sotto giudizio
RICERCHE


Il «bisogno di confessione» nei sistemi giuridici moderni

su alcuni inediti di Michel Foucault

di Gianvito Brindisi



Soggetto, diritto, verità

Nel 1945, assunto il riconoscimento di un universale bisogno di punizione fondato sul sentimento di colpa, Theodor Reik sosteneva con forza l’esistenza di un conseguente bisogno inconscio di confessione, blando appagamento del primo nonché espressione degli impulsi soppressi. La confessione era difatti equiparata da Reik a una «ripetizione di azioni o di determinati comportamenti, sostituiti da spostamenti, e con diverso materiale emotivo, giacché le parole devono sostituire l’azione»1, in maniera tale che il sintomo stesso traducesse ai suoi occhi una confessione inconscia dinanzi all’analista e al mondo esterno. Come Freud, anni prima, aveva cercato di sostituire alle tecniche di investigazione fondate su una testimonianza divenuta oramai inattendibile la capacità dell’analista di portare alla luce il materiale psichico nascosto2, così Reik provava insomma a conquistare alla psicanalisi una funzione legislatrice nel campo del diritto, sostenendo, in linea con i cambiamenti subiti dal diritto penale nel passaggio dal giudizio sul fatto al giudizio sul movente e alla sua conseguente punizione, la necessità di indagare non tanto il bisogno di punizione che segue al crimine, quanto ciò che ne costituisce la spinta.

Quel che era dunque in questione, per Reik come per Freud, non è propriamente la confessione, bensì, rispettivamente, l’impulso inconscio a confessare come palliativo del bisogno di punizione, e la confessione delle resistenze opposte dall’accusato alla confessione stessa, resistenze che il metodo d’investigazione fondato sulle associazioni psichiche permette di rilevare sottoponendo l’imputato a delle parole-stimolo e ricavandone delle risposte-segno corrispondenti alle leggi dell’apparato psichico, facendo presa con ciò sull’«autotradimento psichico» dell’accusato. Comune a entrambi era quindi il tentativo di rovesciare l’economia della verità e della prova, sostituendo al bisogno di confessione del sistema giudiziario l’impulso inconscio a confessare del soggetto, e al sapere dell’indagine quello della psicanalisi.

Se il sogno di Reik e Freud non si è ad oggi realizzato, prestando però attenzione alla pratica giudiziaria per come questa si è sviluppata negli ultimi due secoli non si farà difficoltà a riconoscere l’ingresso della psiche individuale nel campo del diritto. Difatti, nel mentre la teoria del diritto procedeva a separare rigidamente diritto e morale, si è realizzata una massiccia moralizzazione delle tecniche punitive, la quale, come mostrato da Michel Foucault in Sorvegliare e Punire, ha dato luogo a un nuovo sapere sul soggetto attraverso la creazione di un campo di oggetti costituenti l’«anima moderna»3, nuova materia soggettiva giudicabile. Lo stesso Foucault ha evidenziato come questo sé profondo per cui la confessione ha valore di ripetizione dell’atto in forma spostata e più debole, come questo sé giacente in perpetua condizione di autoinganno, e sul quale Freud intendeva basarsi nell’esame istruttorio, si sia costituito a partire dalla strutturazione cristiana dell’esistenza individuale, a partire cioè dal lavoro condotto dal cristianesimo sul corpo sociale al fine di formare individui legati a se stessi per il tramite di una soggettività che prendesse coscienza di sé in termini di verità e nella forma della confessione. È questa una delle tesi centrali partorite da quell’analisi del dispositivo di sessualità e del corpo desiderante che è al centro del primo volume della storia della sessualità, La volontà di sapere, e che può tuttavia ripercorrersi parallelamente alle più tarde analisi nelle quali Foucault, ricentrata la sua metodologia, passa a interrogare le pratiche attraverso cui il soggetto produce l’enunciazione della verità su se stesso, nonché gli effetti prodotti da tale enunciazione sulla soggettività4. Negli anni 1980-81, a partire dal corso ancora inedito Du gouvernement des vivants e da una serie di conferenze, inedite anch’esse, dal titolo Mal faire dire vrai. Fonctions de l’aveu en justice5, l’interrogazione foucaultiana si appunta sulla necessità per il potere, ai fini del governo degli uomini, di disporre di atti di verità oltre che di obbedienza, e il tentativo di tracciare una genealogia della confessione muove dal desiderio di appurare la ragione per la quale «si è voluto legare talmente l’individuo alla propria verità, attraverso la sua verità, e attraverso l’enunciazione fatta da lui della propria verità»6, e per la quale l’individuo stesso ha accettato di legarsi alla sua verità e al potere che, per il tramite di essa, si esercita su di lui. Lo studio della confessione è perciò affidato a una «filosofia critica delle forme di veridizione» che non interroghi le condizioni per le quali un enunciato possa dirsi vero, ma che indichi «quali sono i differenti giochi del vero e del falso che si sono instaurati e secondo quali forme», vale a dire non «come un soggetto in generale può conoscere un oggetto in generale», ma «come i soggetti sono effettivamente legati in e attraverso le forme di veridizione in cui si impegnano»7.

La prima occorrenza di una soggettività che prende coscienza di sé nella forma della confessione può riconoscersi, secondo Foucault, nell’Edipo re sofocleo. È infatti Edipo il primo soggetto di un’azione di cui egli non detiene le chiavi né la significazione, soggetto che giunge a riconoscersi tale solo al termine di un percorso che ha nella parola del testimone, di colui che ha visto in prima persona, e nel giudizio del coro, i suoi punti di snodo cruciali8. E tuttavia Edipo non incarna ancora quel momento fondamentale della storia della soggettività che ha visto coincidere colui che parla con l’origine stessa della verità: Edipo non è ancora, cioè, operatore, testimone e oggetto del lavoro di verità. Ebbene, indagare la storia dei rapporti tra il sé e la verità significa innanzitutto per Foucault analizzare il processo attraverso cui ha avuto luogo questo evento fondamentale della storia della soggettività che è costituito dalla nascita dell’obbligazione di dire-vrai su di sé all’interno delle tecniche psicagogiche, obbligazione che fa del soggetto diretto l’oggetto della sua stessa parola vera, assoggettando la produzione di sé alla dipendenza dall’altro. Proprio nell’iscrizione dell’Altro nel cuore del soggetto, nell’incitazione continua a parlare di sé sotto lo sguardo altrui e nella perpetua rinuncia alla propria identità, si individuerà la formula della soggettività cristiana, indotta a riconoscersi e a confessarsi come soggetto di desiderio fino alle sue ricodificazioni psichiatriche e psicanalitiche. A differenza di Edipo, infatti, il soggetto moderno non avrà più bisogno di «essere re» per conoscere la propria verità, poiché sarà tutto il sistema culturale, sociale, religioso e istituzionale a richiedergli di mettere in discorso la sua soggettività per poter accedere alla sua stessa verità9.

Il bisogno di confessione, del soggetto come del sistema giudiziario, non risulta così iscritto, per questa via, né nella natura umana, né in una necessità antropologica o psicologica (sentimento di colpa, trasgressione dei divieti, ecc.), ma nell’ingiunzione fondamentale dell’Occidente cristiano – «dimmi chi sei!»10 –, e nelle tecniche con cui si è imposto al soggetto di divenire tale attraverso la verbalizzazione esaustiva della sua interiorità.

Posto poi che, tra le pratiche tendenti a legare l’individuo all’enunciazione della verità, quella giudiziaria riveste un ruolo di indubbio rilievo, integrando essa regimi di veridizione e tecnologie di trasformazione del soggetto, si tratta per Foucault di comprendere come l’intero corso della storia occidentale sia attraversato da un’«immensa mutazione che fa che si passi da un giudizio penale che riguarda degli atti, a una strana azione giudiziaria che ha per oggetto un principio di razionalità e di misura, la verità manifestata dell’individuo intero»11 – mutazione, beninteso, da non intendersi, pur nella sua attuale forma cristallizzata, in senso finalistico.

Anzi, proprio una prospettiva centrata sull’individuazione della genesi plurale di una pratica di sapere della soggettività che costituisce dall’esterno il senso del giudizio penale e del suo oggetto permette di riconoscere il problema genealogico nella comprensione delle modalità attraverso le quali differenti tecniche di potere e discorsi di verità hanno preso a funzionare in un’unica strategia e a determinare delle forme di soggettivazione. Si vedrà così come il «bisogno di confessione» dei sistemi giuridici moderni sia correlato da un lato alle procedure di oggettivazione del soggetto da parte delle tecniche d’esame medico-legali, e dall’altro alla soggettivazione nella forma della confessione; quest’ultima, che pure aveva visto diminuito, con l’invenzione dei sistemi giuridici moderni, il suo statuto di regina delle prove, è stata ciononostante determinante nella pratica giudiziaria ai fini della soggettivazione e del giudice, e dell’accusato.


Trasformazioni e spostamenti

Ad aprire e chiudere le conferenze sulla confessione di Mal faire dire vrai sono alcuni episodi di inceppamento della macchina giudiziaria risalenti agli anni ’70, e rappresentativi di quella che è a un tempo un’evidenza e un elemento problematico del sistema penale moderno: la necessità di conoscere il soggetto. Esemplare, in tal senso, il caso di un imputato che pur riconoscendo tutti gli elementi dell’accusa, e non negando di essere l’autore del fatto, sottoposto alle pressanti richieste del giudice rifiuta di dire altro12; esemplare anche la chiusa dell’arringa pronunciata dal futuro guardasigilli del governo Mitterand, Robert Badinter, nel processo a carico di Patrick Henry, e che valse a quest’ultimo a evitare la pena capitale: «Si può condannare a morte qualcuno che non si conosce?»13. Ma per quale motivo, si domanda Focuault, per funzionare come si deve il giudizio ha bisogno di altro che non sia la confessione del crimine da parte del soggetto? Perché chiede al soggetto un’autodecifrazione? Perché, insomma, i giudici hanno bisogno di credere di giudicare un individuo per ciò che egli è?

Ebbene, la diagnosi foucaultiana iscrive l’economia del potere giudiziario nella più grande economia del moderno potere di giudicare e di amministrare della soggettività, al confine e nell’intreccio dei poteri medico, religioso, psichiatrico. Come notoriamente sostenuto da Foucault in La volontà di sapere, è attraverso la disseminazione della confessione della sessualità e la «localizzazione multiforme»14 del suo obbligo che si è costituito il sapere del soggetto – «sapere non tanto della sua forma, ma di ciò che lo divide; di ciò che lo determina forse, ma che soprattutto lo fa sfuggire a se stesso»15 –, con la conseguenza che a caratterizzare l’età moderna è proprio questa specifica volontà di sapere relativa al sesso, produttrice di una commistione tra rituale giuridico-religioso della confessione e discorso scientifico. Tutto il complesso delle tecniche di scritturazione della soggettività – l’esame, l’interrogatorio, il questionario, il dossier – è stato funzionale alla creazione di una potente ermeneutica della soggettività per la quale colui che ascolta la confessione non è semplicemente giudice, ma «padrone della verità», padrone non solo «di esigerla, prima che sia fatta, o di decidere, dopo che è stata proferita, ma di costituire, attraverso di essa e la sua decifrazione, un discorso di verità»16, e di iscrivere la verità del soggetto fuori dal campo della colpa e del peccato, in quello del normale e del patologico. La verità del soggetto entra così in una terapeutica che consente al soggetto confessante, attraverso il dire-vrai su se stesso di fronte a chi ne ha la competenza, di guarire.

Iscrivendo successivamente tale ermeneutica nella storia dell’ingiunzione fondamentale dell’Occidente cristiano, Foucault presenta il cristianesimo come una religione che lega l’individuo a un duplice obbligo di verità – obbligo nei confronti della verità di un dogma, e obbligo di ricercare in fondo a se stessi una verità nascosta la cui verbalizzazione dinanzi a un altro è assolutamente determinante ai fini della propria salvezza –, e la cui storia è stata interamente segnata dalla tensione tra questi due poli17 dell’ermeneutica del testo (verità della fede) e della coscienza (verità del sé)18.

Per ciò che attiene all’ermeneutica del soggetto Foucault registra come nel XIII secolo, in concomitanza alla crescita del potere della Chiesa, e con uno scarto rispetto alle pratiche monastiche del cristianesimo primitivo – già pure caratterizzate dall’iscrizione dell’Altro nel cuore del soggetto e dall’incitazione continua a parlare di sé sotto lo sguardo altrui nella perpetua rinuncia alla propria identità –, la confessione sia giunta a rimpiazzare la penitenza: la sua sacramentalizzazione ad opera del Concilio Lateranense del 1215 sancisce infatti per essa, imposta annualmente ai laici, mensilmente o settimanalmente ai chierici, un «obbligo di regolarità, di continuità, di esaustività»19. Ogni colpa deve essere ora enunciata e sottoposta alla valutazione del prete, il quale, distinguendo il peccato mortale da quello veniale, vede accrescersi notevolmente il suo potere: potere che, restando all’interno di una pratica organizzata intorno a delle infrazioni e scandita da formule essenzialmente giuridiche, non si esaurisce nell’ascoltare, ma nell’indagare le colpe attraverso la pratica dell’esame di coscienza, determinando infine, a seconda dei soggetti e delle circostanze, la pena più opportuna.

Un’incisività ancora maggiore è assicurata al potere pastorale del prete dal Concilio di Trento, allorché si produce «una nuova e straordinaria estensione dei meccanismi di discorso, d’esame e d’analisi» che «introduce l’intera vita degli individui più che nella procedura dell’assoluzione in quella dell’esame generale», e che «reiscrive le forme giuridiche della legge, dell’infrazione e della pena, che avevano inizialmente modellato la penitenza, in un campo di procedimenti che sono dell’ordine della correzione, della guida e della medicina»20. Il problema giuridico della relazione, del proibito e del vietato, è ora sostituito, nella confessione, dalla cartografia peccaminosa del corpo, che determina da un lato l’isolamento della carne, correlativo di quella tecnologia di potere che è l’esame, e dall’altro una maggiore importanza attribuita al rapporto con se stessi. Contestualmente al profilarsi di un’«anatomia politica del corpo», e dunque del corpo disciplinare, viene così istituita una «fisiologia morale della carne»21 che instaura tutta una serie di nuovi effetti di luce in virtù dei quali confessante e confessore si ritrovano inseriti in rapporti complessi, in una relazione continua e analitica tra i desideri, le voluttà, i pensieri, in una valutazione del corpo desiderante che passa per il filtro discorsivo della confessione.

L’affermazione di questi meccanismi di controllo e di discorso individualizzanti e obbligatori produce però un contraccolpo: l’emergenza del fenomeno della possessione, dell’elemento convulsivo, effetto di ritorno che la Chiesa non riuscirà a padroneggiare, e del quale infine tenderà a disfarsi facendo timidamente appello al sapere medico e determinando l’introduzione della «giurisdizione del sapere medico nell’ordine della carne che la nuova pastorale ecclesiastica aveva costituito come campo»22. Nel XVIII secolo, a partire dal peccato della carne, si costituisce così un ingranaggio psichiatrico-familiare che si esercita innanzitutto sull’adolescente masturbatore, cui attribuisce una determinante potenza patogena23, e più ampiamente il discorso sul sesso è assorbito all’interno di nuovi meccanismi di potere, in una sorta di “amministrazione” della sessualità tale per cui alla polizia degli enunciati subentra una polizia del sesso stesso. Se tutto ciò è certamente collegato al dispiegarsi del sistema disciplinare, d’altra parte deve pure ricondursi alla presa in carico da parte dei governi di un nuovo soggetto politico: non i sudditi, non il popolo, ma la «popolazione», una popolazione «coi suoi problemi specifici e le sue variabili proprie: natalità, morbosità, durata della vita, fecondità, stato di salute, frequenza delle malattie, forma di alimentazione e di habitat»24. Ricondotta nell’ambito di uno specifico discorso medico-legale, la sessualità fa il suo ingresso, nella sua realtà quotidiana, sulla scena giudiziaria, parte integrante di questo nuovo dispositivo e della sua economia discorsiva. L’alterità che il dispositivo di confessione, slegando il soggetto dai suoi stessi atti, ha instaurato nel cuore della soggettività, viene presa in carico dal sapere medico, che opera una ricodificazione della carne convulsiva nel sistema nervoso e nell’istinto25, ciò che avrà un’enorme importanza tanto per l’evoluzione della psichiatria come sapere-potere, quanto per la pratica giudiziaria e per l’effettività dell’esercizio del diritto di punire.

Fino al XVIII secolo dunque, e fatta eccezione per le regole dei costumi e per le costrizioni dell’opinione, la sessualità era oggetto di codificazione e di regolamentazione da parte del diritto canonico, della pastorale cristiana e della legge civile, e si esauriva sostanzialmente nell’unica sfera legale, quella coniugale, regolata nei minimi particolari e necessario oggetto di confessione; quanto alle sessualità differenti, quella dei bambini era guardata con indifferenza, mentre il «resto» permaneva in uno statuto incerto, e la stessa «contro-natura», «caratterizzata in modo abominevole […] era percepita solo come una forma estrema di ciò che è ‘contro la legge’». A fronte di ciò, la proliferazione discorsiva dei secoli XVIII e XIX produce un rovesciamento dell’attenzione dalla sessualità coniugale – ammantata ora di maggiore discrezione – alla sessualità infantile e alle sessualità perverse dei folli e dei criminali, la cui messa in discorso segna il profilarsi di «una dimensione specifica della contronatura» rispetto alla quale la coppia coniugale non funziona più come forma legale della sessualità, ma come norma. Si distinguono da una parte le «infrazioni alla legislazione (o alla morale) del matrimonio e della famiglia e dall’altra gli attacchi portati alla regolarità di un funzionamento naturale (attacchi che la legge, d’altronde, può sanzionare)»26. La perversione e la contronatura si insinuano in quel che in precedenza era semplicemente fuorilegge, e i tribunali cessano di condannare indifferentemente l’omosessualità e l’infedeltà coniugale, lo stupro e l’adulterio, per sanzionare ora l’insieme delle piccole perversioni. Dal suo canto, la parola dell’accusato non fa che verbalizzare, nello spazio solenne dell’aula di un tribunale, ogni sua minima condotta, e i desideri, i pensieri, le irregolarità.


Il «bisogno di confessione»

La giuridificazione della confessione e dei rapporti tra uomo e Dio prodotta dal cristianesimo è parallela, afferma Foucault, a quella «grande giuridificazione della società e della cultura occidentale»27 realizzatasi nel Medioevo. Il sovrano medievale, difatti, giudice e arbitro al di sopra delle parti, non potendo mettere a rischio la propria vita e i propri beni in un aperto conflitto, interviene direttamente nella distribuzione della giustizia attraverso la figura del procuratore generale e l’introduzione della categoria di infrazione, ricorrendo dunque a quel nuovo meccanismo di verificazione che è l’inchiesta. In essa la verità è già data, così che non resti che autenticarla per il tramite della confessione e della testimonianza, che assumono nella procedura giudiziaria un’importanza fondamentale; ciò vale in particolar modo per la confessione, la cui specificità risiede ora nel suo collocarsi a metà strada tra la procedura accusatoria e quella inquisitoria, conservando alcuni caratteri tipici dell’ordalia inseriti però in un contesto di dimostrazione della verità: la confessione è «lo stabilimento di una verità e allo stesso tempo una épreuve»28.

Da un lato, dunque, la confessione ha costantemente potenziato il suo ruolo all’interno dell’istituzione giudiziaria a partire dall’età medievale e nel sistema di prove legali; dall’altro, la confessione extragiudiziaria ha nel contempo assunto nuove forme discorsive e conosciuto una più intensa applicazione sul corpo del soggetto attraverso la decifrazione della carne. E con il venir meno del sistema di prove legali, con l’emergere della categoria dell’intimo convincimento del giudice e con la ristrutturazione sociale del XVIII secolo, è proprio questa nuova forma di veridizione del soggetto a imporsi sulla scena giudiziaria, questa forma di veridizione alla quale ancora oggi, a giudizio di Foucault, non saremmo riusciti a sottrarci.

Sebbene infatti a una certa data, e precisamente intorno alla seconda metà del XVIII secolo, siano venuti meno quegli elementi (tortura, prove legali) che sostenevano la confessione conferendole importanza come prova di verità, essa non è affatto scomparsa, assumendo al contrario effetti ancor più incisivi29, e ciò per almeno tre ordini di ragioni.

Innanzitutto, la confessione chiama in causa il fondamento stesso del diritto di punire, nelle teorie, nelle legislazioni e nei codici moderni: se ciò che fonda la legge moderna è la volontà generale, allora quando qualcuno ha commesso un crimine è lui stesso che, «attraverso la legge alla quale si presume che egli abbia dato il proprio consenso o che si presume sostenga con la propria volontà, ebbene è egli stesso che si punisce attraverso l’istituzione del tribunale che emana una sentenza conformemente alla legge che si presume abbia voluto». Riconoscendo la propria violazione il soggetto riconosce cioè «la sovranità della legge e del tribunale che lo punisce e nel quale si riconosce», e in tal senso la confessione si configura come «una sorta di rito di sovranità attraverso il quale il colpevole fonda i suoi giudici a condannarlo e riconosce nella decisione del giudice la propria volontà»30: è la restaurazione del patto sociale infranto con il crimine, nonché il principio della reintegrazione del criminale nella società.

Oltre a ciò, la confessione ha il pregio di conservare, anche oltre la fine del sistema di prove legali, la capacità di rispondere al sistema della verità comune, percepibile da quel soggetto universale incarnato dal giudice attraverso il suo libero accertamento della verità. Il valore probante della confessione, quando non più codificato preliminarmente in un sistema aritmetico come quello delle prove legali, si fonda difatti esclusivamente sulla sua dimostrabilità, e dunque sull’adesione a essa di una «mente suscettibile di giudizio (dunque di verità)»31, ovvero sulla coscienza del giudice, «sovranità cartesiana o empirica» rappresentante della coscienza universale del soggetto di diritto: la confessione diviene «l’equivalente dell’evidenza in materia penale»32.

Infine, rapportata alla moderna concezione della pena – non più manifestazione della potenza del sovrano sul corpo del condannato, ma pena modulata sulla base del crimine commesso e al tempo stesso strumento di correzione e di trasformazione del criminale in un’ottica di prevenzione dei crimini futuri –, la confessione «come modo di riconoscersi colpevole costituisce il primo elemento, il primo pegno di ciò che si potrebbe chiamare il patto punitivo»33.

Dunque, se il valore della confessione si profila come fondante e funzionale rispetto al procedimento giudiziario moderno – ciò da cui scaturiscono tre ordini di implicazioni in merito al fondamento del sistema giuridico, alla verità del giudizio e al senso della pena nella misura in cui essa, rispettivamente, «reinstaura il patto implicito su cui si fonda la sovranità dell’istituzione dei giudici», «permette a colui che giudica di farlo attraverso un sapere indubitabile», e «costituisce un impegno punitivo che dà senso alla sanzione imposta»34 – ciò non di meno questo bisogno fondamentale di confessione che impregna di sé i sistemi giudiziari del XIX e del XX secolo non rimane affatto inalterato. Le profonde trasformazioni subite dalla confessione nel corso dei secoli, all’interno e all’esterno della pratica penale, e non in ultimo la sua incessante richiesta e il suo continuo rilancio ad opera di un sistema penale interessato a garantire l’universalità dei suoi fondamenti e la razionalità del suo esercizio, hanno prodotto infatti nella macchina penale degli effetti di ritorno che essa non riesce a codificare: l’istituzionalizzazione della confessione da parte e al servizio di un nuovo sistema penale ha comportato necessariamente uno sconvolgimento del sistema stesso, attraverso l’introduzione di un nuovo ordine di realtà, il soggetto confessante, per la cui padronanza gli strumenti giuridici si rivelano insufficienti.

Nella loro semiotecnica punitiva, e sempre nell’ambito di una stretta legalità, le teorie dei riformatori optano per una pena che sia in grado di trasformare l’individuo criminale: è su quest’ultimo, e più ancora sull’interesse che lo ha spinto sino al crimine, che la pena deve incidere; ed è sempre l’interesse, la «ragione del crimine», l’unità di misura che permette di articolare la pena sulle rappresentazioni del criminale, poiché è solo la comprensione del calcolo delle soddisfazioni potenzialmente ricavabili dal crimine a permettere alla pena di incidere sul suo principio e sulla sua possibile ripetizione. Nel diritto «classico», e fino ancora nei codici dell’inizio del XIX secolo, era sufficiente «che non vi fosse dimostrazione di demenza. Adesso occorre che vi sia […] un requisito esplicito di razionalità. E occorre inoltre ammettere una sovrapponibilità delle ragioni che rendono il crimine intelligibile con la razionalità del soggetto che dev’essere punito»35: da un lato, dunque, la meccanica degli interessi soggiacenti al crimine, dall’altro la razionalità del criminale che è supposta fondare il crimine stesso.

Il primo trentennio del XIX secolo è segnato però da alcuni casi giudiziari estremamente importanti nei quali la confessione, l’autoveridizione del soggetto, non riesce ad assolvere la sua funzione fondamentale, al punto da dover essere rimpiazzata da un’eteroveridizione, quella costituita dall’esame psichiatrico. Si tratta di crimini di enorme gravità, di crimini mostruosi (antropofagi e incestuosi)36, commessi da soggetti assolutamente razionali, per i quali non è possibile rilevare nessuno dei sintomi tradizionali della follia, nessun precedente, nessun delirio o disturbo nel comportamento. Ebbene, questi crimini senza ragione – ribattezzati per l’occasione da Foucault «crimini sans aveu»37 – costituiscono il punto di articolazione dei poteri medico e giudiziario, e non solo nelle teorie dei riformatori, ma anche in uno spazio regolato dalle problematiche connesse alla comprensione del criminale nell’ottica dell’esercizio effettivo del potere di punire (e non delle sue condizioni di applicabilità). Il potere di punire non può infatti esercitarsi né giustificarsi dinanzi a un crimine commesso da un soggetto di cui non riesce a dimostrare la demenza in base all’art. 64 del codice penale, dinanzi a un crimine che non ha una ragione, e non può perciò essere ricondotto entro un calcolo razionale degli interessi. Si deve punire perché non vi è demenza, ma non si può punire senza aver compreso la ragione del crimine, e così il sistema giudiziario, fallendo la sua presa del criminale, invoca l’analisi medica della sua ragione. È in tali condizioni che la psichiatria offre la sua prova di forza, palesando il problema del folle criminale, del mostro38, attraverso il raddoppiamento del crimine qualificato dalla legge nel criminale in cui era virtualmente iscritto. È così che essa risolve l’impotenza dei giudici, ricorrendo alla nozione-finzione di «monomania omicida» – forma di alienazione la cui sintomatologia si riduce a quanto è codificato penalmente come omicidio –, e spianando la strada alla patologizzazione del crimine e alla codificazione della follia in termini di pericolosità. Nell’ambito del processo, lo psichiatra si costituisce allora come uno specialista del motivo, tenuto a valutare la ragione del soggetto, la razionalità dell’atto e la loro integrazione, o meglio – poiché sta qui la soluzione del problema –, tenuto a integrare l’atto nella condotta globale del soggetto, integrazione che è fonte della sua punibilità39.

In altri termini, se i meccanismi di punizione centrati sul supplizio prevedevano che la natura del criminale potesse essere oggetto del sapere del giudice nella sola misura in cui il criminale deteneva la verità, e non in quanto autore di un crimine, di modo che, ottenuta la confessione, il sapere del giudice sul criminale era di fatto inessenziale al castigo, con il mutamento delle tecniche punitive l’esercizio del potere di punire matura il bisogno di riferirsi alla natura del criminale cercando una misura, l’interesse o ragione del crimine, che andrà a costituire l’elemento comune del crimine stesso e della punizione. E poiché i codici dell’inizio del XIX secolo non richiedono che l’assenza di demenza, e non la razionalità del soggetto articolata sull’intelligibilità dell’atto, i casi sopra richiamati pongono sì la legge in una condizione di applicabilità, ma privano il potere di punire della giustificazione necessaria al suo esercizio. Le analisi psichiatriche invocate dal giudice, d’altro canto, si pongono al livello dell’intelligibilità dell’atto, ma non possono essere iscritte all’interno del codice: la semplice dimostrazione dell’imputabilità dell’atto al soggetto, inteso come soggetto di diritto o coscienza morale, non è sufficiente, poiché l’atto in questione, che va al di là di ogni barriera morale o giuridica, obbedisce ad altre dinamiche, dinamiche che la psichiatria classificherà come «istinto», facendo di questo concetto un operatore epistemologico valido ad articolare l’una sull’altra mostruosità criminale e follia patologica, pericolo sociale e sapere medico, e servendosene per costituire la problematica dell’anormale al livello delle condotte più elementari.

Poco prima del 1870 la nozione di monomania è infatti abbandonata a favore dell’idea che la malattia mentale possa da un lato «aggredire l’affettività, gli istinti, i comportamenti automatici, lasciando pressappoco intatte le forme del pensiero», e dall’altro conoscere un’evoluzione complessa e riconoscibile a livello sintomatico anche a distanza di generazioni, in un processo cioè di degenerazione. Ebbene, siamo con ciò di fronte a un cambiamento assai significativo, capace di trascinare nell’ambito del patologico anche le più piccole infrazioni, modificando e complicando profondamente l’articolazione tra libertà, responsabilità e giudizio. Ed è qui che si inserisce l’altra filiera genealogica del sapere-potere psichiatrico, derivante dall’isolamento della carne cristiana come ricodificata dal sapere medico.

A partire da due filiere genealogiche differenti, facenti capo l’una alla problematica della follia e al crimine come sua manifestazione, l’altra all’annessione della carne pastorale da parte del sapere medico, la psichiatria è riuscita così a organizzare un campo comune dell’istinto e della sessualità, ciò che le ha consentito di presentare l’istinto «come fattore di formazione di tutte le malattie mentali e, in modo ancora più generale, di tutti i disordini del comportamento, che si tratti della grandi infrazioni che violano le leggi più importanti o che si tratti delle minuscole irregolarità che perturbano la piccola cellula familiare»40. Prima con la nozione di «monomania omicida», poi con la nuova problematizzazione dell’istinto41, la psichiatria ha fornito al meccanismo giudiziario la chiave di comprensione della ragione del crimine al di là del calcolo degli interessi e dell’utilità, e il suo ingresso nella pratica giudiziaria ha aperto al contempo la strada alla psichiatrizzazione delle condotte devianti e dunque a una penalità interessata non al soggetto di un atto, ma ai tratti caratteriali e alle variabili patologiche di un individuo inteso come virtualità di atti.

La comparsa di un’ermeneutica della soggettività era dunque già implicita nel sistema penale prima ancora che emergesse la problematica dei i crimini senza ragione, ma questi l’hanno palesata costringendo il sistema penale a interrogarsi su se stesso e a spostarsi «rispetto alla struttura di razionalità che gli apparteneva quando si è costituito alla fine del XVIII e all’inizio del XIX secolo»42. Essi hanno fatto apparire

dietro l’autore dell’atto e i meccanismi giuridicamente legittimi dell’imputazione, la questione del soggetto criminale. Essi hanno fatto intrecciare tra di loro la discorsività dell’inchiesta, che cerca di stabilire la verità del fatto, e la discorsività dell’esame, che cerca di stabilire la verità del criminale. […] Questa serie di casi ha fatto nascere l’esigenza di un altro tipo di sapere rispetto a quello che permette di stabilire i fatti43.


Di conseguenza la confessione ha subito un raddoppiamento che l’ha portata a convergere sulla soggettività. E anzi, a voler spingere ancora oltre queste considerazioni, deve convenirsi con Foucault che è stato proprio lo sviluppo dell’esame psichiatrico nel XIX secolo a illuminare «come attraverso una lente d’ingrandimento ciò che era presente e seminascosto nel bisogno di confessione iscritto nei codici costituiti alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX secolo». La richiesta di confessione rivolta al soggetto appare allora giustificata dalla necessità di far emergere non «il soggetto di diritto al quale si chiede di rendere conto di un delitto commesso», ma «una soggettività che intrattenesse rispetto al crimine una relazione significante»44. È perciò la soggettività criminale l’ordine di realtà introdotto nel nuovo sistema, ed è la sua conoscenza a costituire un problema, e per questa via a determinare la stessa possibilità per la drammaturgia giudiziaria di approdare al giudizio. Il «sogno» dei legislatori del XVIII secolo si è rivelato dunque incapace di garantire il funzionamento della macchina giudiziaria, bisognosa di qualcosa di supplementare: che l’individuo parlasse di sé, che enunciasse le passioni che lo agitavano. Una soggettività che non riesce a dare ragione del suo gesto, che non detiene le chiavi del suo discorso, non può essere articolata sul soggetto di diritto presupposto dalle istituzioni: è necessario che parli perché possa essere presa in carico da una discorsività che sia in grado di codificare il suo desiderio e di iscrivere il crimine nella condotta globale del soggetto.

Con la concezione del criminale come «individuo pericoloso» è apparsa dunque una nuova pratica di veridizione del soggetto ben lontana, nel suo significato e nella sua direttrice di sviluppo, dalle forme assunte dalla confessione giudiziaria dal Medioevo sino all’età moderna, e piuttosto riconducibile alle trasformazioni subite da questa pratica sociale all’esterno della scena giudiziaria. La fine del XIX secolo è caratterizzata infatti dalla costituzione di un’ermeneutica del soggetto

che è evidentemente nelle sue forme e nei suoi obiettivi estremamente differente da ciò che si era potuto trovare nella pratica della spiritualità cristiana, dove l’ermeneutica del soggetto consisteva essenzialmente in una messa in discorso dei segreti della coscienza attraverso la procedura dell’esame permanente di se stessi e della verbalizzazione esaustiva indirizzata ad altri45.

A fronte di ciò, la nuova ermeneutica del soggetto si configura come un’ermeneutica che ha dei principi di decifrazione prossimi a quelli dell’analisi di un testo, e «questa ermeneutica del soggetto in forma di decifrazione di un testo deve permettere di radicare i comportamenti di un soggetto in un insieme significativo»46, di iscrivere cioè il crimine in un contesto significante. La significazione di un crimine deve essere dunque affidata a un sapere capace di codificare il discorso del soggetto47.

Psichiatria e diritto si ritrovano in tal modo coinvolti in un meccanismo di rilancio reciproco: allorché la psichiatria prende a operare sulla scena giudiziaria e nella macchina amministrativa con l’esplicito compito di diagnosticare il pericolo, o rischio sociale48, essa modifica il suo sapere, ma nel contempo, ampliando il campo sintomatologico, estende il suo intervento all’ambito intero di quelle condotte che rappresentano uno scarto rispetto al loro referente normativo (regolarità amministrativa, familiare e politico-sociale). Viceversa, il giudizio penale non ha chiamato in suo soccorso la scienza psichiatrica senza essere stato immediatamente coinvolto in una trasformazione della sua logica interna: esso ha infatti recepito le valorizzazioni sintomatologiche della psichiatria, ha accolto il raddoppiamento psicologico-morale del delitto e l’ha inserito nel suo processo valutativo, facendo in modo che la sentenza funzionasse come un discorso di verità e come una terapeutica49, e al contempo snaturandosi rispetto al suo criterio di universalità – spostato dalla (trasgressione della) legge alla (deviazione dalla) norma.

Il bisogno di confessione della pratica penale moderna non muove più, dunque, dalla semplice esigenza di restaurare il patto sociale violato dall’atto criminoso sancendo l’adesione del soggetto criminale alla sua trasformazione, bensì dal tentativo di trasferire l’oggetto del giudizio dall’oggettività dell’atto alla soggettività del criminale. Quel che ora chiedono i giudici è che il criminale dica qualcos’altro oltre a riconoscere di essere l’autore del delitto, che parli del perché, del senso del suo crimine; è questa la ragione per la quale la confessione viene rilanciata, riscritta e indicizzata su di un altro piano. Il giudizio, insomma, non è più in grado di ricevere legittimità e fondatezza dal riconoscimento, da parte del criminale, del proprio atto criminoso, ma può piuttosto funzionare solo nella misura in cui sa chi è colui che sta giudicando. Il diritto ha cioè introdotto nel suo sistema gli andamenti della descrivibilità psichiatrica dell’individualità al prezzo di una trasformazione dei criteri per i quali si crede legittimo giudicare e punire50. E non solo, poiché nella misura in cui la psichiatria si costituisce come sapere in grado di codificare ogni irregolarità prodottasi all’interno di ambiti di condotte estesi all’intero campo sociale, se da un lato il giudizio giuridico, appoggiandosi al codice psichiatrico-disciplinare, diviene un giudizio di anormalità, dall’altro il discorso stesso del soggetto su di sé si configura come discorso normativo e obbedisce alla partizione normale/anormale, a quella normatività generatasi nel soggetto al livello del processo di valorizzazione psichiatrico. Una normatività, questa, interiorizzata, che si impone attraverso una richiesta di autodecifrazione sempre più analitica, attraverso un movimento di sempre maggiore introspezione del soggetto che traduce a sua volta una nuova configurazione del potere, una sorta di polizia dell’anima, una credenza nella necessità di mettere in discorso la propria interiorità indirizzandola a un altro al fine di scoprire la verità su di sé. E tuttavia, in questa riscrittura del potere di giudicare, la confessione è anche «la spina, la scheggia, la piaga, la linea di fuga, la breccia di tutto il sistema penale»51.

   
    Drammaturgia processuale

    Il condannato che rifiuti di parlare di sé pone dunque un problema per la coscienza giudicante dei giudici e dei giurati, per il buon fine della drammaturgia giudiziaria, ciò che rende a questo punto necessarie delle ulteriori considerazioni in merito all’atto del dire-vrai e ai suoi effetti di soggettivazione.

Perché un atto linguistico possa qualificarsi come confessione è necessario, secondo Foucault, che colui che parla affermi qualcosa a proposito di se stesso, che questo passaggio dal non dire al dire comporti un certo costo di enunciazione, e che, soprattutto, il soggetto confessante sia (per il potere) un soggetto libero, un soggetto che nel dire si impegni a essere ciò che afferma di essere, e che così facendo da un lato permetta al potere di aver presa su di lui, e dall’altro modifichi il rapporto con se stesso, con il proprio crimine, il proprio amore, la propria follia. Non che il criminale, riconoscendo di esser tale, cessi con ciò di esserlo; semplicemente, la sua enunciazione dà luogo alla produzione di una nuova qualificazione del soggetto.

La confessione è dunque «un atto verbale attraverso il quale il soggetto, in una affermazione su ciò che è, si lega a tale verità, si pone in un rapporto di dipendenza dall’altro e modifica allo stesso tempo il rapporto che ha con se stesso»52. Essa non costituisce un semplice elemento simbolico della scena giudiziaria, poiché «non rinvia ad altro rispetto a ciò che accade effettivamente sulla scena giudiziaria, ha i suoi effetti su di essa, in essa, a partire da essa», né può inquadrarsi come un elemento performativo, nella misura in cui l’accusato «che si dichiara colpevole non si trasforma per il fatto stesso della dichiarazione in colpevole»53. La confessione è piuttosto un elemento drammatico – drammatico non come «una qualunque aggiunta ornamentale, ma [come] ogni elemento che in una scena fa apparire il fondamento di una legittimità e di senso di ciò che vi si svolge» –, e per ciò stesso è parte della drammatica giudiziaria, che in quanto tale, «a differenza del simbolico e del performativo, che non conoscono gradazioni, […] è suscettibile di intensità differenti»54. Senza smettere di rappresentare il fondamento di legittimità e di senso dell’azione che si svolge sulla scena giudiziaria, la confessione è dunque al contempo capace di produrre intensità differenti nell’azione stessa fino a impedirle di svolgersi se non nella maniera in cui le si chiede di farlo. È per questa ragione che l’attenzione di Foucault si concentra principalmente sul disfunzionamento della confessione e sui blocchi che essa può causare al funzionamento della macchina giudiziaria, della procedura, e al suo stesso fondamento di senso, ossia al suo gioco di verità e alla sua normatività.

Quand’anche non le si ritenga totalmente convincenti55, le analisi foucaultiane del performativo possiedono perciò l’indubbio pregio di spingersi oltre le analisi linguistiche, introducendo la storia e i rapporti di forza all’interno del discorso giuridico, e presentandoci così un’altra genesi di un istituto giuridico. Nel merito, assunto che ciò su cui gravita l’interesse foucaultiano non è la confessione dell’atto, bensì la confessione di chi si è, e che tuttavia i fondamenti della nostra ragione penale non contemplano (non al livello del codice, almeno) l’ipotesi di un homo criminalis, il dato davvero importante, agli occhi di Foucault, è che una specifica forma di dire-vrai possa fornire un fondamento di senso e di legittimità al mondo giuridico a partire da un extragiuridico, come è vero che l’extragiuridicità della confessione comporta sì una crisi del discorso giuridico e del suo fondamento, ma al tempo stesso costituisce e fonda la possibilità di dare un senso alla pena. È ancora a questo titolo che la confessione si configura come un elemento drammatico e non performativo, nella misura in cui la drammatica implica il fondamento di una credenza e insieme la possibilità di un suo sconvolgimento ad opera di ciò che la fondava in verità, nonché un conflitto (tra saperi, poteri e forme di soggettività) e un meccanismo di riconoscimento.

Nell’affermare che il colpevole che confessa non si costituisce come tale per il semplice fatto di aver confessato, non è solo in questione che l’imputato si creda o meno colpevole, ma piuttosto che lo ritenga o meno colpevole il giudice, al livello tanto della coincidenza di colui che parla con ciò di cui parla, quanto del presunto grado di coinvolgimento della sua volontà56. È perciò in relazione all’altro che il soggetto, come effetto del dire-vrai su di sé, prende a intrattenere un rapporto diverso con la sua colpevolezza. Di conseguenza, l’assoggettamento specificamente giudiziario prodotto dalla confessione implica che la costituzione di sé come soggetti di diritto passi per un dire-vrai su di sé e non sull’atto: la “soggettività giuridica” prende forma, cioè, nella misura in cui si lega a un dire-vrai come atto di verità che restaura uno stato di obbedienza rispetto all’altro modificando al contempo il rapporto che il soggetto intrattiene con se stesso.

Il gioco delle intensità differenti della drammaturgia giudiziaria deve dunque intendersi come quella tensione tra differenti forme di soggettivazione – vale a dire tra differenti forme di coscienza di sé, tra quelle diverse modalità di identificazione e riconoscimento di sé e dell’altro che si realizzano attraverso la verbalizzazione della propria interiorità da parte dell’accusato – che ha luogo sulla scena giudiziaria. La confessione che si richiede all’imputato è difatti non il riconoscimento del delitto, ma il controinvestimento ortopedico del discorso sull’interiorità. Una volta catturati dal dispositivo di sessualità, dalla discorsività disciplinare, una volta divenuti psichiatrizzabili, il corpo, il desiderio e il discorso del criminale sono suscettibili di instaurare un nuovo gioco di verità sulla scena giudiziaria, un gioco nel quale il soggetto può costituirsi come colpevole solo a patto di svolgere su di sé un discorso corrispondente a quanto gli è suggerito (prima, durante e dopo il processo in senso stretto) dalla stessa discorsività in cui è preso. Colui cui si chiede di parlare è un soggetto già piegato e normalizzato dalla pratica disciplinare e dalla normatività psichiatrica, un soggetto che non preesiste al discorso che l’ha oggettivato e che ora gli chiede di esplicitarlo sulla scena del giudizio.

Ma quando il criminale non risponda a questa normatività si vuole che sia, quando rifiuti di mettere in scena la propria interiorità, quando il suo discorso non corrisponda insomma al suo essere funzione-soggetto del sistema disciplinare, la macchina giudiziaria entra in un blocco. È questo «resto» della scena giudiziaria, questo soggetto che impedisce di giudicare, nonostante l’intervento del sapere psichiatrico, a impedire che la drammaturgia del processo vada a buon fine e che si produca l’effetto drammatico del riconoscimento, effetto precluso tra l’altro allo stesso giudice, il quale non si costituisce come tale se non nel medio dell’assoggettamento-soggettivazione del giudicabile, se non nella misura, cioè, in cui il discorso dell’accusato ponga le basi per stabilire una diversa qualificazione del rapporto che questi intrattiene con il suo crimine permettendo così al giudice di ritenerlo, in virtù del giudizio di graduazione della colpa, correggibile o incorreggibile.

Risulta perciò chiaro come giudicante e giudicato siano presi entrambi in questa épreuve, nella normatività e discorsività psichiatriche, giocando un ruolo che sembra ripetere in forme semplificate lo schema ottocentesco dell’interrogatorio tra la lo psichiatra e il folle57. La confessione provocata dall’interrogatorio psichiatrico permetteva infatti, a un tempo, al soggetto folle di costituirsi come tale e di potersi liberare dalla follia attraverso il riconoscimento del sintomo, e al medico di costituirsi come custode del folle traendo dalla confessione stessa la garanzia dell’efficacia medica del suo trattamento. Analogamente il criminale, soggetto pericoloso, è chiamato a mettere in discorso il proprio sé perché solo in tal modo, quando il male si sarà mostrato, egli potrà intrattenere un rapporto diverso con il proprio crimine (correggibile), e garantire al giudice che la sua non è una semplice punizione, ma un atto terapeutico. Questo, a sua volta, andrà a essere specificato dall’ortopedia detentiva in vista di un possibile reinserimento del criminale nella società, ma solo una volta che il soggetto si sia dimostrato adeguato alla prigione e alla sua disciplina, solo a patto cioè che non si sia dimostrato incorreggibile. Il giudizio penitenziario funziona dunque in senso stretto come luogo della messa alla prova dell’individuo rispetto alla sua pericolosità e alla possibilità della sua riammisione nel consesso umano: di conseguenza, nel caso il soggetto non si conformi alla disciplina, lo si riconoscerà, se pericoloso già in prigione, ancor più in società, e tale prova detentiva offrirà a un tempo concretezza alla possibilità che sia proprio lui, nel caso in cui non abbia confessato, l’autore del crimine58.

Il reale sospinto dalla confessione sulla scena giudiziaria non si esaurisce insomma nel mero riconoscimento del fatto, ma in un discorso su di sé che realizza in qualche modo il fatto criminoso stesso, permette di valutarne la ragione e gli conferisce retroattivamente una realtà qualificata: è la qualificazione del soggetto a realizzare la verità del fatto e a fugare le difficoltà dell’indagine, è la sua confessione a fornire materiale “certo” al giudizio penale59.

Tra l’atto (esterno) e il soggetto (interno), nel processo moderno, non vi è perciò che una separazione puramente illusoria, poiché il bisogno di confessione richiesto dal sistema giuridico è precisamente il prodotto, l’effetto di un regime discorsivo e di potere una delle cui linee filiative fa capo a quell’ermeneutica del soggetto maturata al di fuori dell’evoluzione interna al sapere giuridico, al confine tra il bisogno di confessione del sistema giudiziario moderno e la sua trasformazione ad opera del sapere-potere psichiatrico.

Il dire-vrai giudiziario non può dunque scindersi dal suo uso effettivo in un orizzonte quale quello processuale, e quest’ultimo dalle tecnologie di potere e dalle discorsività a lui eterogenee che lo fanno funzionare. Resta alla filosofia del diritto da prendere in considerazione la pluralità dello spazio e dell’esperienza giuridica, e con ciò la possibilità che il diritto non funzioni a partire dal suo fondamento60. A volerne prefigurare il percorso, le modalità di classificazione prognostica e preventiva delle nuove tecnologie neuropsicologiche e delle correzioni farmacologiche61 pongono in tal senso nuovi problemi alla riflessione filosofica, alla pratica giudiziaria e alla più ampia riflessione sulle antinomie della nostra ragione penale.


Note con rimando automatico al testo

1 T. Reik, L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano 1967, p. 184.

2 Cfr. S. Freud, Diagnostica del fatto e psicoanalisi, in Id., Opere, V, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 238-250; cfr. al riguardo F. Ewald, Lo psicanalista e il giudice istruttore, in “Ornicar? Bulletin périodique du champ freudien”, 3 (1979), pp. 85-96.

3 Cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993, p. 26.

4 Si tratta certo di analisi differenti, e tuttavia comparabili in forza di un filo rosso che sembra svolgersi dal lavoro collettivo sul caso Rivière (cfr. M. Foucault, a cura di, Io, Pierre Rivière avendo sgozzato moa madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, Einaudi, Torino 2000), al corso al Collège de France del 1974-1975, Gli anormali, Feltrinelli, Milano 2004, passando per La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 2003, fino a un fondamentale intervento del 1978, La nozione di “individuo pericoloso” nella psichiatria legale del XIX secolo, in M. Foucault, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste. 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 43-63, ripreso poi integralmente nell’ultima conferenza di Mal faire dire vrai. Si tratta qui sempre di una storia che mostra le forme di emergenza dei giochi di verità, o meglio, come sottolinea Mauro Bertani, di «una storia che deve innanzitutto determinare le condizioni di tale emergenza, ‘i suoi effetti sul reale’ e le modalità che han fatto sì che tale emergenza abbia potuto costituire, per un certo tempo e per determinati individui, l’a priori storico di un’esperienza possibile» (M. Bertani, Pro-memoria, in M. Foucault, Il discorso, la storia, la verità. Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Einaudi, Torino 2001, p. 358).

5 Cfr. M. Foucault, Du gouvernement des vivants, corso al Collège de France del 1979-1980 conservato nel Fonds Michel Foucault presso gli archivi dell’Imec, a Caen; nonché Id., Mal faire, dire vrai. Fonction de l’aveu en justice, raccolta di una serie di conferenze tenute da Foucault all’Université Catholique de Louvain nel 1981 su invito dell’Ecole de Criminologie della Faculté de Droit e conservata anch’essa negli archivi dell’Imec. Un riassunto di queste ultime conferenze è in J. François, “Mal faire dire vrai”. Le lezioni di Michel Foucault a Lovanio [1981], “aut aut”, 331 (2006), pp. 67-81. Di tali inediti saranno citati nelle pagine che seguono diversi brani nella nostra traduzione.

6 M. Foucault, Mal faire, dire vrai…, cit., conferenza introduttiva, p. 12.

7 Ivi, p. 13. Poco prima così Foucault precisava il suo interesse per l’atto dell’enunciazione e non per l’asserzione: «Si sa bene che quando qualcuno enuncia qualcosa, bisogna distinguere l’asserzione e l’atto di dire-vrai, la veridizione (wahr-sagen come diceva Nietzsche)».

8 Cfr. ivi, I conf., p. 1-20, nonché Id., Du gouvernement des vivants, cit., lezioni del 9, del 16 e del 23 gennaio 1980.

9 Id., Du gouvernement des vivants, cit., lezione del 26 marzo 1980. Per Foucault, d’altronde, un discorso che faccia dell’obbligo per il soggetto di dire la verità su di sé un portato del complesso di Edipo ha come unico effetto di spostare il cardine dell’obbedienza.

10 Ivi, lezione del 20 febbraio 1980.

11 Id., Mal faire dire vrai…, conf. intr., p. 18. Così Foucault in precedenza: «È nel quadro di questo problema generale – dire-vrai e giudicare – che vorrei studiare il problema della confessione». In quanto forma particolare di dire-vrai la confessione dovrà perciò essere studiata: «1) come arma nelle relazioni tra individui; 2) come modificatore di potenza in quelli che parlano; 3) come elemento all’interno di una struttura istituzionale» (ivi, I conf., p. 1).

12 Ivi, conf. intr., pp. 17-18. Questo il «monologo interrogativo» del presidente del tribunale nei confronti dell’accusato, come riportato in M. Foucault, L’evoluzione della nozione di“individuo pericoloso”…, cit., p. 43: «‘Ha cercato di riflettere sul suo caso?’. Silenzio. ‘Perché, a ventidue anni, si scatenano in lei simili violenze? Lei deve compiere uno sforzo analitico. Solo lei possiede le chiavi di se stesso. Me lo spieghi’. Silenzio. ‘Per quale motivo lo rifarebbe?’. Silenzio. Allora un giurato prende la parola e esclama: ‘Ma, insomma, si difenda’».

13 Id., Mal faire dire vrai…, cit., VI conf., p. 29. Cfr. anche Id., L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso”…, cit., p. 44.

14 Id., La volontà di sapere, cit., p. 59.

15 Ivi, p. 65. Cfr. inoltre ibidem: «La causalità del soggetto, l’inconscio del soggetto, la verità del soggetto nell’altro che sa, il sapere in lui di quel ch’egli stesso non sa, tutto ciò ha potuto dispiegarsi nel discorso del sesso. E non in ragione di qualche proprietà naturale inerente al sesso, ma in funzione delle tattiche di potere che sono immanenti a questo discorso».

16 Ivi, p. 62.

17 Cfr. Id., Du gouvernement des vivants, cit., lezione del 20 febbraio 1980.

18 Cfr. Id., Mal faire dire vrai…, cit., V conf., p. 4: «È qui che per la prima volta ad assumere valore interpretativo è l’atto verbale in sé, la sua intensità e la sua drammaticità».

19 Id., Gli anormali, cit., p. 157.

20 Ivi, pp. 164-165. Sui rapporti tra Concilio di Trento e Inquisizione, cfr. A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 1996.

21 M. Foucault, Gli anormali, cit., p. 173.

22 Ivi, p. 196.

23 Ivi, p. 245.

24 Id., La volontà di sapere, cit., pp. 26-27.

25 Cfr. Id., Gli anormali, cit., p. 197.

26 Id., La volontà di sapere, cit., pp. 38-39.

27 Id., Mal faire dire vrai…, VI conf., p. 2.

28 Ivi., p. 4.

29 L’originalità di questa valutazione foucaultiana si può ben misurare quando si pensi che generalmente i sistemi giuridici moderni, sotto la spinta dell’ideologia umanitaria, sono andati caratterizzandosi per un drastico rifiuto della tortura, e conseguentemente per una forte riduzione del valore accordato alla confessione stessa. Cfr. al riguardo G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. Assolutismo e codificazione del diritto, Il Mulino, Bologna 2003, p. 391.

30 M. Foucault, Mal faire dire vrai…, VI conf., pp. 7-8.

31 Id., Gli anormali, p. 18.

32 Id., Mal faire dire vrai…, VI conf., p. 9.

33 Ibidem.

34 Ibidem [nostri i corsivi].

35 Id., Gli anormali, p. 108.

36 Cfr. ivi, pp. 91-99, dove Foucault evidenzia come quella di mostro sia innanzitutto una categoria giuridica e un fantasma politico, prima che psichiatrico.

37 Cfr. Id., Mal faire dire vrai…, cit., VI conf., p. 14.

38 Cfr. Id., Gli anormali, pp. 103-106.

39 Id., La nascita della nozione di “individuo pericoloso”…, cit., pp. 52-53.

40 Id., Gli anormali, cit., p. 246.

41 Cfr. ivi, pp. 120-148.

42 Id., Mal faire dire vrai, cit., VI conf., p. 11.

43 Ivi, p. 15.

44 Ivi, p. 11.

45 Ivi, p. 25.

46 Ibidem.

47 Se si è disposti a riconoscere nella contrapposizione tra soggetto della legge e soggetto della verità una sorta di paradigma dei conflitti sorti intorno alla morale e alla religione a partire dal cristianesimo, non si farà difficoltà a rintracciare altresì questo medesimo paradigma nella difficoltà di articolare l’uno sull’altro soggetto di diritto e homo criminalis.

48 L’individuo che può essere riconosciuto responsabile attraverso il collegamento dell’atto commesso al rischio di crimine insito nella sua personalità, e senza la necessità di doverne determinare libertà o colpevolezza, trova la sua esatta corrispondenza nella responsabilità civile determinata a partire da un calcolo del rischio. Paradossalmente è proprio il diritto civile, attraverso la categoria di rischio, a rendere «possibile l’innesto nel diritto criminale di ciò che vi era d’essenziale in alcune tesi della criminologia coeva» (Id., L’evoluzione della nozione di “individuo pericoloso”…, cit., p. 58). Il diritto «dà spazio a questa nozione con l’idea di responsabilità senza colpa e l’antropologia, la psicologia e la psichiatria con l’idea di imputabilità senza libertà» (ivi, p. 60). Di fronte allo sviluppo delle tecniche industriali, alla crescita delle strutture urbane, all’intensificazione dei trasporti, nasce infatti, in relazione ai rischi ai quali i terzi si ritrovano esposti per negligenza di chi non è però in grado di assumerne la responsabilità civile e di risarcirne i danni, una responsabilità senza colpa: una responsabilità che non si fonda più cioè sulla colpa, ma sul rischio, e nella quale il risarcimento ripara gli effetti del rischio ed attenua il rischio futuro. Trattandosi dunque, in questo caso, di individuare non una colpa, ma una concatenazione di cause ed effetti, di rischi connessi all’uso di determinate attrezzature o a determinate azioni, potremmo domandarci con Foucault «che cos’è un criminale nato, un degenerato o una personalità criminale, se non qualcuno che, secondo un concatenamento causale difficilmente ricostruibile, ha un indice particolarmente elevato di probabilità criminale, perché porta dentro di sé un rischio di crimine?» (ibidem).

49 Ad ogni modo, «tutti gli effetti epistemologici, che sono anche tecnologici, sono apparsi a partire da un gioco, da una determinata distribuzione e ingranamento di diversi meccanismi di potere, gli uni caratteristici dell’istituzione giudiziaria, gli altri caratteristici dell’istituzione o piuttosto del potere e del sapere medico. È in questo gioco tra i due poteri, nella loro differenza e nel loro ingranamento, nei bisogni che essi avevano l’uno dell’altro, nel loro sostegno reciproco, che si è realizzata la trasformazione» (Id., Gli anormali, cit., p. 124).

50 Va da sé che il fine dell’analisi di Foucault consiste nel far cadere la possibilità che il diritto, o meglio il potere normalizzatore, tenta di procacciarsi attraverso la perizia, possibilità di fondare il suo potere di punire sulla credenza nella legittimità (creata dalla perizia stessa) tanto dell’oggetto della pena e del giudizio (l’anima, l’individuo come virtualità di atti), quanto del criterio di universalità (la norma) per la deviazione dal quale si ritiene opportuno punire ed essere puniti. È infatti l’abbassamento della soglia di descrivibilità dell’individuo a determinare l’abbassamento del «livello a partire dal quale diviene naturale e accettabile l’essere puniti» (Id., Sorvegliare e punire, cit., p. 335).

51 Id., Mal faire, dire vrai…, cit., VI conf., p. 28.

52 Cfr. ivi, conf., intr., pp. 9-10.

53 Ivi, VI conf., p. 10 [nostro il corsivo].

54 Ibidem.

55 P. Napoli, Le arti del vero. Storia, diritto e politica in Michel Foucault, La città del sole, Napoli 2002, pp. 353-361.

56 D’altronde Foucault ha spesso affermato che il discorso psichiatrico si indirizza alla coscienza del giudice prima che alla psicologia del delinquente (cfr. ad es. M. Foucault, L’angoisse de juger, in Id., Dits et écrits. 1954-1988, Gallimard, Paris 1994, III vol., p. 297).

57 Cfr. Id., Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-1974, Feltrinelli, Milano 2004, pp. 232-241. Non a caso, nella conferenza introduttiva di Mal faire dire vrai…, pp. 1-10, Foucault richiama proprio questo tipo di interrogatorio, e in particolare l’esempio offertone da Leuret, che mette in atto un peculiare trattamento della follia consistente nel tentativo di condurre il folle, sotto la minaccia di una doccia, a riconoscere la propria follia, a confessarla, sottoscrivendo così un vero contratto «manicomiale». In effetti, se Leuret reclama il riconoscimento da parte del folle della propria follia nonostante il carattere manifesto del suo delirio, ciò è dovuto proprio al costo di enunciazione che si produce nel passaggio al dire, nella misura in cui «il non-dire aveva un senso preciso, un motivo particolare, un valore importante» (ibidem).

58 Cfr. al riguardo Id., Préface, in Id., Dits et écrits, cit., IV vol., pp. 7-9. Sul punto cfr. S. Legrand, Les normes chez Foucault, Puf, Paris 2007, p. 252.

59 Cfr. M. Foucault, Del buon uso del criminale, in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti Edizioni, Palermo 2009, p. 101.

60 Cfr. al riguardo A. Berten, Intervista a Michel Foucault (1981), in “aut aut”, 331 (2006), p. 59.

61 Cfr. sul punto M. Bertani, P. A. Rovatti, Prefazione, in M. Foucault, Follia e psichiatria. Detti e scritti (1957-1984), Cortina, Milano 2006, pp. IX-XVII.





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