volta, almeno tre connotazioni:
- l'altro con cui scrivere: un medio necessario
ad Artaud per elaborare i propri pensieri;
- l'altro a cui scrivere, per liberarlo (spesso
si tratta di compagne di sventura che Artaud, negli anni di detenzione
nella clinica psichiatrica di Rodez, chiama filles de cœur à
naître);
- l'altro contro cui scrivere, per liberarsene
(questo "altro", in particolare, è la rappresentazione
problematica di un'assenza, un fantasma contro cui insorgere, opporre
ingiunzioni o reclamare pretese assolute. Artaud vi si riferisce utilizzando
una gamma molto larga di dispregiativi - morpions, animalcules
- o alterando i nomi di Dio). (2)
2. La questione: l'incontro/scontro
con Jacques Rivière
2.1. Anche simbolicamente, la questione
dell'altro in Antonin Artaud ha un'origine certa, e un nome noto:
Jacques Rivière. Nel mese di settembre del 1924, infatti, mentre
appare (col titolo Une correspondance) il suo breve, caustico
epistolario con Rivière, in Artaud si delineano i tratti di quella
che sarà una sconcertante esperienza (e una disarmante politica)
dell'altro. Composta da undici lettere - di cui sei a firma di Artaud
(allora ventisettenne) e cinque a firma di Rivière - che vanno
dal 1 maggio 1923 all'8 giugno 1924, la correspondance nacque
in occasione del rifiuto da parte di Rivière di pubblicare su
La Nouvelle Revue Française da lui diretta alcune poesie
di Artaud. La questione del rifiuto, per Artaud, non riguarda però
il fatto di vedere o meno pubblicate le proprie poesie, ma, collocandosi
propriamente su un piano esistenziale di incontro-scontro, "investe
il problema più essenziale della propria esistenza stravolta
da un male radicato che, dal piano personale, dovrebbe trasporsi su
un piano più ampio, di coinvolgimento e di ascolto". (3)
2.2. Per comprendere a pieno
questo rapporto con l'altro - prima, dopo, oltre Rivière
- deve essere ben chiaro che Artaud orienta (tutto) il proprio lavoro
artistico su un piano rigidamente inscindibile da quello esistenziale.
Artaud si fa portatore di un significato integrale (e, in parte, integralista)
di cultura, come è ben espresso nell'apertura de L'Ombilic
des limbes (1925), un'opera giovanile composta per stratificazione
e sedimentazione di frammenti poetici: "Là où d'autres
proposent des œuvres je ne prétends pas autre chose que de montrer
mon esprit. La vie est de brûler des questions. Je ne conçois
pas d'œuvre comme détachée de la vie. Je n'aime pas la
création détachée". (4) Questa visionarietà
radicale, in cui Cardoza individua i tratti di una vera e propria "disperazione
ontologica", condurrà Artaud alla ricerca di un linguaggio
accessibile anche agli analfabeti (linguaggio che assumerà poi
le forme della glossolalia e del fragore radiofonico), (5) e alla definizione
di un tratto segnato da un'ignoranza intesa - positivamente -
come sapere vissuto dalla carne (embodied knowledge) e come conoscenza
immediatamente condivisa tra gli uomini (encultural knowledge
o general intellect). Per Artaud questo sapere non è,
in una parola, alienazione, è semmai "il prodotto
di una natura esigente, rude, difficile, profonda, aspra, intensa,
acuta, unica, rara, volitiva, collerica, penetrante, perspicace".
Questa prospettiva chiarisce anche la sua concezione dell'artista
come capro espiatorio, come martire volontario in un'epoca secolarizzata,
ma non de-sacralizzata, e ormai intrisa di millenarismo bellico. L'arte,
in questa prospettiva, "ha il dovere sociale di dare sfogo alle
angosce della propria epoca", e l'artista "che non ha accolto
nel fondo del proprio cuore il cuore della propria epoca, l'artista
che ignora d'essere un capro espiatorio, che ignora che il suo
dovere è di calamitare, di attirare, di far ricadere su di sé
le collere erranti dell'epoca per scaricarla del suo malessere psicologico,
non è un artista". (6)
2.3. Nel momento in cui lo scontro con
Rivière diventa visibile assumendo una sua dimensione pubblica,
l'anomalia-Artaud risulta formalmente costituita. Poesie inizialmente
ritenute indegne di pubblicazione diventano pubblicabili, poiché
ad esse si aggiunge un elemento destabilizzante extratestuale,
una ferita segreta (per usare il linguaggio dell'ultimo Jean
Genet) che però non si rimargina e diventa accessibile ad un
altro che può, a seconda dei casi, lenirla o aggravarne
la lacerazione. È lo stesso Artaud, molti anni dopo (nel 1946),
a darne la conferma: "Jacques Rivière me refusa donc mes
poèmes, mais il ne me refusa pas les lettres par lesquelles je
les détruisais". (7)
2.4. Riprendendo le parole di Roland
Barthes, Artaud si può considerare "ciò che, in filologia,
si definisce hapax". Da questo momento, la sua singolarità,
prosegue Barthes, non sarà mai più "quella del "genio",
e neppure quella dell'eccesso", e si manifesterà, in tutti
gli anni a venire, "in una maniera molto razionale", poiché
"Artaud scrive nella distruzione del discorso". (8) Ciò
che entra in gioco con le lettere a Rivière, quindi, non è
tanto la velleità artistica di uno scrittore alle prese con un
maldestro tentativo di autopromozione, ma la sua concreta, materiale,
capacità di presentare - anche sul piano letterario - all'altro,
e di preservare dall'altro, una sorta di individualità
integrale, carica di tutti quegli "squilibri [...] che
inevitabilmente la scrittura avrebbe rivelato" (Carlo Pasi).
2.5. L'altro è, in questo caso,
tanto il medio, quanto il termine (iniziale e finale) di un confronto
che, in ogni momento, potrebbe radicalizzarsi in conflitto. L'altro
è, però, proprio il cardine attorno a cui ruota un pensiero,
e grazie al quale impedire una totale irrappresentabilità
della creazione artistica (ciò che Artaud chiama, tra l'altro,
assenza d'opera). (9) Come ha più volte ribadito lo stesso
Artaud, senza l'apporto di quest'altro - un antagonista mite - la sua
opera non potrebbe sorgere. (10) Il rifiuto iniziale di Rivière
contribuisce, come sottolineato nell'interpretazione di un critico attento
come Carlo Pasi, (11) "alla costruzione di quello spazio "dialogico-analitico""
che permette ad Artaud di instaurare un dialogo "transferale"
in almeno sue sensi. In primo luogo, operando in lui interiormente,
nella direzione di uno "scavo" nella profondità della
propria disconnessione tra pensiero e linguaggio. In secondo
luogo, nel senso di "un'esposizione orizzontale delle proprie ricognizioni
mentali all'ascolto altrui". (12) Lo scontro con Rivière
costituisce - per chi accetti questo punto di vista, ovviamente - un
vero e proprio "piano di proiezione", che Artaud svilupperà
fino alla fine (sintomatiche, in questo senso, e in questa direzione,
risultano le sue lettere a Breton) (13) e si concluderà con l'ultima
articolazione del suo teatro della crudeltà - la trasmissione
radiofonica Pour en finir avec le jugement de dieu, 1948 - come
è stata espressa nel Préambule, scritto nell'agosto
del 1946 per il primo tomo delle Œuvres complètes. Dal
teatro, ai corpi: "le théâtre - scrive - c'est l'échafaud,
la potence, les tranchées. Le four crématoire ou l'asile
d'aliénés. La cruauté: les corps massacrés".
(14) In questo senso, come ha notato Camille Dumoulié, l'intera
esistenza di Artaud, "si potrebbe rappresentare [...] come una tragedia
del furore di cui le lettere a Rivière costituiscono l'ouverture".
(15)
3. La Lettera
sulle deportazioni
3.1. Artaud giunge nella clinica psichiatrica
di Rodez dopo anni di brutali internamenti. Qui - a dispetto degli elettroshock
- ricomincia a scrivere, inizia a tradurre, riprende a disegnare. Dopo
un primo periodo segnato da vocazioni mistiche accolte o abbandonate,
e da contorsioni mito-linguistiche sulle vicende del bastone di San
Patrizio (che sosteneva di aver riportato agli Irlandesi), (16) e, soprattutto,
dopo aver "toccato il fondo di una condizione lacerata", Artaud,
nel "momento di Rodez" (come lo ha chiamato Jean-Michel Rey),
"compie la sua rinascita e scopre, nel linguaggio scheggiato di
una nuova poesia, la nervatura essenziale del suo teatro crudele",
avviando (prima con le traduzioni da Lewis, Poe e Carroll, poi con le
lettere ed infine coi disegni) "un rapporto più creativo
con l'alterità". Lettere, disegni e traduzioni diventano
il banco di una nuova "prova dell'estraneità". (17)
Questa prova acuisce, però, anche il suo scontro con l'altro
- come usurpatore. Si nota, infatti, un'opposizione fortissima che da
un lato schiera una comunità di esiliati della parola (Artaud
e con lui: Nietzsche, Nerval, Kierkegaard, Rimbaud), e, dall'altro,
medici, preti, scrittori di fantasticherie, critici da salotto che,
per Artaud, oltre che borghesucci ("petits-bourgeois français
repus"), sono ormai envoûteurs, ammaliatori, gente
che compie strani rituali simbolici attorno al "corpo usurpato"
degli uomini. Ad una lettura approfondita, i presupposti a cui Artaud
si richiama non lasciano dubbi: lo scontro si svolge, ormai, ad un livello
essenzialmente politico: "Mais vous faites bien de la politique,
monsieur Totaud", è l'auto da fé artaudiano!
(18)
3.2. Le lettere del periodo di Rodez
occupano i tomi decimo e undicesimo delle Œuvres complètes
curate da Paule Thévenin. Qui si presenta una lettera datata
16 maggio 1946, indirizzata a Pierre Bousquet. Nella lettera in questione
è Hitler l'altro concreto contro cui scagliarsi, Bousquet
il medio a cui rivolgersi, con cui confrontarsi, e attorno al
quale far ruotare il pensiero costruendo uno spazio per la parola non
estraniata. Hitler è un usurpatore, Bousquet un altro sé.
Hitler è un ridicolo maestro di streghe che evoca spettri, lo
Hexenmeister "che non è più in grado di arrestare
le forze magiche che i suoi stessi scongiuri hanno scatenato",
(19) Bousquet, come Artaud, è un esiliato, una vittima delle
deportazioni. Hitler è un pazzo, Artaud no, "perché
i veri malati mentali non sono nei manicomi, ma sono fuori, tra di noi,
tra i conquistatori". (20)
3.3. "Non sono il solo scrittore
ad aver parlato di sortilegio", affermerà citando Là-bas
di Huysmans. Lettera e disegno sono mezzi che, disvelando il sortilegio,
permettono ora ad Artaud (dal chiuso di un manicomio) di riferire
la propria opera all'altro, o di interferire con lui, per opporsi a
progetti deliranti, alterandone, a sua volta magicamente, piani e ambizioni.
(21) In quest'ottica (un'ottica, in questo caso, fatta di poesia
bianca e di magia nera), il disegno si presenta spesso nella
forma di sort, di sortilegio, inviato a un agitatore o ad un
uomo politico (tipico esempio è il Sort à Hitler)
(22) e la lettera nella forma dell'adresse, dell'indirizzo (una
specie di monito o di lettera aperta), secondo una pratica già
sperimentata durante il periodo surrealista. Destinatari: Pio XII, il
Dalai Lama e "Dio".
3.4. Il nome di Hitler tornerà
in diverse circostanze, prima e dopo la fine della guerra, negli scritti
di Artaud. Sarà vittima della sua dissezione umoristica, del
suo tentativo di "danzarne il mito" e di espellere, con esso,
"il nero", (23) per farlo cadere nel fango. La contorsione
linguistica di Artaud è qui, propriamente, una torsione attorno
all'alterità. A parte alcune comunicazioni a convegni (comunicazioni
che, a dispetto del valore dei relatori, non vanno al di là di
una ricognizione superficiale), (24) il rapporto tra Artaud e il fenomeno
nazi-fascista è stato spesso travisato. Questa deformazione è
stata resa possibile dalla sopravvalutazione di una dedica al Führer
che, ritrovata da un medico di Rodez nel 1943, Artaud appose ad
una copia de Les Nouvelles Révélations de l'Être
(un'opera del 1937!). (25) Nell'accostarsi ad Artaud, però, non
bisognerebbe fidarsi - senza verificarne, per quanto possibile, l'attendibilità
e il rigore - di fonti indirette, o di testimonianze (seppur dirette)
che selezionano e accatastano dati senza verificarli alla luce del tessuto
complessivo della sua opera.
4. La follia non guarda altrove
"Artaud est fixé, il vivra
jusqu'à quatre-vingts ans mais n'écrira plus une ligne".
Questo impietoso giudizio viene spesso attribuito a Jacques Lacan che,
nel 1938, lavorava nella clinica di Sainte-Anne in cui si trovava anche
Artaud. (26) Chi dei due fosse il pazzo, non è dato
saperlo. Di certo, Artaud non è morto ottuagenario, ed ha scritto
ancora - soprattutto - fior di pagine. Leggiamo nei Cahiers de Rodez:
"i miei disegni non sono disegni ma documenti, bisogna guardarli
e comprendere che cosa c'è dentro". (27) Troppi lettori
artaudiani, però, sembra si siano preoccupati più di vedere
che cosa ci fosse dentro la testa di Artaud, che dentro i suoi scritti/disegni
(e oltre i suoi gridi), quasi dovessero estrarne una tranquillizzante
pietra della pazzia, un'idea fissa, forse neppure lacaniana.
In un tempo in cui l'arte è ormai
diventata innocua e addomesticabile, il folle - scrive Francesco Saba
Sardi, uno dei più sottili indagatori dei paradossi della mente
- "col suo delirio dà atto che esistono altre dimensioni
e che la logico-discorsività non è l'unica modalità
del conoscere". E se "il delirio del matto è un elogio
dell'oscurità costitutiva", (28) proprio la follia e, in
particolare, la follia consapevolmente eversiva praticata
da Artaud, rivela che "l'alterità non è defunta,
che è attingibile". (29) Dentro i suoi disegni e le sue
lettere, forse, c'è proprio questo: il tentativo - estremo, radicale,
sconvolgente - di accedere all'alterità e di aprirsi all'utopia
di una vita non alienata. (30) Ripartire dai testi, dopo tanta, troppa,
sbornia psichiatrica, anti-psichiatrica o teatrale, mi sembra un atto
dovuto. Un modo per farsi altro con, non carnefice di
Antonin Artaud.
Note:
1) Vedi S. Barber, Artaud. The Screaming
Body, London, Creations Books, 1999, pp. 33 segg. Cfr. F. Bartoli,
La maschera e il totem nei disegni di Artaud, "Il Castello
di Elsinore", IV (1989).
2) Sulle ragioni di questo scontro con
Dio, cfr. almeno L. Chiesa, Antonin Artaud. Verso un corpo senza
organi, Verona, Ombre corte, 2001, pp. 118 segg.
3) C. Pasi, "Lo specchio della
crudeltà: Antonin Artaud", in Id., La comunicazione crudele.
Da Baudelaire a Beckett, Torino, Bollati-Boringhieri, 1998, p. 91.
4) "Là dove altri propongono
opere io pretendo solamente di svelare il mio spirito (esprit).
La vita è un bruciare di domande. Non concepisco un'opera staccata
dalla vita. Non amo la creazione distaccata".
5) Cfr. almeno M. Pierssens, Écrire
en langues: la linguistique d'Artaud, "Langages", XCI
(1988) e G. Rosolato, Artaud: le cri, "Nouvelle Revue de
Psychanalise", XXXIX (1989).
6) A. Artaud, La Anarquia social
del arte, "El Nacional", 18 agosto 1936, ora in L. M.
Schneider (a cura di), Viaje al país de los tarahumaras,
México, 1975. Ne esiste un'ottima traduzione a cura di M. Gallucci
in A. Artaud, Messaggi rivoluzionari, Vibo Valentia, Monteleone
editore, 1994.
7) Cfr. E. Melon, "Della lettera,
di Artaud", introduzione a A. Artaud, Lettere a Génica
Athanasiou 1920-1940, tr. it. di V. Bono, Milano, Archinto, 1989
e P. Di Palmo, "La poesia della crudeltà", in A. Artaud,
Poesie della crudeltà, Roma, Stampa Alternativa, 2002.
8) Un altro critico d'eccezione, Luis
Cardoza y Aragon, ricorda in questo modo il tratto alchemico della scrittura
di Artaud: "lo más inaudito de Artaud, es cómo trató
el lenguaje. Es primero en quien la escritura no es antropomórfica.
Escribe como los minerales. Escribe? Imagino que imaginaba como un neolítico.
Camina sobre el fuego. Es fuego".
9) Fondamentali, a mio avviso, le osservazioni
di G. Agamben, La 121ª giornata di Sodoma e Gomorra, "Tempo
presente", XI (1966).
10) Qui rientriamo nel genere, seppur
radicale, della "confessione". Per il tipo, cfr. M.
Zambrano, La confessione come genere letterario, tr. it. di E.
Nobili, Milano, Bruno Mondadori, 1997.
11) Scrittore, saggista, traduttore,
Pasi, che insegna Storia della letteratura francese all'Università
di Pisa, è autore, tra l'altro, di saggi molto importanti sull'argomento,
su tutti: Artaud attore, Torino Bollati Boringhieri, 1999.
12) C. Pasi, "Lo specchio della
crudeltà: Antonin Artaud", cit., p. 93.
13) A. Artaud, Sei lettere a André
Breton, tr. it. e a cura di C. Pasi, con quattro tavole di Sol LeWitt,
Brescia, L'Obliquo, 1992.
14) "Il teatro è il patibolo,
la forca, le trincee. Il forno crematorio o l'istituto per alienati.
La crudeltà: i corpi massacrati".
15) C. Dumoulié, Antonin Artaud,
tr. it. di M. Guareschi, Genova, Costa & Nolan, 1998, p. 17.
16) Cfr. G. Scarpetta, "Artaud
scrive o la canna di San Patrizio", in Dell'arte ... i bordi,
Venezia, Marsilio, 1979.
17) C. Pasi, "Antonin Artaud. Impresa
anti-grammaticale su Lewis Carroll e contro di lui", in appendice
a L. Carroll, Humpty Dumpty, traduzione francese di A. Artaud,
versione italiana di G. Almansi e G. Pozzo, Torino, Einaudi, 1993, pp.
57-59.
18) A. Artaud, Dossier di Pour
en finir avec le jugement de dieu, in Œuvres complètes,
Paris, Gallimard, 1956-1991, vol. XIII, p. 284.
19) L. Parinetto, "La malia del
soggetto soggetto ovvero il sabba del capitale", saggio introduttivo
a N. Poidimai, L'utopia nel corpo, Milano, Mimesis, 1998, p.
7. Cfr. G. Galli, La politica e i maghi, Milano, Rizzoli, 1995.
20) A. Artaud, "Non sopporto l'anatomia
umana", in Id., Per gli analfabeti, Roma, Stampa Alternativa,
2002, p. 11.
21) Su questa tendenza, vedi G. Rohéim,
Magia e schizofrenia, tr. it. di F. Saba Sardi, Bologna, Guaraldi,
1973. Cfr., in particolare, G. Weisz, Palacio chamánico. Filosofía
corporal de Artaud y distintas culturas chamánicas, México,
Gaceta, 1994 e, in generale, C. Daxelmuller, Magia. Storia sociale
di un'idea, Milano, Rusconi, 1997.
22) Sort à Hitler (disegno
a matita su carta bruciata) è del settembre 1939. Cfr. S. Barber,
Artaud. The Screaming Body, cit., p. 37.
23) Cfr. L. Bersani, Artaud, Birth
and Defecation, "Partisan Review", XLIII (1976); G. Rosolato,
"L'expulsion", in Id., Revelation de l'inconnu, Paris,
Gallimard, 1978, pp. 131 e segg.
24) G.
Scarpetta, "Artaud fasciste?", in La littérature
française sous l'occupation. Actes du colloque de Reims, 30 septembre-1er
octobre 1981, Reims, Presses Universitaires de Reims, 1988 e N.
Greene, "'All the great myths are dark'. Artaud and fascism",
in G. A. Plunka (a cura di), Antonin Artaud and the modern theater,
Rutherford, Fairleigh Dickinson UP, 1994.
25) Vedi però G. Deleuze e F.
Guattari, Mille plateaux, Paris, Minuit, 1980, p. 292.
26) Cfr. i dubbi di E. Melon, "Artaud
con Lacan", in M. Margarito e S. Zoppi (a cura di), Omaggio
a Marcella. Studi in onore di Marcella Deslax, Torino, Tirrenia
Stampatori, 1992.
27) A. Artaud, Œuvres complètes,
cit., vol. XXI, p. 266. Claude Rabant, uno psicoanalista lacaniano che
ha affrontato la questione, cita però questo passo a vantaggio
di una tesi (suggestiva, invero): l'(auto-)irrappresentabilità
della follia, vedi C. Rabant, "Io, la follia, parlo", in G.
Damiani (a cura di), Elogium. Strategie della follia, Milano,
Fondazione Luigi Berlusconi, 1992, pp. 15-32.
28) F. Saba Sardi, Nascita della
follia, Milano, Mondadori, 1975, p. 181.
29) Ibid., p. 185. Nel Diario,
Franz Kafka scrive: "Che cos'è allora la non-pazzia? Non-pazzia
è stare come un mendicante davanti alla soglia di fianco all'ingresso,
marcirvi e crollare. Eppure P. e O. sono pazzi disgustosi. Ci devono
essere pazzie più grandi di coloro che ne sono i portatori".
30) Vedi J. L. Rodríguez García,
Verdad y escritura: Hölderlin, Poe, Artaud, Bataille, Benjamin,
Blanchot, Barcelona, Anthropos, 1994.