Il tribunale supremo e la poesia del giudice. Il
giorno del giudizio di Salvatore Satta
di Gabriella Baptist
È stata la riflessione filosofica contemporanea ad additare ai moralisti e ai giureconsulti la strada della letteratura come campo di sperimentazione per alternative etiche e come ambito di esercizio per benevolenti virtù democratiche capaci di guidare prudenzialmente il giudizio e la deliberazione1. Fa del resto parte dell’attualità letteraria del momento il grande successo di pubblico e di critica riscosso da opere che rielaborano, tra documentazione e fiction, il materiale istruttorio sul quale i medesimi autori ancora indagano nelle vesti togate del tribunale, magari per trarre dai fatti di cronaca una qualche morale della favola2. Tra l’anelito ideale alla giustizia, la prosa della legge e l’ufficio scritturale della sentenza esistono evidentemente varchi teorici e pratici, filosofici ed artistici che sono stati indagati dai protagonisti delle aule giudiziarie non solo nel senso dell’ormai classico paradigma indiziario noir, ma anche come metafora per dire la condizione umana nel suo complesso. Farò qui riferimento solo a due opere di due giuristi-scrittori protagonisti del Novecento letterario italiano, scelti non tanto per la loro notorietà, pur raggiunta anche tra il grande pubblico, quanto per il loro essere espressione di una realtà eccentrica come quella sarda, dove nell’immaginario collettivo l’erede autentico degli antichi governatori-giudici sconfina facilmente nel bandito3. Nato a Nuoro nel 1902, figlio d’arte su entrambi i fronti, perché di famiglia notarile, ma imparentata con il poeta Sebastiano Satta, Salvatore Satta si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Sassari, dopo aver studiato anche a Pavia e a Pisa. Libero docente nel 1932, insegnerà Diritto processuale nelle Università di Camerino, Macerata, Padova, Genova e Roma, dove sarà anche preside della Facoltà di Giurisprudenza negli ultimi anni di carriera e dove morirà nel 1975. Per tutta la sua vita professionale Salvatore Satta è stato uno studioso apprezzato di diritto e tra i più noti civilisti italiani del secondo dopoguerra, spesso chiamato come membro e consulente di Commissioni ministeriali. Le sue pubblicazioni si sono concentrate tutte su temi e problemi di giurisprudenza4, a parte una sola novella pubblicata in vita, De profundis, meditazione suscitata dal tormento per il declino della patria e dallo strazio della guerra e dedicata all’antico contenzioso tra il diritto e la giustizia5. Dopo la morte, la famiglia scoprì tra le sue carte il dattiloscritto e successivamente il manoscritto del romanzo al quale aveva lavorato negli ultimi anni di vita: pubblicato postumo, inizialmente ignorato dalla critica e accolto con imbarazzo nella città natale, presto però diventato un vero e proprio caso letterario e ormai tradotto nelle maggiori lingue, Il giorno del giudizio è già considerato un classico della letteratura italiana contemporanea6. Come sottolinea George Steiner in un articolo pubblicato sul “New Yorker” il 19 ottobre 1987, in occasione della pubblicazione della traduzione inglese, si tratta di un libro postumo non solo rispetto alla morte del suo autore, ma anche perché, «sotto molti aspetti, è un libro dei e per i morti», un epitaffio funebre in cui si celebra «il diritto che lo sconfitto, il ridicolo e l’apparentemente insignificante hanno di essere ricordati»7. Così riassume lapidariamente lo stesso Satta: «può darsi che la vita di un paese si svolga in una unità di tempo e di luogo, come le antiche tragedie, e la successione degli eventi abbia la misteriosa fissità del cimitero. Vista da Dio, nel giorno del giudizio, credo che la vita appaia veramente così»8. Vite prigioniere, rottami umani, storie senza storia devastate dall’inutilità – ma al tempo stesso ingentilite dalla tenerezza che traspare per ciò che è più semplice, dalla nobiltà austera della povertà, dall’aspirazione per il mistero dell’infinito – scorrono in una Nuoro trasfigurata dal ricordo dell’autore e forse dalla nostalgia per un mondo duro e crudele, ma anche carico di pietà e di poesia, nonostante il disincanto in seguito alle promesse non mantenute, l’amarezza per i sogni non realizzati, la vacuità delle illusioni alle quali ci si aggrappa per non soccombere. La Nuoro che l’autore celebra mestamente è quella della sua infanzia e giovinezza, dove irrompe la modernità con la luce elettrica, la guerra, l’imborghesimento e che egli torna a visitare ormai anziano, rendendo omaggio nel vecchio cimitero alla ricchezza insensata della vita, destinata alla polvere e all’oblio, ma anche costantemente nell’attesa di essere in qualche modo salvata e resuscitata9. Indimenticabile resta il disegno dei personaggi più umili, il campanaro sacrista, il maestro alcolizzato, la vecchia prostituta, il povero pazzo, la cugina prima misticheggiante e poi solo disperata nel suo delirio, la madre immobilizzata insieme dall’artrite e dall’abbandono, insomma tutti quei falliti, marginali, esclusi, inermi e vinti, capaci di fare agli altri, a modo loro, la carità più preziosa nella loro stessa esistenza. Della generazione successiva, essendo nato nel 1930 a Pitigliano, in provincia di Grosseto, Salvatore Mannuzzu è stato invece magistrato a Sassari dal 1955 al 1976, per poi dedicarsi all’attività politica come deputato indipendente eletto nelle liste del PCI per tre legislature (fino al 1987), in questa veste è stato membro della Commissione giustizia e presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera. Successivamente dirigerà la sezione giustizia del Centro per la riforma dello Stato a Roma10. Il romanzo Procedura esce nel 1988, vince subito dopo il premio Viareggio (nel 1989) e sarà poi tradotto nelle maggiori lingue, oltre che sceneggiato nel film Un delitto impossibile di Antonello Grimaldi (2000), con Carlo Cecchi e Angela Molina11. Considerato come l’iniziatore di quella che sarà detta la scuola giallistica sarda12, il romanzo ha a suo protagonista un magistrato ‘continentale’, inviato in Sardegna per evitare un procedimento disciplinare, che racconta in prima persona le indagini a proposito della misteriosa morte di un collega consigliere di Corte d’appello. L’enigma da chiarire, cui il protagonista si dedica con rassegnazione, tanto più che tutti i suoi colleghi sono a vario titolo sospettabili, svela una realtà mediocre e fallimentare, insoddisfatta e infelice, una Sardegna stanca e sfiduciata, cupa e amara, con le sue carceri inutilmente panoramiche e le sue corti di giustizia sonnolente e svogliate, incorniciata dalle promesse facili di un’altra campagna elettorale, dalle notizie inquietanti del rapimento di Aldo Moro e dai riti lugubri della settimana santa. Come annota Natalia Ginzburg nella “Premessa”, il giudice protagonista che indaga sulla morte di un altro giudice e che «si muove fra palazzi polverosi e villette in abbandono, fra viali alberati e strade rupestri», non dimentica mai «che la verità è introvabile, anche quando sembra rivelarsi d’un tratto spoglia e semplice allo sguardo che l’ha inseguita, introvabile perché sopra di essa passano le onde degli anni e del mare»13. Mannuzzu stesso, in un’annotazione finale, precisa il significato del suo titolo, da intendersi nel senso dell’interminabilità di una ricerca che non porta da nessuna parte, ma che deve tuttavia essere perseguita fino alla fine e come uno scopo in sé: «Il titolo Procedura […] risale a quando ho iniziato a scrivere il libro: e ancora mi sembra il più giusto. Viene dal sostantivo francese procédure, a sua volta derivante dal verbo procéder. Proprio qui cade l’accento e non c’è punto di arrivo, o non si vede o comunque conta meno; procedura come mezzo senza fine (nei due sensi)»14. Ma chi era davvero Valerio Garau, ucciso da una dose di cianuro? In realtà un uomo debole e indeciso, paradigma del giudizio stesso e delle sue incertezze lancinanti, diviso tra la moglie e l’amante, la fama del tombeur des femmes e gli inconfessabili interessi omosessuali, tra la provenienza altolocata, garantita nella sua moralità dallo zio prete, e le frequentazioni imbarazzanti di avanzi di galera; diviso tra l’urbanità dell’alto funzionario e l’abiezione dei traffici clandestini di reperti archeologici e forse addirittura di rituali esoterici illegali, tra la prosaicità di una vita apparentemente irreprensibile, ma in realtà meschina, e l’estro artistico consegnato a poesie pubblicate in riviste e case editrici varie; ucciso probabilmente dalla sua stessa ipocondria e dai fantasmi del suo passato, avendo ingoiato tra le altre anche la capsula forse manomessa dalla sorella tragicamente suicida in mare già due anni prima, anch’essa riflesso deformato di un desiderio di vita fiaccato dall’impotenza e dalla sconfitta. Del resto anche il protagonista che indaga sulla vittima è egli stesso magistrato inquirente e giudice inquisito, consapevole di dover procedere anche se nulla è più perseguibile e la domanda di verità e di giustizia resterà necessariamente senza risposta. La storia che racconta non è la sua, eppure si intreccia saldamente con i suoi fallimenti e le sue angosce: i morti dei quali si occupa in fondo continuano a sostenere anche il peso dei vivi, dando loro forse il colpo di grazia, forse solo accompagnandone pietosamente l’agonia o invece garantendo, provvidenzialmente, un procedurale ‘non luogo a procedere’. In tonalità differenti, anche se accomunati dalla scenografia struggente offerta dalla realtà sarda, isola insieme benedetta e maledetta, di disperata espiazione e di fiduciosa speranza, due romanzi-processi ammoniscono quasi in un accordo polifonico che davanti al tribunale minaccioso di una morte che tutto e tutti arresta, nel giorno apocalittico del giudizio che si confronta con i misteri e i paradossi della vita, la sentenza non potrà essere che l’appello all’assoluzione: forse è proprio qui – nell’impossibilità della condanna, nella sospensione del giudizio persino sulle cause perse e rispetto a quanto resta comunque condannabile – che la prosa della giustizia si volge in poesia.
Antologia: Da Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, prefazione di George Steiner, Nuoro, Ilisso, 1999: «E poi c’è la giustizia, con la quale è meglio non impicciarsi. Tra l’altro che cosa è la giustizia? Giustizia è l’autorità, il potere che uno ha sopra un altro, e l’autorità non si discute; e se ti condanna sei ben condannato. Ma perciò giustizia è anche sottrarsi, se è possibile, all’autorità, come è giustizia far fuori, se occorre, un eventuale testimone (se ha già reso la testimonianza, allora la giustizia sarebbe lui). Insomma, sia come sia, quando bussano nella notte, la porta che si apre è quella di dietro, che dà nell’orto e nell’aperta campagna. Il pastore sa di essere sempre innocente per se stesso, ma non di esserlo di fronte all’autorità» (p. 40). «Questo in fondo era il grande problema di Nuoro. C’erano preti, c’erano avvocati, medici, professionisti, mercanti, c’erano poveri manuali, il ciabattino e il muratore, il maestro delle scarpe e il maestro del muro, c’erano gli oziosi, i miseri e i ricchi, i savi e i matti, chi sentiva l’impegno della vita e chi non lo sentiva, ma il problema di tutti era quello di vivere, di comporre col suo essere lo straordinario e lugubre affresco di un paese che non ha motivo di esistere. Di un paese, come del mondo, forse» (p. 47). «Donna Vincenza custodiva i fiammiferi spenti del suo bambino nella grande credenza incastrata nel muro, di cui teneva le chiavi nel mazzetto attaccato alla cintola, accanto agli spiccioli che le lasciava Don Sebastiano. Ella sapeva, nella sua ignoranza, quel che Don Sebastiano, con tutti i suoi studi, non avrebbe capito: e cioè che dietro quelle cose morte c’era una vita immensa, uno sconfinato mondo d’amore, assai più che dietro i giocattoli, se mai in casa di Don Sebastiano si fosse potuto concepire un giocattolo. C’era l’idea di una terra, della terra per noi arida e avara, piena di doni meravigliosi; c’era la fantasia del gratuito, che ha mosso il creatore alla sua creazione; la gioia di sentirsi partecipe di questa creazione e di questo dono. Il senso dell’utile e dell’inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l’elemento diabolico della vita, e può darsi che Don Sebastiano lo sentisse, con quel suo rispondere a chi gli diceva che era ricco, che ricco è il cimitero. Ma questo non era un conoscere la grazia, era anzi una specie di maledizione. La grazia era rimasta nell’animo di Donna Vincenza, perché Don Sebastiano, inteso all’utile e all’inutile, l’aveva confinata nei suoi ricordi di fanciulla, e forse anche per lei questi fiammiferi spenti cadevano simbolicamente dal cielo, e sia pure il cielo di un rugginoso lampione» (p. 93). «Ma io sono incamminato verso il cimitero, e i miei pensieri si perdono in questo modo. Sono venuto qui, tra un piroscafo e l’altro, per vedere se riesco a mettere un po’ d’ordine nella mia vita, a riunire i due monconi, a ristabilire il colloquio senza il quale queste pagine non possono continuare, ed eccomi vagare appresso ai fili della luce elettrica, in balìa di vani ricordi. Cammino al centro della strada, senza guardarmi intorno: ma sento che le porte si aprono al mio passaggio, e occhi curiosi e diffidenti scrutano lo straniero che si avventura per il sobborgo in queste ore mattutine. Mi giungono lievi bisbigli, e comprendo che nessuno mi riconosce. E se io mi fermassi, e mi rivolgessi a quella donna di mezza età, dal ventre prominente, che mi segue con occhi aguzzi, e le dicessi: tu sei la nipote, o la pronipote di Peppedda ’e Maria Jubanna; o a quell’altra che è apparsa col fazzoletto ripiegato sulla testa e un ramaiolo nella mano: tu sei la nipote o pronipote di Luisa ’e Maria Zoseppa; col matronimico che è il segno della antica comune razza? Come in un negativo che si sviluppa, volti remoti ricompaiono in questi che mi circondano: gente sparita dalla terra e dalla memoria, gente dissolta nel nulla, e che invece si ripete senza saperlo nelle generazioni, in una eternità della specie, di cui non si comprende se sia il trionfo della vita o il trionfo della morte. Mi sembra di essere già nel cimitero dove sono diretto, un cimitero di vivi, certo: ma non sono i vivi che sono venuto a cercare in Sa ’e Manca, nel camposanto dominato dalla rupe, che sembrava una parca?» (p. 97). «Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria» (p. 101). «È possibile che io perda il tempo (e sia pure questi miei tardi anni) a dare una realtà a persone che realtà non hanno mai avuta né potevano avere, che non possono interessare nessuno, perché la loro esistenza si riduce a un atto di nascita e un atto di morte? Ho sofferto terribilmente, per questo improvviso vuoto che si è formato intorno a me. Non c’è il minimo dubbio che Pietro Catte in astratto non sia una realtà, come non lo è alcun altro uomo su questa terra: ma il fatto è che egli è nato ed è morto (lo attestano quegli irrefutabili atti), e questo gli dà una realtà nel concreto, perché la nascita e la morte sono i due momenti in cui l’infinito diventa finito; e il finito è il solo modo di essere dell’infinito. Pietro Catte ha tentato di sottrarsi alla realtà impiccandosi all’albero di Biscollai: ma la sua è stata una vana speranza, perché non si può annullare il proprio essere nati. Per questo io dico che Pietro Catte, come tutti i miseri personaggi di questo racconto, è importante, e deve interessare tutti: se egli non esiste nessuno di noi esiste. E lo stesso vale per Fileddu» (p. 149). «Invecchio rapidamente e sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l’oblio. Forse non erano Don Sebastiano, Donna Vincenza, Gonaria, Pedduzza, Gaggia, Baliodda, Dirripezza, tutti gli altri che mi hanno scongiurato di liberarli dalla loro vita; sono io che li ho evocati per liberarmi dalla mia senza misurare il rischio al quale mi esponevo, di rendermi eterno. Oggi, poi, di là dai vetri di questa stanza remota dove io mi sono rifugiato, nevica: una neve leggera che si posa sulle vie e sugli alberi come il tempo sopra di noi. Fra breve tutto sarà uguale. Nel cimitero di Nuoro non si distinguerà il vecchio dal nuovo: “essi” avranno un’effimera pace sotto il manto bianco. Sono stato una volta piccolo anch’io, e il ricordo mi assale di quando seguivo il turbinare dei fiocchi col naso schiacciato contro la finestra. C’erano tutti allora, nella stanza ravvivata dal caminetto, ed eravamo felici poiché non ci conoscevamo. Per conoscersi bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna che ci sia uno che ti raccolga, ti risusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale. È quello che ho fatto io in questi anni, che vorrei non aver fatto e continuerò a fare perché ormai non si tratta dell’altrui destino ma del mio» (p. 267).
Da Salvatore Mannuzzu, Procedura, con uno scritto di Natalia Ginzburg, Torino, Einaudi, 2001: «Si sa che la giustizia si amministra con una logica, e un’etica, vicine parenti dell’arrangiarsi delle caserme. Da me in concreto ci si attendeva il colpo al cerchio e l’altro alla botte di sempre; ma simili concretezze mi ripugnano, la mia ambiguità è tale e tanta che continuamente s’intreccia a una irriducibilità parallela, mia nello stesso modo» (p. 107). «Dunque è difficile (direi: è disperato) tentare qui una sintesi. Che cosa conta di questa storia, senza punti di partenza né d’arrivo, se non il suo procedere: fatto di casualità e irragionevolezze, a incominciare dalle mie; determinato, in qualche piccola parte, anche dalle negligenze, dagli abbagli, dagli scarti di fede di un giudice reprensibile – tale conclamato per tabulas?» (p. 125). «Sì, l’inferno è banale, avevo un bel ripetermi. Però mi restava – taceva anche Masu – l’angoscia non di ciò che avevo visto, ma di ciò che non sapevo e dunque non avrei potuto dire: che avrei sempre ignorato. Anche perché non volevo varcare, nemmeno col pensiero, le conterie oscillanti della tenda che dal sordido studio fotografico – protetto dall’insegna verticale: eden – immetteva, dove? se era quello il luogo deputato, nel quale Valerio entrava, con un suo bagaglio che non riuscivo a immaginare» (p. 183). «Che cos’è la verità: già, quid est veritas? E che ce ne facciamo – di sapere per esempio se davvero Biba non ha resistito all’occasione di quelle capsule il cui contenuto era tanto facilmente sostituibile, dimenticate nella sua casa, e di un po’ di cianuro di potassio messo da parte chissà per se stessa: o cercato dopo, apposta? Tutto rimane incerto, sin da queste ipotesi, e poi quando riaffiora il senso – possibile – del suo ultimo tentativo, fatto mediante la telefonata a Valerio: né si saprà mai se a pesarle sino a quel punto estremo fosse la convinzione che lui non avrebbe preso il medicinale, per come le rispondeva; o se allora, invece, la bilancia di Biba si fosse già rovesciata dentro le acque del Tirreno, che lei avrebbe visto fuggire dalla motonave in una placida notte estiva: e così anche Valerio ne fosse stato preso, in quel suo modo, poco conta il prima o il dopo. – Ma a chi possono essere utili queste o altre verità, tutte? O non importa che siano utili: sono di più?» (pp. 204-205). «È vero che non è la mia storia, come ho detto all’inizio? O il suo piccolo specchio convesso e macchiato mi rimanda, deformata, la mia immagine? (come ogni prigione la stanza dove si svolge la mia vita?) Dunque ora dovrebbe confortarmi il ricordo della fotografia che ho visto, insieme ad altre, in casa di donna Teresita Garau: Biba e Valerio bambini, come lei a fatica lo regge in braccio e quasi le cade: e che mi pare raffiguri – per quanto poi è avvenuto – una Deposizione. Ma
so
bene che, dovunque io vada, alla fine mi accoglierà, deposto, solo
un campo del vasaio – o di sangue (Acéldama), a seconda di ciò
che nel frattempo sarà accaduto: insomma quello dove si
seppelliscono i forestieri» (p. 206). Note 1 Due indicazioni soltanto: P. Ricœur, Sé come un altro, trad. it. di D. Iannotta, Milano, Jaca Book, 1993; M. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, trad. it. di G. Bettini, Milano, Feltrinelli, 1996. 2 Due sole indicazioni anche in questo caso: G. De Cataldo, Romanzo criminale, Torino, Einaudi, 2002; G. Carofiglio, Testimone inconsapevole, Palermo, Sellerio, 2002. 3 Si potrà vedere in proposito il bel romanzo di esordio di S. Atzeni, Apologo del giudice bandito, Palermo, Sellerio, 1986. 4 Cfr. per esempio S. Satta, Contributo alla dottrina dell’arbitrato, Milano, Vita e Pensiero, 1931; Id., La rivendita forzata, Milano, Giuffrè, 1933; Id., L’esecuzione forzata, Milano, Giuffrè, 1937; Id., Introduzione allo studio del diritto processuale civile, Milano, Giuffrè, 1939; Id., Teoria e pratica del processo. Saggi di diritto processuale, Milano, Giuffré, 1940; Id., Guida pratica per il nuovo processo civile italiano, Padova, Cedam, 1941; Id., Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, Società editrice del “Foro italiano”, 1943; Id., Diritto processuale civile, Padova, Cedam, 1948; Id., Commentario al Codice di procedura civile, Milano, Vallardi, 1959-1971 (in cinque volumi); Id., Quaderni del diritto e del processo civile, Padova, Cedam, 1969-1973 (in sei volumi). La maggior parte dei volumi menzionati ha avuto numerose edizioni successive, spesso aggiornate. Cfr. anche Id., Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, Cedam, 1968, recentemente riedito dalla casa editrice Ilisso di Nuoro con una prefazione di Ferdinando Mazzarella (2004). 5 S. Satta, De profundis, Padova, Cedam, 1948, ripubblicato da Adelphi nel 1980 e successivamente, nel 2003, presso la casa editrice Ilisso di Nuoro, con una prefazione di Remo Bodei. Un precedente romanzo giovanile, scritto tra il 1926 e il 1928 negli anni di cura in un sanatorio di Merano, vedrà la luce solo dopo la morte dell’autore, cfr. Id., La veranda, Milano, Adelphi, 1981. 6 S. Satta, Il giorno del giudizio, Padova, Cedam, 1977, ripubblicato da Adelphi nel 1979, vedrà successivamente un gran numero di ristampe e di riedizioni. Cfr. anche Id., L’autografo de Il giorno del giudizio, edizione critica a cura di G. Marci, Cagliari, Cuec, 2003. 7 G. Steiner, “Un millennio di solitudine”, in S. Satta, Il giorno del giudizio, prefazione di G. Steiner, Nuoro, Ilisso, 1999, pp. 8, 9. D’ora in poi si citerà anche l’opera di Salvatore Satta da questa edizione. 8 S. Satta, Il giorno del giudizio, cit., p. 185. 9 Cfr. ivi, p. 59: «forse la vera e la sola storia è il giorno del giudizio, che non per nulla si chiama universale». 10 Relativamente a questo suo ultimo impegno si potrà vedere S. Mannuzzu, Il fantasma della giustizia, Bologna, il Mulino, 1998. 11 S. Mannuzzu, Procedura, Torino, Einaudi, 1988. 12 Di Salvatore Mannuzzu si vedano anche i romanzi successivi, tutti pubblicati da Einaudi: Un morso di formica (1989), Le ceneri del Montiferro (1994), Il terzo suono (1995), Il catalogo (2000), Alice (2001), Le fate dell’inverno (2004); così come la raccolta di racconti La figlia perduta (1992) e la raccolta di poesie Corpus (1997). Si veda anche la Lectio magistralis tenuta nell’ottobre 2004 in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lettere e filosofia da parte dell’Università di Sassari in Id., Giobbe, con due interviste di M. P. Masala e C. Cossu, Cagliari, Edizioni Della Torre, 2007, oltre che il recente Id., Cenere e ghiaccio. Undici prove di resistenza, Roma, Edizioni dell’asino, 2009. 13 N. Ginzburg, “Premessa”, in S. Mannuzzu, Procedura, cit., p. VI. 14 S. Mannuzzu, Procedura, cit., p. 211. |