Per una
teoria del giudizio in Hannah Arendt
di Aldo Meccariello
1. Che cosa facciamo quando giudichiamo? Potrebbe essere questa la domanda filosofica fondamentale con cui Hannah Arendt affronta il problema del giudizio che tra le facoltà umane, - «la capacità di discernere giusto e sbagliato, bello e brutto» - occupa un ruolo centrale, risultando allo stesso tempo “la più politica fra le attitudini spirituali dell’uomo”. «Si tratta della facoltà che giudica i particolari senza sussumerli sotto quelle regole generali che si possono insegnare e apprendere finché non si convertano in abitudini, sostituibili da altre abitudini e da altre regole»1 e della facoltà più difficile da concettualizzare. Ne sapeva qualcosa lo stesso Kant che «aveva scoperto una facoltà umana interamente nuova, vale a dire il giudizio; ma, allo stesso tempo, egli aveva sottratto le posizioni etiche alla competenza di questa nuova facoltà. In altri termini: qualcosa di più del semplice gusto era ora chiamato a decidere sul bello e sul brutto, mentre il problema del giusto e dell’ingiusto non doveva esser deciso né dal gusto né dal giudizio, ma dalla ragione soltanto»2. Giudicare doveva seguire Pensare e Volere come accade nella terza parte del capolavoro arendtiano La vita della mente e che è rimasta incompiuta a causa dell’improvvisa morte dell’Autrice nel dicembre del 1975. Quindi, nonostante l’abbondanza di note e appunti disseminati in molteplici luoghi della sua opera sulla facoltà del giudizio3, è inutile chiedersi in quali termini questa facoltà sarebbe stata descritta o spiegata; molti studiosi hanno fornito risposte differenti sull’argomento, ora interpretando il giudizio come attinente alla pratica politica, ora ponendo l’accento sul giudizio morale ora sul giudizio storico. In Arendt c’è una duplice teoria del giudizio che oscilla tra l’ordine teoretico e l’ordine pratico perché il giudizio richiede ad un tempo di essere sia attore sia spettatore: c’è un giudizio che guida le nostre azioni (l’attore) – è l’approccio aristotelico nel senso della phronesis; e un giudizio che è correlato al pensiero e alla volontà (lo spettatore) – è l’approccio kantiano nel senso della teoria del giudizio riflettente. La teoria arendtiana del giudizio rimane così sospesa tra Aristotele e Kant cioè tra le esigenze dell’eticizzazione della politica e la carica di normatività che il senso del giudicare comporta in ogni situazione. Poiché la sfera politica incoraggia la formazione di spazi pubblici in cui ciascun individuo definisce se stesso non soggettivamente ma quale «essere pubblico» che avanza e discute proposte con gli altri, è essenziale per Arendt riflettere sulla costituzione e lo sviluppo di questa facoltà che è il giudicare. Ma il giudizio è soprattutto un’attività della mente e, benché prossima all’agire politico, ha una speciale relazione con il pensiero. In particolare il nesso pensiero- giudizio è centrale, come è noto, nella riflessione sul processo al criminale nazista Eichmann svoltosi a Gerusalemme nel 19614. Il male, nella sua versione banale, può venire ricondotto alla incapacità di riflettere sulle azioni, su ciò che si fa. In Eichmann non c’era nessuna profondità demoniaca, ma solo assenza di giudizio e accettazione passiva delle regole dettate da un’autorità superiore. Fu proprio questa assenza di pensiero a destare l’interesse dell’Autrice nell’intraprendere questa ricerca e a sollevare un quesito squisitamente morale: può l’esercizio del pensare in quanto tale allontanare gli uomini dal fare il male o addirittura predisporli contro di esso? In un passo de La vita della mente, il giudicare viene definito «il sottoprodotto dell’effetto liberatorio del pensare»5, vale a dire che il pensiero, con la sua capacità critica, distrugge norme, pregiudizi, codici tradizionali; in altre parole, i pregiudizi che noi tutti ci portiamo dietro non sono altro che dei giudizi formulati in periodi precedenti e pertanto atrofizzati, e questa distruzione è propedeutica al giudizio. In un bellissimo frammento dedicato all’analisi dei pregiudizi e dei giudizi6, Arendt premette che nessuno può vivere senza pregiudizi non solo perché nessuno è abbastanza intelligente o assennato da riuscire a dare un giudizio originale su tutto ciò che nel corso della sua vita gli viene richiesto di giudicare ma perché una tale mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza sovrumana; tuttavia la politica deve impegnarsi a combatterli perché il rischio del pregiudizio e quindi la sua pericolosità sta proprio nel suo essere ben radicato nel passato e nell’ostacolare un’effettiva esperienza del presente. Chi dissipa i pregiudizi deve sempre ritrovare il giudizio passato che vi sta dietro e questa capacità di comprensione è opera del pensiero. Se il pensiero è comprensione che dà significato alle esperienze, allora rende possibile il giudizio, che attiene sempre ai particolari cioè ad affrontare tutto ciò che avviene nella sfera quotidiana. L’elemento comune che è importante sottolineare tra pensiero e giudizio è il fatto che entrambi si riferiscono sempre alle esperienze diverse e ai diversi punti di vista anche se, a differenza del pensiero, il giudizio riguarda sempre il particolare, si origina sempre da esperienze particolari.
2. In La crisi della cultura nella società e nella politica Arendt propone il giudizio come facoltà che mette in grado gli attori politici di decidere quale corso d’azione sia da intraprendere nello spazio pubblico, quali obiettivi siano adeguati a una situazione, chi sia da elogiare o biasimare per decisioni assunte in passato. In questa ottica politica il giudizio è «la abilità di vedere le cose non solo da un proprio punto di vista, ma dalla prospettiva di tutti coloro cui accade di essere presenti»7, una abilità politica fondamentale, dal momento che rende capaci di orientarsi nello spazio pubblico, nel mondo comune. In questo saggio sulla crisi della cultura, dove la cultura e la politica sono intese come sforzo contro la caducità temporale e insieme cura del mondo, la nostra Autrice rilegge la Critica del giudizio di Kant in chiave decisamente contemporanea. L’arte, come la politica, offre lo spettacolo ai propri consumatori, è fatta per essere vista, valutata, apprezzata. L’arte e la politica sono connesse da un elemento comune: entrambe appartengono alla sfera pubblica e quindi entrambe sono fenomeni mondani esposti alla vista. In altri termini, «a dispetto di conflitti e contrasti, arte e politica sono correlate, anzi sono in reciproca dipendenza»8.
Che vi siano delle affinità tra i due giudizi è possibile per la
dimensione dell’intersoggettività nel senso che si fondono
entrambi sulla pluralità che è la
traduzione arendtiana della nozione kantiana di sensus communis:
vale a dire che quanto più un giudizio tiene conto dei punti di
vista degli altri, tanto più facilmente può venire comunicato.
Condizione della comunicabilità è che si sia capaci non solo di
esprimere ciò che si pensa ma soprattutto di rendere conto di
ciò che si è detto mostrandone le implicazioni. Parole e azioni
necessitano sempre di uno spazio pubblico nel quale apparire ed
essere viste. Vorrei accennare alla prima parte della Critica del giudizio di Kant, che come «Critica del giudizio estetico», contiene l’aspetto forse più grande e originale della filosofia politica kantiana. In quest’opera si analizza il bello innanzi tutto dal punto di vista dello spettatore che giudica (com’è detto fin dal titolo), partendo dal fenomeno del gusto inteso come rapporto attivo con quanto è bello.9
Il termine gusto fa da collegamento tra l’arte e la politica e muove a potenziare quei giudizi da sempre attribuiti a un campo del tutto estraneo alla politica, perché operanti in campo estetico. Ma se il giudizio estetico è fisiologicamente contemplativo, cioè separato da qualsiasi interesse o finalità pratica, come può essere compatibile con il giudizio politico che difficilmente è ritenuto privo di ogni fine pratico?10 È questa un’aporia in cui incorre l’eccessiva aderenza della concezione arendtiana del giudizio all’estetica kantiana. Accenti analoghi vengono sviluppati anche nelle Lezioni sulla filosofia politica di Kant in cui Arendt, tematizzando la facoltà del giudizio - che presuppone sempre la presenza degli altri - , fa appello al kantiano sensus communis che è la qualità propria degli uomini in quanto da esso dipende la comunicazione che è poi il modo per persuadere gli altri, tenendo conto dei loro possibili punti di vista11. Per inquadrare nella giusta prospettiva la facoltà del giudizio e afferarne la valenza politica, l’attenzione arendtiana si sposta così dalla Critica della ragion pratica che è imperniata sulla necessità che il pensiero razionale sia in accordo con se stesso quando la ragione legifera alla Critica della facoltà del giudizio dove «Kant sostiene un diverso modo di ragionare, per il quale non è sufficiente l’accordo con se stessi, bensì occorre saper ‘ragionare al posto di chiunque altro’ e si richiede perciò una ‘mentalità allargata’ (eine erweiterte Denkungsart)»12. Il potere di giudicare presuppone l’accordo potenziale con altri, la ricerca di una condivisione da parte degli altri, pur senza poterla esigere. E più avanti, ella osserva che «tanto in estetica come in politica si prende una decisione, la quale, benché sempre condizionata da un certo grado di soggettivismo, per il semplice motivo che ciascuno ha un proprio posto da dove osserva e giudica il mondo, si appoggia anche sul fatto che il mondo stesso è un dato oggettivo, comune a tutti i suoi abitanti»13 Come i giudizi estetici non sono vincolanti, così le opinioni politiche possono diffondersi solo con la persuasione, prive cioè di cogenza logica perché nell’argomentare persuasivamente noi facciamo appello alla ragionevolezza degli altri, nella speranza che il nostro punto di vista venga accolto con mente aperta e priva di radicati pregiudizi. A differenza del ragionamento logico-deduttivo che per sua natura è impersonale, la persuasione instaura un legame non solo tra due menti ma tra due o più persone e per questo motivo la persuasione richiede uno spazio pubblico dove gli individui possono usufruire dell’opportunità di agire insieme, di dialogare e di formare giudizi ponderati sulla competenza e motivazione degli altri partecipanti. Si potrebbe affermare che il giudizio ci apre alla condizione della pluralità come più volte sottolinea la nostra Autrice: giudicare presuppone di essere capaci a vedere il mondo dalla prospettiva di un altro, tenendo conto del punto di vista degli altri. Il punto più discutibile della natura arendtiana del giudizio politico sta comunque nel suo generarsi da quello estetico e pertanto esso non possiede lo stesso genere di certezza e validità dei giudizi conoscitivi e rischia di essere poco stringente e poco coerente rispetto alla potenza d’urto del reale. Questo significa - come sottolinea la biografa di Arendt, Elisabeth Young-Bruehl - che “il potere del giudizio” (Urteilskraft) conferisce agli individui un’esperienza del mondo e degli altri che li rende mentalmente potenti; buoni viaggiatori; non isolati, ma connessi; non provinciali ma cosmopoliti. Il giudizio è la facoltà che prepara una persona a essere l’ideale kantiano: un cittadino del mondo14.
3. Preludio di una sinfonia incompiuta restano queste Lezioni sulla filosofia politica di Kant del 1970 da cui si può estrarre, come abbiamo ricordato, una teoria del giudizio con l’avvertenza preliminare che solo attraverso gli esempi di cui disponiamo, il giudizio può finalmente strutturarsi. La tesi di Arendt è che il giudizio presuppone ciò che ella chiama, in termini kantiani, un «pensiero rappresentativo», ossia la capacità di rappresentare nella propria mente una varietà di punti di vista15. Si intende che questo della pluralità dei punti di vista è il dato della condizione umana che ispira l’azione politica. «Il pensiero politico è rappresentativo. Io mi formo un’opinione considerando una data questione da differenti punti di vista, rendendo presente alla mia mente le posizioni di coloro che sono assenti, in altri termini li rappresento»16. Questa rappresentatività ha natura critica ed è un elemento centrale del pensiero politico arendtiano che situa l’attività pubblica nell’ambito della doxa e in cui la mentalità di ciascun spettatore si allarga fino ad immaginare in modo simultaneo quale sarebbe il proprio giudizio se si trovasse nella prospettiva altrui.
Questo criterio di giudizio è la comunicabilità: per
decidere della condivisibilità di un giudizio dobbiamo controllare
la sua adattabilità al senso comune degli altri. Più ampio è il numero di persone di cui io posso tener conto nel pensiero e nei miei giudizi e più questi saranno rappresentativi. La validità di simili giudizi non sarà né oggettiva né universale, né soggettiva dipendente dal capriccio personale, bensì intersoggettiva e rappresentativa. Questo tipo di pensiero rappresentativo, possibile solo grazie all’immaginazione, richiede alcuni sacrifici […].17 Quindi, la condizione di validità dei nostri giudizi risiede in una mentalità aperta ottenuta tramite l’immaginazione e il pensiero rappresentativo. L’opinione, per Arendt, non può essere identificata, come avviene in gran parte della tradizione filosofica di origine platonica, con la percezione illusoria della realtà ma è una sfera del sapere di uguale dignità rispetto all’episteme. E’ questa capacità di avere una “mentalità ampliata” che rende gli uomini capaci di giudicare benché Kant, secondo l’Autrice, non fu sempre consapevole delle implicazioni morali e politiche della sua scoperta. Nella sua Lezione dodicesima, Arendt ricapitola le massime kantiane del senso comune18, concentrando la sua attenzione sulla seconda che è quella della mentalità ampia e osservando che “le massime sono necessarie in materia di opinione e nei giudizi”. Si accentua nella lettura arendtiana l’orientamento attivo del senso comune in quanto da esso dipende la comunicazione che è uno stile di vita relativo ai rapporti tra gli uomini e alle cose del mondo. Il sensus communis non coincide più per Kant con il senso comune; esso è un attributo politico che si inserisce appunto in una comunità. Con sensus communis Kant si riferisce non a un generico common sense, ma a un senso speciale che ci rende parte della comunità umana: si tratta di uno specifico community sense in quanto comunicazione e discorso dipendono da esso. «Io giudico come membro di questa comunità e non come membro di un mondo soprasensibile»19. Nella sua Lezione settima, Arendt aveva approfondito la mentalità allargata intrecciandola con quella dell’imparzialità intesa come capacità di «ampliare il proprio pensiero per prendere in considerazione le idee degli altri»20. Si rivela però decisiva un’altra capacità della mente che Kant chiama l’immaginazione o rappresentazione, la più misteriosa delle facoltà capace di rendere presente ciò che è assente” «in cui si giudicano oggetti che non sono più presenti, che sono stati rimossi dall’immediata percezione sensoriale, e perciò non colpiscono più direttamente; comunque, ora che l’oggetto è stato rimosso dai sensi esterni, diviene un oggetto per i sensi interni»21. La rappresentazione (nel senso di ri-presentazione) che rende possibile ciò che di fatto è assente costituisce la dote incomparabile della mente e poiché la nostra intera terminologia si basa su metafore tratte dall’esperienza della visione, tale dote ha per nome immaginazione, definita da Kant ‘la facoltà d’intuizione anche senza la presenza dell’oggetto’. L’immaginazione ha il compito di preparare gli oggetti per il pensiero, di smaterializzare gli oggetti visibili su cui la mente lavora per trasformarli in immagini invisibili. Mediante l’immaginazione, quando esprimo un giudizio mi rappresento qualcosa che non posso percepire direttamente. C’è dunque un duplice livello nella scelta: una prima, immediata di gusto e una «riflessiva»; il giudizio è un ripensamento, richiede dunque una distanza che è condizione di «imparzialità». L’immaginazione è la capacità di rappresentarsi alla mente quanto è già stato presente ai sensi: attraverso di essa possiamo rappresentarci cose che sono assenti e quindi assumere la distanza necessaria per un giudizio imparziale. A quel punto si è nella posizione per riflettere su quelle rappresentazioni da un numero di differenti prospettive, così giungendo a un giudizio circa il valore adeguato dell’oggetto. Senza il sensus communis, invece, non saremmo in grado di condividere i nostri giudizi: perché se fossero validi - cioè pubblicamente riconosciuti e accettati - in materia di gusto, essi avrebbero dovuto trascendere kantianamente le condizioni soggettive e private per quelle pubbliche e intersoggettive, in forza dell’appello al senso comune. Nella Dodicesima lezione Arendt ricapitola le due operazioni per capire la funzionalità del pensiero: quella dell’immaginazione, come abbiamo visto e quella della riflessione. E questa seconda operazione «costituisce la vera e propria attività del giudicare una cosa»22. Tale doppia operazione è il presupposto di imparzialità di tutti i giudizi che, come tali, sono comunicabili e pubblici. Si introduce a questo punto la priorità dello spettatore sull’attore cioè di colui che osserva, contempla, riflette e decide il significato di ciò che sta accadendo. Lo spettatore kantiano-arendtiano è disinteressato, non coinvolto da interessi pratici, è autonomo23. Arendt insiste molto sulla qualità dello spettatore perché la validità del giudizio è proprio in proporzione alla capacità di trascendere il personale punto di vista da consentirgli di vedere l’insieme della recita come è evidenziato in un passo de La vita della mente24. La metafora arendtiana della scena teatrale ci dice che l’attore dipende dal mi-pare dello spettatore (il suo dokei moi che conferisce all’attore la sua doxa) e quest’ultimo ha in mano il verdetto finale del successo o il fiasco nel senso che approva o disapprova lo spettacolo. Non è difficile a questo punto rimandare alle pagine di Vita activa25, il libro arendtiano del 1958 in cui l’Autrice discute le varie modalità della vita activa in confronto a quella contemplativa focalizzando la doppia prospettiva del punto di vista dell’attore e dello spettatore. Limitiamoci a dire che quello dello spettatore è il punto di vista di chi ricompone le file delle disordinate e contingenti azioni degli uomini per conferire un senso unitario ad esse. Lo spettatore arendtiano mutua da Kant l’idea che si può percepire «la verità delle cose che durano eterne»26 perché la possibilità del giudizio sta nella sua capacità di essere imparziale. Più saremo capaci di superare le private condizioni soggettive muovendoci da un punto di vista ad un altro, da una prospettiva ad un’altra, meno limitato rimarrà il nostro giudizio: noi dobbiamo tener conto delle condizioni particolari attraverso cui si deve passare se vogliamo conseguire un punto di vista generale che si può denominare anche imparzialità. L’imparzialità non è un prodotto «di un qualche punto di vista superiore» ma è un giudizio particolare che per formarsi si è modellato attraverso l’esame del punto di vista degli altri e quindi non è più soggettivo perché ha applicato a se steso dei canoni critici, come l’espediente di mettersi dal punto di vista di un più ampio numero di altri. Nella Lezione settima Arendt sottolinea che questa capacità di ampliare il proprio pensiero ci permette di scoprire che cosa veramente passa nella testa di tutti non tanto in maniera empatica ma come un’operazione mentale che astrae dalle nostre limitazioni soggettive, svincolandoci dalla preoccupazione della propria immagine presso gli altri. La generalità o imparzialità conseguita non si identifica con quella del concetto « - ad esempio, del concetto di “casa”, sotto cui si può poi assumere una molteplicità di singoli edifici. Essa è, al contrario, strettamente legata al particolare, alle condizioni particolari dei punti di vista[…]si tratta di un osservatorio da cui guardare, osservare, formare giudizi o, come dice lo stesso Kant, riflettere sugli affari umani»27. Emerge in questo punto delle Lezioni il motivo della validità esemplare e delle modalità di funzionamento del giudizio; riferendosi al «Giudizio riflettente» di Kant, il particolare stesso può essere tale da contenere in sé, in un modo caratteristico, una regola generale. Il giudizio acquista validità esemplare se si riferisce ad un esempio che lo guidi in modo adeguato e corretto, cioè l’esempio è sempre un particolare che però contiene in sé una regola. Come è possibile che il giudizio che ha per oggetto il particolare ambisca ad una validità universale? Quella arendtiana è una vera torsione concettuale del testo kantiano. Il ruolo giocato dall’immaginazione si rivela essenziale perché essa ci consente di riunire elementi particolari e nozioni generali e lo fa mediante il suo fornire schemi. La validità esemplare è un modello per classificare singoli oggetti come esempi di un certo tipo di oggetto. Noi assumiamo un esempio particolare perché contenga in sé una regola in quanto abbiamo avuto esperienza nel senso che il giudizio è sempre messo alla prova da nuove esperienze. In una celebre pagina della Tredicesima lezione, Arendt ricostruisce la genesi della validità esemplare, rifacendosi a Kant, soprattutto all’autore della Critica del giudizio. Ella prende in esame «i giudizi riflettenti, dove non si riconduce un particolare al concetto» e parla dell’esempio «che fornisce quello stesso aiuto che forniva lo schema nel conoscere il tavolo in quanto tavolo. Gli esempi ci guidano e conducono, e il giudizio acquista pertanto “valida esemplare”»28. L’esempio è il particolare. Si potrebbe dire seguendo l’idea platonica che ciascuno di noi, possedendo nella sua mente un’idea di tavolo, poi identifica esempi concreti di tavoli, comparando quanto ha di fronte agli occhi con l’idea di tavolo. «Oppure, viceversa, prendendo le mosse dai molti tavoli che si sono visti nel corso della propria vita, li si spoglia delle loro qualità secondarie, così che quel che resta è un tavolo in generale, contenente quel minimo di proprietà comuni a tutti i tavoli: il tavolo astratto»29. Solo in un terzo modo possiamo afferrare finalmente la nozione di validità quando mettiamo a confronto il tavolo che percepiamo con qualche immagine di qualche tavolo da noi incontrato in precedenza «ritenendolo il migliore possibile e assumendolo ad esempio ideale di ciò che i tavoli dovrebbero essere in realtà: il tavolo esemplare. (“Esemplare” viene da eximere, “trascegliere qualcosa di particolare”)»30. Si tratta di capire che cosa significa esemplarità: se si tratta di una nozione idealtipica caratterizzante questo tipo di giudizio oppure si tratta di una nozione meramente empirica che sta a designare il particolare rivelativo del generale. L’Autrice sembra optare per questa seconda soluzione. «Quest’esemplare è e resta un che di particolare, che proprio nella sua particolarità rivela quella generale che altrimenti non potrebbe essere definita. Il coraggio è come Achille etc.»31 Gli esempi acquistano «validità esemplare», ossia consentono di vedere nel particolare quel che è valido in più di un caso; il giudizio acquista validità esemplare se si riferisce ad un esempio che lo guidi in modo adeguato e corretto. «Ad esempio, perché si è in grado di giudicare coraggiosa un’azione? Giudicando, si afferma spontaneamente, senza alcuna deduzione da una regola generale: “quest’uomo ha coraggio”»32. E’ chiaro che l’uomo che ci viene subito in mente è quello di Achille e quindi è necessaria la nostra immaginazione. Il giudizio così acquista validità esemplare nel momento in cui l’esempio è stato scelto correttamente. Parimenti se dico che qualcuno è buono, mi viene in mente l’esempio di S. Francesco è così via. Alla luce di questa parziale ricostruzione come possiamo valutare l’esemplarità arendtiana? Quando si parla di Achille come l’incarnazione del coraggio, San Francesco l’incarnazione della bontà, Gesù di Nazareth l’incarnazione dell’amore che cosa diciamo veramente? Facciamo riferimento non alla loro esperienza diretta ma a immagini ricevute che non funzionano diversamente dall’immagine stereotipata di un tavolo su cui consumiamo i nostri pasti. Questo è l’opposto di ciò in cui consiste il giudizio riflettente che implica da parte del soggetto un potere di libertà cioè di scegliere di valutare, senza però poter spiegare né determinare il fondamento di determinazione oggettiva dei concetti generali33. Questa determinazione della libertà - la cui coincidenza con l’autonomia consiste esattamente nella sua non-dipendenza dalla sensibilità, nel non dipendere dalle leggi di questa, e nel riposare sulle sue proprie leggi – viene posta da Kant nel cuore stesso del fondarsi del «concetto pratico della libertà» sull’idea trascendentale di essa.
4. La via seguita da Arendt per comprendere la nozione di validità esemplare è quanto meno tortuosa. In un passo conclusivo delle Lezioni, ella propone un’analogia tra lo schema e l’esempio: Nella Critica della Ragion pura l’immaginazione serve all’intelletto, nella Critica del giudizio l’intelletto è “al servizio dell’immaginazione”. Nella Critica del giudizio troviamo qualcosa di analogo allo “schema”; l’esempio. Nei giudizi Kant attribuisce agli esempi la stessa funzione che le intuizioni dette schemi hanno per l’esperienza e la conoscenza. Gli esempi svolgono un ruolo sia nei giudizi riflettenti che in quelli determinanti, il che vuol dire ogniqualvolta ci occupiamo di cose particolari[…]L’esempio fornisce quello stesso aiuto che forniva lo schema nel conoscere il tavolo in quanto tavolo Gli esempi ci guidano e conducono, e il giudizio acquista pertanto “validità esemplare”34. Il punto è questo: fare una comparazione tra schemi ed esempi è a dir poco fuorviante, probabilmente lo sarebbe stato anche per Kant. Lo schema di un tavolo mi permette di riconoscere questo tavolo come un tavolo perché ne riconosco i tratti distintivi e le peculiarità contenuti nello schema. Quindi, lo schema mi aiuta a colmare la differenza che intercorre fra i singoli tavoli concreti che incontro distogliendo l’attenzione dai loro aspetti più peculiari e il riconoscerli nella diversità dei contesti che li qualificano come tavoli. Nulla di tutto ciò si può applicare al caso delle azioni che sono interpretazioni di comportamento, contingenti e mutevoli. In altri termini gli esempi non posseggono in alcun modo la fissità degli schemi riguardo a ciò che simboleggiano o a ciò che ci permettono di riconoscere o identificare. Trattarli come analoghi agli schemi significa non dare conto della loro natura esemplare. L’altro punto critico in cui incorre la teoria arendtiana del giudizio mi pare questo: se affermiamo che, quantunque certe azioni compiute da Achille esemplifichino il coraggio, l’esempio non può contenere affatto un numero di tratti necessari e sufficienti che possano applicarsi meccanicamente ad un altro comportamento al fine di stabilire se equivale ad un’azione coraggiosa. La nostra capacità di giudicare va ben oltre i criteri esterni e/o a priori per avvalorare la connessione arendtiana tra schemi ed esempi: quella del giudicare è un’abilità ermeneutica che tiene conto del contesto, della varietà delle condizioni e dell’entità simbolica di cui ciascuna azione è dotata. Ovviamente la nostra Autrice non era inconsapevole di questo aspetto problematico ma più che risolvere la questione la lascia, per così dire, aperta. In definitiva, niente norme e modelli: i punti di riferimento del giudizio arendtiano di fronte alla infinità varietà delle situazioni e degli eventi sono le regole che possono essere condivise da altri punti di vista esibiti nel contesto pubblico. Solo attraverso l’esempio, un principio etico o politico (come libertà, coraggio, giustizia, bontà ecc.) può essere convalidato e divenire persuasivo35.
In un diverso contesto, nel già citato saggio Verità e politica
del 1967, Arendt tematizza il nesso esplicito tra l’esempio del
giudizio e l’agire, nel senso appunto che l’esempio ispira
l’azione. Così, ad esempio, per verificare l’idea di coraggio, possiamo rievocare l’esempio di Achille e per verificare la nozione di bontà siamo inclini a pensare a Gesù di Nazareth o a san Francesco; questi esempi insegnano o persuadono attraverso l’ispirazione, così che ogni volta che cerchiamo di compiere un atto di coraggio o di bontà è come se imitassimo qualcun altro (l’imitatio Christi, per esempio).36
Il riferimento inequivocabile di questa pagina è Socrate che insegnò attraverso l’esempio37. Il filosofo ateniese affermava che un buon giudizio consisteva nella domanda intorno a quale fosse la migliore interpretazione dei nostri esempi che orientano l’agire. Socrate è l’exemplum arendtiano. La sua pratica di pensare sempre aporetica stimolava e incitava i suoi interlocutori a valutare e a giudicare testi e azioni. La riflessione socratica del due-in-uno, la duplicazione tra io esterno e io interno impedisce la passività di una totale adesione a se stesso e la mancanza di un vaglio critico su se stessi. Così Socrate riuscì ad armonizzare nella sua persona l’attore e lo spettatore, l’unità e la differenza.
Sono gli spettatori che hanno il privilegio di giudicare
imparzialmente e disinteressatamente, esercitando due facoltà
cruciali, la immaginazione e il senso comune. Certo,
la
soluzione sta ancora una volta nella facoltà dell’immaginazione
che trasforma il fenomeno (un oggetto, un evento, un’azione)
percepito in una rappresentazione per mezzo della quale si può
stabilire una distanza adeguata e un distacco che rendono possibile
l’imparzialità. In altri termini, la rappresentazione permette di
riflettere sull’azione senza però esserne coinvolti e trasforma
l’attore in spettatore. In questo modo non si ha una separazione
netta fra chi agisce e chi giudica, fra l’attore e lo spettatore,
poiché ciascuno possiede la facoltà del giudizio, ciascuno ha in se
stesso la capacità di divenire spettatore.
Esemplare viene da eximere, “trascegliere qualcosa di
particolare”. Quest’esemplare è e resta qualcosa di particolare,
che proprio nella sua particolarità rivela quella generalità che
altrimenti non potrebbe essere definita. Il coraggio è come
Achille38. Per Arendt la nozione di validità esemplare non è ristretta a oggetti estetici o individui che esemplifichino certe virtù: ella intende estendere la nozione anche a eventi del passato che siano portatori di un significato che supera il mero accadere, che possano cioè essere visti come esemplari per coloro che vengono dopo. Qui il giudizio estetico incontra il giudizio retrospettivo dello storico. Studiando quegli eventi nella loro particolarità, lo storico o lo spettatore giudicante è in grado di illuminare la loro importanza universale, preservandoli come esempi per la posterità. La questione della validità della nostra interpretazione richiede un saper ricostruire gli assunti e quindi un saper intendere gli esempi prescelti di coraggio, bontà o nobiltà. Ma gli esempi di azioni non sono essi stessi dei testi che le narrano? Questo momento decostruttivo e ricostruttivo sembra mancare all’analisi arendtiana del giudizio la cui peculiarità è di conservare uno stretto contatto con l’ambito fenomenico dell’esistenza umana e con il mondo della vita. Questo ancoraggio del giudizio al mondo fenomenico è dovuto a) alla sua natura pluralistica essendo il suo oggetto sempre il particolare; b) alla sua pretesa di validità senza costrizione; c) alla sua produzione di consenso e dissenso; d) al suo essere orientato alla comunicazione sulla base della “validità esemplare”. Giudicando, ci rendiamo responsabili di una decisione concernente il mondo in cui vogliamo vivere. Rimane aperta la questione dell’universalità del giudizio che sia per Kant sia per Arendt, poggia su quel sensus communis, quel senso comune cui viene ricondotta la capacità umana di formulare giudizi e di esprimere valutazioni. È l’idea di universalità, il nodo teoretico decisivo su cui si addensa la difficoltà della lettura arendtiana di Kant cioè l’idea di assorbimento dei giudizi dei singoli in un quadro preordinato di ciò che è bene e giusto, secondo i principi della storia o della natura. Paradossalmente è proprio la forzatura arendtiana dei testi di Kant ad espellere l’elemento a priorico e trascendentale del giudizio e quindi a rendere problematica la costituzione di giudizi universalmente comunicabili e argomentabili, i soli capaci di esporsi alle fitte trame del reale.
Note con rimando automatico al testo 1 H. Arendt, Pensiero e riflessioni morali, tr.it. in La disobbedienza civile e altri saggi, a cura di T.Serra, Giuffrè, Milano 1985, p.151.Cfr. Ead., The Life of he Mind, ed. by M. Mc Carthy, New York, Harcourt, Brace&Jovanovich, 1978, 2 voll.; La vita della mente, a cura di A. Dal Lago, tr. it. di G.Zanetti, Il Mulino, Bologna 1987, p.288. 2 H. Arendt, Teoria del giudizio politico. Lezioni sulla filosofia politica di Kant, tr. it. di P. P. Portinaro, Il Melangolo, Genova 2005, p.21. 3 Esiste una vasta letteratura dedicata alle tematiche arendtiane relative al giudizio. Rinvio per comodità al volume di Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, Bruno Mondadori, Milano 2006 pp. 350-362. L’Autrice discute le posizioni dei vari interpreti di Arendt che concordano sulla problematicità e originalità della sua lettura di Kant e delle critiche che essa ha sollevato. Si veda almeno M. P. D’Etrèves, Arendt’s theory of Judgement, in The Cambridge Companion to Hannah Arendt, edited by D. Villa, Cambridge 2000; B.Henry, Il giudizio politico. Aspetti kantiani nel carteggio Arendt-Jaspers, «Il Pensiero Politico», XX, 1987, pp.361-375. 4 H. Arendt, La banalità del male, tr.it. di P. Bernardini, Milano, Feltrinelli, 2001, p.259. Si veda anche il film Uno specialista, realizzato nel 1999 da Eyal Sivan e Rony Brauman, che è un documento di straordinario valore perché in 123 minuti racconta l’intero processo al criminale nazista. Sivan non scandisce le fasi del dibattimento, non v’è linearità narrativa. Il montaggio compone, per assonanza, ellitticamente, una dolorosa sinfonia di volti, parole, gesti, atteggiamenti, che superano la loro funzionalità processuale. 5 H. Arendt, La vita della mente, cit., p.288. 6 H. Arendt, Was ist politik?, München, Piper 1993; tr. it. di M. Bistolfi, Che cos’è la politica?, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp.12-20. 7 H. Arendt, La crisi della cultura: nella società e nella politica in Tra passato e futuro, tr. it. di T. Gargiulo con introduz. di A. Dal Lago, Garzanti, Milano 1999, p.283. 8 Ivi, p.280. 9 Ivi, pp.281-282. 10 Si veda su questo punto il par.13 contenuto nell’Analitica del giudizio estetico della Critica del giudizio dove Kant afferma: «Ogni interesse corrompe il giudizio di gusto e gli toglie la sua imparzialità, in specie quando (al contrario dell’interesse della ragione) esso non pone la finalità avanti al sentimento di piacere ma fonda quella su questo; ciò che sempre avviene nel giudizio estetico su alcuna cosa quando questa produce piacere o dolore». (I.Kant, Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 66). 11 Non si può delineare una vera e propria teoria arendtiana del giudizio ad eccezione delle celebri Lectures on Kant’s Political Philosophy - Lezioni di filosofia politica di Kant .- che l’autrice tenne a New York nel 1970 e pubblicate a cura di Ronald Beiner nel 1982 sotto il titolo di Teoria del giudizio politico. Le Lezioni si prestano a molte obiezioni: secondo alcuni studiosi Arendt avrebbe indebolita la problematica trascendentale kantiana. Cfr. su questo punto P. Riley, Hannah Arendt on Kant, Truth and Politics, «Political studies», XXXV, 1987, pp..379-392; E. Tassin, Sens commun et communautè: la lecture arendtienne de Kant, «Cahiers de Philosophie», n.4, 1987, pp.81-113. Inoltre, si veda E. Vollrath, Die Rekonstruktion der politischen Urtheilskraft, Ernst Klett Verlag, Stuttgart 1977. 12 H. Arendt, La crisi della cultura., cit., p.282. 13 Ivi, p.285. 14 E. Y.-Bruehl, Hannah Arendt: perché ci riguarda, tr. it. di M.Marchetti, PBE, Torino 2009, p.160. 15 Rinvio al par. 40 della «Critica del giudizio» Del gusto come una specie di “sensus communis” in cui Kant elenca le tre massime del senso comune: a) pensare da sé; b) mettersi col pensiero al posto di ogni altro; c) pensare in modo da essere sempre in accordo con se stesso. (I. Kant, Critica del giudizio, cit., pp.150-153). 16 H. Arendt, Verità e politica, tr.it. di V. Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p.48. 17 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale in Responsabilità e giudizio, tr. it. di D. Tarizzo, a cura di J. Kohn, Einaudi, Torino 2003, p.122. 18 H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., pp.108-110. 19 Ivi, p.103. 20 Ivi, p.68. 21 Ivi, p.105. 22 Ivi, p.105.
23 H. Arendt, La vita della mente, cit., «Storicamente, questo tipo di ritiro dall’attività pratica costituisce la più antica condizione che si pose alla possibilità di una vita della mente. Nella sua forma primitiva, originaria, tale condizione si basa sulla scoperta che soltanto lo spettatore e mai l’attore, è in grado di conoscere e di comprendere ciò che si offra allo sguardo come spettacolo» (pp.177-178).
24 Ivi. 25 H. Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; introd. di A.Dal Lago, tr. .it. di S. Finzi, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1994.. 26 La tematica della prevalenza dello spettatore sull’attore è ripresa da Arendt da uno scritto kantiano, il Conflitto tra le facoltà umane in cui il pensatore di Konigsberg esalta l’importanza degli spettatori nella vicenda della rivoluzione francese. Cfr. I. Kant, Il Conflitto tra le facoltà in Scritti di filosofia della religione, a cura di G. Riconda, ed. Mursia, Milano 1989. 27 H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p.69. 28 Ivi, p.126. 29 Ivi, p.117. 30 Ivi. 31 Ivi. 32 Ivi, p.126. 33 A. Ferrara, La forza dell’esempo Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008. Ferrara rilegge la terza Critica kantiana, sulla scia di Arendt e di precedenti lavori dello stesso, e propone una specifica modalità conoscitiva che sarebbe in linea con la svolta linguistica (con il suo anti-fondazionalismo e anti-realismo) e consentirebbe di evitarne l'esito relativistico. L’Autore nel secondo capitolo del libro Capire l’esempio ricostruisce la teoria arendtiana del giudizio e in particolare l’esemplarità, evidenziandone notevoli punti aporetici (pp.64-86). 34 H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., pp.125-126. 35 L. Bazzicalupo, Hannah Arendt. La storia per la politica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1995: la studiosa in merito a questo punto afferma che Arendt ripropone in qualche modo un topos storiografico di grande durata: istoria magistra vitae, la visione cioè della storia come di un grande deposito di esperienza passate in cui si può attingere per gli exempla che forniscono alla vita etico-politica (pp.310-311). 36 H. Arendt, Verità e politica, cit., pp. 56-57. 37 L’opera complessiva di Arendt è segnata profondamente dalla figura di Socrate che con Kant, viene giudicato con le parole di Lessing, come uno dei massimi esponenti di un pensiero critico in grado di far «tremare le fondamenta delle più diffuse verità ovunque lascino cadere i loro occhi». Potremmo dire che il Socrate arendtiano è esigente e insieme sfuggente; infatti, da un lato pungola i suoi concittadini senza dare loro né definizioni né valori per la futura condotta nella città, e dall’altra egli sembra ritrarsi come il vento che scuote, spazza via le precedenti certezze, lasciando nei concittadini nient’altro che dubbi. Cfr., H. Arendt, The Life of The Mind (La vita della mente, cit., pp.259-278, e Thinking and Moral Considerations (Pensiero e riflessioni morali), in “Social Research”, 1971, 38, n.3, pp.417-446, tr. it. in H. Arendt, La disobbedienza civile e altri saggi, a cura di T. Serra, Roma, Giuffrè, 1985, pp.113-153, ora in H. Arendt, Come raccontare il mondo, Roma, Edizioni Studium, 1995, pp.143-182. In specie per le pagine su Socrate, il par.2, pp.157-171. Si vedano, infine, Alcune questioni di filosofia morale in Ead, Responsabilità e Giudizio, J. Kohn , (a cura di) e tr.it. di D. Tarizzo, Torino, Einaudi, 2004, pp.41-126. Cfr., inoltre, F. Fistetti, H. Arendt e M. Heidegger, Alle origini della filosofia occidentale, Roma, Editori Riuniti, 1998, in specie il secondo capitolo, Heidegger e Socrate, pp.35-85. 38 H. Arendt, Teoria del giudizio politico, cit., p.117. A. Ferrara commentando questo passaggio arendtiano afferma che «In tal caso la validità esemplare va intesa come un creare un esempio piuttosto che applicare un esempio-una differenza che Kant coglie con la distinzione, richiamata dall’Arendt fra “sussumere sotto un concetto” e “ricondurre ad un concetto” (La forza dell’esempio, cit., p.77).
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