Il problema non
è tanto
quello dell’obbedienza dei giudici a ciò che il potere dice: Se si guarda alla produzione teorica (dai corsi al Collège de France sul potere psichiatrico e gli anormali fino a quelli su governamentalità e biopolitica, passando per il fondamentale Sorvegliare e punire1) ed alle iniziative concrete (si pensi alla creazione del G.I.P.2, ma anche ad altre attività connesse o successive a questa breve, straordinaria esperienza3), gli anni Settanta del secolo scorso appaiono senza dubbio quelli in cui Michel Foucault, dedicandosi alla genealogia del potere, ha inciso più profondamente sulla cultura francese, soprattutto a sinistra; sono gli anni in cui la sua opera sembra sedimentarsi, per poi lievitare, nelle menti di coloro che ebbero la fortuna di incontrarlo e di collaborare con lui. Uno
di questi fecondi incontri è testimoniato, a distanza di più di un
quarto di secolo, dall’intervista rilasciata nel 2004 a «Vacarme»
dal magistrato francese Louis Joinet, oggi consulente esperto
dell’ONU; l’intervista, che proponiamo qui in traduzione
italiana, fungeva da appendice alla pubblicazione, in Francia, di un
breve testo foucaultiano del 19774,
che di recente è apparso nel nostro Paese all’interno di una densa
raccolta di interventi occasionali di Foucault5,
i quali, come vedremo, appaiono legati a vario titolo e a doppio filo
con le riflessioni svolte altrettanto occasionalmente da Joinet.
1. Per comprendere la portata politica e gli effetti a lungo termine della critica foucaultiana al sistema giudiziario, oltre che carcerario, su coloro che vi aderirono o ne furono in qualche modo coinvolti, bisogna ripercorrere un segmento particolare della biografia di Louis Joinet, quello relativo all’architettura giuridica della cosiddetta “dottrina Mitterrand”: negli anni Ottanta, la Francia socialista del Guardasigilli Robert Badinter decise di non concedere alcuna estradizione per i rifugiati ‘politici’ (terroristi italiani, irlandesi, baschi, tedeschi), offrendo loro, al contrario, l’uscita dalla clandestinità e la libertà di parola6. Si trattò di una pratica garantista fortemente condannata dai governi italiani del dopo-Moro, ma legata alla tradizione rivoluzionaria francese e protrattasi per tutti i Novanta (fino a Jospin). Quanto a Badinter, ci torneremo tra poco. Come ha avuto occasione di raccontare a Libération il 23 settembre 2002, Joinet fu chiamato dal neoeletto François Mitterrand ad elaborare una strategia di riforme e di tutela dei diritti, capace di rovesciare il volto gaullista della Francia e di far dimenticare le violenze della guerra d’Algeria: «Al di là della risposta giudiziaria, si trattava di facilitare il cammino di chi tentava di uscire dalla lotta armata per andare verso una soluzione politica. Era importante non marginalizzare quelli che avevano una riflessione politica»7. In quest’ottica di sospensione del giudizio sulla violenza rivoluzionaria, Joinet fu incaricato di seguire i dossier sulle estradizioni dei rifugiati: «Le prime liste da noi ricevute contenevano 142 nomi di rifugiati ricercati a vario titolo, ma appaiono subito delle reticenze da parte della giustizia italiana»8. Mentre infatti i francesi, decriminalizzandolo, interpretavano in chiave socio-politica il terrorismo9, la nostra magistratura s’irrigidiva sulla linea della fermezza per scongiurare lo spettro della guerra civile, nell’ultima parte di quella che Sergio Zavoli ha documentato come “notte della Repubblica”. E non è casuale che questa lenta ma insesorabile depoliticizzazione del terrorismo, la cui cifra essenziale era la paura (paura del colpo di Stato, della mobilitazione delle masse, dell’emancipazione delle donne, ecc.), coincise con l’inizio del cosiddetto ‘riflusso’: all’ombra del Vaticano, un modesto benessere economico accompagnato dall’affermarsi della televisione commerciale addormentava la società italiana, inoculandole, con una nenia mediatica, la futura ossessione piccolo-borghese per la sicurezza: sicurezza dei propri beni, della propria persona, dei propri confini, della propria identità, ecc. Ora, poiché il tema della sicurezza è al centro dei profetici interventi di Foucault successivi a Sorvegliare e punire, che definiscono la posta in gioco nell’esercizio (liberale e/o socialista, è questo il punto) della governamentalità10, non seguiremo nei dettagli le vicende dei fuoriusciti italiani (da Scalzone a Battisti, passando per gli ‘universitari’ Persichetti e Negri), limitandoci a ricordare che fu grazie all’asilo informale in terra di Francia che si cominciò a discutere, secondo lo stesso Joinet, «sulle ragioni del fallimento della lotta armata»: l’uscita dalla clandestinità aveva permesso un ritorno alla parola politica che, animando la società e la cultura, avrebbe potuto esorcizzare proprio quella guerra civile di cui avevano paura i giudici nostrani... Facciamo piuttosto, a questo punto, un salto nel nostro passato prossimo: nel 2002, dopo il trattato di Schengen e il mandato d’arresto europeo, l’ascesa al potere di una nuova destra ha condotto la Francia ad un diverso atteggiamento nei confronti delle richieste di estradizione degli ex terroristi italiani colà rifugiati (e ormai bersagliati dal nostro centro-destra dopo il delitto Biagi, in virtù della riesumazione delle ‘nuove’ BR), e al definitivo abbandono della dottrina Mitterrand11, il che appare perfettamente coerente con l’ossessione sicuritaria scatenata su scala mondiale dall’11 settembre, ma interpretata dai singoli governi – Stati Uniti in testa – in chiave nazionale. Lo stato d’emergenza e/o d’eccezione come regola permanente12: è in questo quadro che matura la legge voluta dal Guardasigilli francese Dominique Perben13 in accordo con il suo omologo Roberto Castelli, ovvero l’avvicinamento all’Italia di Berlusconi ed il conseguente seppellimento di quel diritto estradizionale, di cui proprio Louis Joinet era stato l’“architetto” durante i governi socialisti. Ma, se la Legge Perben rappresenta in termini benjaminiani la post-storia, qual è la preistoria di tali governi? In altri termini: dove andremo a cercare la trama che unisce, ma al contempo divide, Foucault da Joinet e dalla sinistra francese? ...ovviamente negli anni di piombo, i Settanta.
2. La storia intellettuale di Joinet incrocia quella di Foucault all’altezza dell’esperienza del G.I.P. (1971-72) e nella secondà metà degli anni Settanta, periodo durante il quale, parallela all’interrogativo circa il diritto di punire14, andava maturando nel filosofo di Poitiers la diffidenza, per non dire l’angoscia, nei confronti del potere di giudicare. In una conversazione del 1977 con Jacques Laplanche e Robert Badinter (!), dal titolo, appunto, L’angoisse de juger15, Foucault critica il futuro ministro della Giustizia della presidenza Mitterrand, per la sua intenzione di porre ‘sotto giudizio’ il criminale piuttosto che il crimine, in nome della conoscenza psichiatrica dell’individuo da ‘correggere’ e ‘guarire’, cioè da normalizzare16; Insistendo sulla necessità di giudicare l’atto e non l’individuo17, egli denuncia il carattere teatrale e ritualistico del processo, nel quale chi giudica e condanna vede alleggerita la propria coscienza grazie alla «tartuferia psichiatrica»18, cioè all’ipocrita collusione del potere medico con quello giudiziario e carcerario19. Mentre Badinter, che si accinge a governare la popolazione francese, intende rassicurare gli officianti del rito processuale patologizzando (cioè inferiorizzando) il giudiziabile e salvaguardando così la figura del giudice20, Foucault ritiene che, per trasformare il sistema giudiziario e penale, si debba invece abbandonare costui alla sua angoscia. Ora, è proprio a quest’angoscia che sembra fare riferimento Joinet nell’intervista che presentiamo, dichiarando che ciò che lo accomuna a Foucault è una certa resistenza contro l’ineludibilità e la pervasività del giudizio. Il futuro consigliere giuridico dei governi socialisti resta in fondo un anti-giudice: Credo che il mio interesse per Foucault fosse allora quello di un magistrato che, nel suo foro interiore, tendeva a pensare che giudicare gli altri fosse un po’ un mestiere contro natura. [...] È senza dubbio questo a spiegare [...] come mai in quarant’anni di carriera nella magistratura ho ricoperto per più di ventitré anni funzioni di giurista e non di giudice. Credo che condividessi con Foucault, sebbene dall’interno, questa fondamentale reticenza verso l’esorbitante potere di giudicare. Quando dunque Joinet invita Foucault ai seminari del Sindacato della Magistratura, ciò che gli chiede è di aiutare i giudici «ad assumere una certa distanza, storica, critica e prospettica, dalle [loro] pratiche», poiché, «tenuto conto della nostra immagine di giudici contestatari, era grande la tentazione di cedere a una forma di fede in noi stessi riposante sul mito del buon giudice». Una tale distanza critico-prospettica costituisce forse l’eredità più importante del foucaultismo, inteso a sua volta come erede della genealogia nietzscheana; ma negli anni Settanta la sua applicazione al potere di giudicare avviene in un clima politicamente infuocato: Molto rapidamente questi stages sono diventati un crogiolo di riflessioni e di scambi di punti di vista, in cui ci sforzavamo di comprendere cosa stessimo facendo e in che direzione stessimo andando. Avevo chiesto ad esempio a Marin Karmitz, che conoscevo, di venire a proiettare Coup sur coup, il film che ha realizzato nel 1971. Vi si vedono degli operai tessili spinti all’estremo dalle vessazioni e dai turni di lavoro sequestrare il loro padrone.
Dal grande calderone della sinistra extra-parlamentare, dalla contestazione studentesca come movimento intellettuale più o meno saldato con quello operaio (com’è noto, molto più in Francia che in Italia), sarebbero uscite le prime formazioni terroristiche: in Italia, le Brigate Rosse cominciano a farsi notare con atti dimostrativi contro strutture industriali e sequestri di dirigenti delle fabbriche noti per comportamenti antisindacali21. In altre parole, rimuovendo l’angoscia attraverso la violenza, i terroristi iniziano a giudicare politicamente i padroni. Dal canto suo il giovane anti-giudice Joinet, socialista e fondatore di un sindacato di magistrati, appare preso dalla contraddizione tra il non voler giudicare/essere-giudicati e il dover giudicare/essere-giudicati (che rinvia a quella, più sottile, tra il poter giudicare e il saper giudicare), ed accompagna alla percezione del giudicare come «mestiere contro natura», la comprensione del giudizio come atto politico che deborda dalla sfera tradizionale della magistratura, avviandosi così verso una critica interna del potere giudiziario, visto foucaultianamente come insieme di poteri e contro-poteri.22 Ma, nell’intervista, il nocciolo del suo rapporto con Foucault è costituito dal rinvio al libro Liberté, libertés23, pubblicato nel 1976 con una prefazione di Mitterrand e promosso dal Partito socialista in vista delle elezioni politiche del 1978. Robert Badinter, Michel Rocard e altri sostenevano ciò che Foucault chiamava la «moltiplicazione del ruolo del magistrato». Gli autori proponevano cioè di affidare ai magistrati il compito di fare da contrappeso a una varietà di istituzioni e di gruppi potenzialmente liberticidi, dall’internamento psichiatrico al consumo, passando per le espulsioni e per la televisione. Il libro si sarebbe potuto sottotitolare: «o come fare la felicità delle persone attraverso il giudice». Si tratta di un’epitome piuttosto tendenziosa, rispetto all’analisi fattane da Foucault nel 1977 a Goutelas, proprio in occasione del seminario del SM24. Qui infatti Foucault critica ciò che lo stesso Joinet definisce «esorbitante potere di giudicare», ovvero l’eccezionale, e potenzialmente illimitata estensione del ruolo dei giudici al di là della sfera propriamente giuridica, verso una funzione di tutela della popolazione (si pensi alle future authority create come organi di garanzia) strettamente correlata all’ampliamento della dimensione economico- mediatica della vita sociale.25 I socialisti registravano in tal modo la trasformazione del cittadino in consumatore (homo œconomicus), ponendosi il problema di governarne i diritti nel medio della protezione e della sicurezza. Ciò che il programma politico di Liberté, libertés va configurando sembra essere infatti una sorta di colonizzazione biopolitica, da parte del potere giudiziario, di quei poteri – medico-psichiatrico, economico, psico-pedagogico, ecc. – che l’avevano precedentemente colonizzato, modificandolo radicalmente. Così, se da un lato si dischiudono nuovi àmbiti di applicazione, con relativa metamorfosi, della tradizionale figura del giudice26, d’altra parte il cittadino-consumatore diventa il bersaglio (cible) del futuro governo dello Stato socialista che, per esercitarsi, tende ad espandersi nella forma del giudizio protettivo e sicuritario, cioè normalizzante e pastorale, addizionando, invece che escludendo, i due corni della classica governamentalità liberale: libertà + sicurezza. I giudici, pontificando sul vero e sul falso benessere dei cittadini, devono allora stabilire l’optimum di libertà informata27 degli individui (in particolare quella di bambini, vecchi, donne: tutte categorie ‘inferiori’), attraverso misure di prevenzione e soprattutto di giudizio sul consumo, rendendo possibile, in un certo senso, il consumo informato del giudizio, ovvero il giudizio come nuovo oggetto di consumo28. Foucault, che del rapporto inversamente proporzionale tra libertà e sicurezza ha fatto il cardine di ben due corsi al Collège parigino (1976 e 1977-78), non sostiene espressamente una simile tesi, ma la tratteggia nel corso del 1978-79 dedicato alla biopolitica ed alle trasformazioni del liberalismo, oltre che in diversi interventi coevi. Qual è infatti, a suo giudizio, il nuovo patto che lo Stato (incluso lo stato sociale-socialista) offre al cittadino-consumatore? ...un “patto di sicurezza” post-schmittiano, emotivamente incardinato sul binomio paura - protezione:
Che succede, dunque, oggi? Il rapporto tra stato e popolazione avviene essenzialmente nella forma di quello che si potrebbe chiamare “patto di sicurezza”. In passato lo stato poteva dire: “Vi offro un territorio”, oppure “vi garantisco di poter vivere in pace all’interno delle frontiere”. Era il patto territoriale, quando la garanzia delle frontiere rappresentava la grande funzione dello stato. Oggi la questione delle frontiere non si pone affatto. Quel che lo stato propone come patto al suo popolo è: “sarete protetti”. Protetti da tutto ciò che può essere incertezza, danno, rischio. Siete malati? Avrete l’assistenza sanitaria! Non avete lavoro? Avrete il sussidio di disoccupazione! C’è un maremoto? Creeremo un fondo di solidarietà! Ci sono delinquenti? State certi che gli daremo una raddrizzata, una bella sorveglianza poliziesca!29 Come si può notare, fatta eccezione per il sussidio di disoccupazione, ogni differenza tra governamentalità liberale e stato sociale tende a svanire30. E se bisogna difendere la società dal pericolo, da ogni pericolo, se dunque la sicurezza viene posta dallo Stato «al di sopra delle leggi», qualunque pratica governamentale tenderà ad una circolare produzione di paura e sicurezza: E poi, che
cosa bisogna
proteggere, in questa società? Evidentemente quanto vi è di più
prezioso, di più essenziale, e pertanto di più minacciato. E che
cosa è più essenziale dello Stato, dal momento che protegge la
società, che ne ha tanto bisogno? Il ruolo della giustizia è dunque
quello di poteggere lo stato contro pericoli che, minacciandolo,
minacciano la società che lo Stato ha a sua volta il compito di
proteggere. Ecco la giustizia perfettamente inserita tra la società
e lo Stato. È lì il suo posto, la sua funzione, e non – come
ancora sostiene – tra il diritto e l’individuo.31
3. La posizione di Foucault alla fine degli anni Settanta appare dunque piuttosto netta: egli, che come molti intellettuali francesi gravita nell’orbita di quella che si definiva ‘seconda sinistra’ per il fatto di non essere allineata col PCF, in vista delle elezioni del ’78 non si schiera pubblicamente a favore dei socialisti (che le persero, vincendo solo tre anni dopo), ma esprime delle riserve sull’esistenza di un’adeguata, cioè politicamente condivisibile, «governamentalità socialista»32, registrando piuttosto l’estensione del giudiziabile in una società di informazione, prevenzione e controllo (nella quale cioè tutto è giudiziabile). Con ciò Foucault si mostra capace di cogliere, anche nella sinistra socialista francese che ha redatto la futura Carta delle Libertà, la possibile curvatura economica, e poi mediatica, della governamentalità: la moltiplicazione indefinita dell’oggetto giudiziabile, legata a quella dell’oggetto di consumo e di informazione, legittima la pretestuosa protezione del cittadino, che, a sua volta oggettivato in popolazione, diventa bersaglio (cible) del patto di sicurezza. Questa posizione critica viene riletta molto liberamente da Joinet nell’intervista. Essendo parte in causa, egli tende infatti a difendere i socialisti dai rilievi di Foucault: ...Da un lato, quando la sinistra è arrivata al potere, con Robert Badinter Guardasigilli, non ha collocato giudici ovunque, ma ha preso innanzitutto la saggia decisione di sopprimere i più pericolosi tra essi: tribunali militari, corte di sicurezza dello Stato. [...] Dall’altro l’ipotesi di una crescita di ciò che Foucault chiamava il «giudicabile» non si è verificata che in maniera parziale. L’evoluzione più significativa, per ciò che riguarda la costituzione di contro-poteri istituzionali, si è prodotta più nel campo amministrativo che in quello giudiziario. In realtà, molto profeticamente Foucault ha visto che, dal punto di vista governamentale, il campo economico-amministrativo, proprio nella misura in cui viene attraversato dal principio della trasparenza informativa33, sembra sovrapporsi senza residui a quello giudiziario, che a sua volta perde il carattere repressivo per assumerne uno persuasivo: negli anni Ottanta e Novanta, secondo lo stesso Joinet, abbiamo assistito ad una proliferazione ...di istituzioni incaricate di operazioni di controllo ma non fondate sul modello giudiziario. Il loro ruolo non è di giudicare stricto sensu, ma di rendere trasparenti le istituzioni e i gruppi di pressione. Il loro metodo? [...] Esse non reprimono, ma consigliano; non sanzionano, o meglio, la loro sanzione è la pubblicità. Credo si tratti di un’evoluzione decisiva nella storia di quel giudicabile di cui parlava Michel... Ora, è proprio questa estensione del giudiziabile, ridefinito nella forma del controllo e del consiglio, a condurre la società occidentale verso la depoliticizzazione del giudizio tipica del riflusso; ciò che Foucault, morto nel 1984, ha potuto osservare solo in forma embrionale, è lo spostamento delle resistenze dei governati dal campo politico-giuridico dei diritti a quello, meramente economico-amministrativo, del ‘contenzioso’: non sono tanto i luoghi di potere dei giudici a estendersi, quanto il contenzioso ad aumentare. Ciò è particolarmente evidente nell’ambito del consumo: la proliferazione del diritto in materia è legata in modo evidente allo sviluppo delle associazioni dei consumatori, che possono ormai costituirsi parte civile in nome dell’interesse generale. Nel suo intervento a Goutelas, d’altronde, Foucault evoca il consumo come uno dei nuovi oggetti del giudicabile. Ma, se posso permettermi, egli pone il problema dall’alto, dal lato del potere, dell’offerta istituzionale, mentre gli sviluppi più importanti credo siano avvenuti in basso, sul piano della domanda di giustizia, avendo i cittadini sempre più coscienza e conoscenza dei loro diritti. Joinet sembra dimenticare che è stato proprio Foucault, ne La volontà di sapere (1976), a sostenere che il potere “viene dal basso”, e che dunque non esiste alcuna testa istituzionale (nemmeno una testa socialista) del corpo sociale, staccata dai movimenti centrifughi dei governati. E tuttavia, nonostante il proliferare delle associazioni di consumatori, non è affatto dimostrabile che le persone abbiano sempre più coscienza – in senso politico – dei loro diritti, bensì soltanto una maggiore quantità d’informazione, peraltro caratterizzata da una sempre maggiore impotenza, in parte anche a causa dell’aumento del contenzioso di cui parla Joinet. Foucault aveva inoltre intuito che i cittadini-consumatori, “dal basso”, non sarebbero stati costretti da una volontà sovrana, ma informati, consigliati dal sistema governamentale ad esercitare la loro capacità di giudizio soprattutto e soltanto in certi settori, nei quali sarebbero stati trattati come individui da proteggere: coccolati come bambini da un potere che si dissimula a sua volta riducendosi, cioè assumendo la forma molecolare del governo economico-giudiziario (amministrativo) dello stato, i cittadini-consumatori vengono catturati dal pastorato del riflusso. Si tratta di una narcosi collettiva che, iniziata negli anni Ottanta, non è ancora finita, e la cui eternamente ritornante posta in gioco è, manco a dirlo, la sicurezza; osservano, non a caso, gli intervistatori di Joinet: «Quando si pensa alla legge Perben e a quelle che l’hanno immediatamente preceduta si ha la sensazione che «l’offerta» giudiziaria, a partire dalla metà degli anni Novanta, riprenda a proliferare: non più in nome delle libertà, come nel 1977, ma in nome della sicurezza». Oggi, a vent’anni dalla caduta del Muro di Berlino e dalla fine della guerra fredda che ancora restringeva lo sguardo di Foucault, non si governa più con l’autolimitazione economico-razionale del potere (il quieta non movēre del liberalismo classico), ma con un nuovo, dispendioso “patto di sicurezza”. E proprio la Legge Perben dimostra come l’estensione del giudiziabile venga realizzata in suo nome. Alla crisi dello stato-nazione si risponde con l’inasprimento delle norme internazionali di carattere sicuritario; ciò crea un nuovo, perverso rapporto tra governamentalità ed economia, un rapporto in cui il potere, sia statale che metastatale, non risparmia e razionalizza, ma, come nota lo stesso Joinet, spende, dilapida, distrugge: Assumendo i criteri a partire dai quali rifletteva Foucault si sarebbe portati a sostenere [...] che la strategia di potere sia troppo costosa rispetto ai suoi obiettivi; e tuttavia essa dura. Ciò equivarrebbe a dimenticare – e l’Iraq ne è la dimostrazione flagrante – che l’esercizio costoso del potere, politicamente ed economicamente, crea anche dei mercati incredibili. La distruzione crea i piani Marshall.
4. Nell’ultima parte dell’intervista rilasciata a «Vacarme», Joinet giunge a parlare del rovescio positivo della correlazione globale tra sicurezza ed economia, ossia della «giudiziarizzazione massiccia nel campo internazionale»: la cooperazione tra stati, inaugurata dopo il crollo del comunismo sovietico, non ha reso possibile soltanto il mandato d’arresto europeo in nome della lotta al terrorismo, ma anche la creazione di «giurisdizioni penali (la Corte Internazionale dei diritti dell’uomo, il Tribunale Penale Internazionale sull’ex Jugoslavia, sul Ruanda, sulla Sierra Leone, sulla Cambogia)», virtualmente capaci di punire i crimini di guerra e le violazioni dei diritti umani a distanza di decenni, e senza nessuna restrizione territoriale. Ma, oltre a constatare la relativa impotenza di questi organismi internazionali34, ci si può chiedere se le numerose zone d’ombra nazionali che ancora sfuggono a tali giurisdizioni, come ad esempio le carceri cinesi e iraniane nelle quali Joinet si è recato in visita, o se la stessa svolta politica francese relativa all’estradizione degli ex terroristi, non ripropongano in forme diverse un’opacità irriducibile, un cattivo funzionamento della governamentalità: un residuo cieco di sovranità e di arbitrio pre-giuridico che in essa lavora silenziosamente, come pulsione di morte. Lo scenario apertosi dopo l’11 settembre, ovvero l’internazionalizzazione del terrorismo cui fa paradossalmente da contraltare una recrudescenza della sovranità territoriale, ci porta infine alla questione della legittimità politica della violenza, sia essa operata da gruppi terroristici o dallo stato, oppure da entrambi. Quando nel 1977 Foucault, insieme a tutta la cosiddetta seconda sinistra francese, prende posizione contro l’estradizione verso la Germania Ovest di Karl Croissant, l’avvocato dalla banda Baader-Meinhof35, lo fa all’interno di una riflessione giuridico-politica sul terrorismo che può essere articolata in due punti essenziali. Da un lato, egli separa accuratamente la violenza praticata dalla RAF, da cui si distanzia, e il diritto d’asilo del suo avvocato, che difende36, sulla base di una implicita distinzione tra terrorismo nazionale e terrorismo giudicato eversivo, perché non più legato alla lotta anti-fascista: «quando si può ancorare a un movimento nazionale, il terrorismo è accettato, almeno fino a un certo punto, [...] perché è moralmente giustificato. I movimenti rivoluzionari non hanno successo e non acquisiscono un effetto pienamente storico se non nella misura in cui sono legati a movimenti nazionalisti: questa legge […] vale per il terrorismo come per ogni altra forma di azione. [...] Quando», come nel caso del «terrorismo ebraico prima della creazione dello stato d’Israele, [del] terrorismo palestinese [o] irlandese, si fa espressione di una nazionalità che non ha ancora indipendenza né strutture statali, e avanza queste rivendicazioni, il terrorismo è accettato»37. D’altra parte, Foucault inquadra il fenomeno terroristico all’interno dell’ossessione sicuritaria prodotta ad arte dallo stato per governare la popolazione attraverso misure d’eccezione: «Quel che crea uno shock assoluto nel terrorismo, suscitando la collera reale e non finta del governante, è ...il fatto che il terrorismo attacca esattamente sul piano in cui il governante ha affermato la possibilità di garantire alla gente che non accadrà niente di male. [...] Siamo in presenza di un’azione politica che “insecurizza” [“insécurise”] non solo la vita degli individui, ma i rapporti degli individui con tutte le istituzioni che li proteggevano. Di qui l’angoscia provocata dal terrorismo. Angoscia per i governanti. Angoscia anche per le persone che dànno la loro adesione allo stato, accettano tutto, le tasse, la gerarchia, l’obbedienza, perché lo stato protegge e garantisce contro l’insicurezza»38. Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, almeno in Italia, il carattere pastorale del governo sicuritario è rivelato dal paradosso per cui, quanto più la violenza terroristica e quindi l’insicurezza crescono, quanto più cioè il nemico interno minaccia di “colpire al cuore” lo stato, tanto più i cittadini obbediscono e aderiscono al “patto di sicurezza”. L’ordine ha bisogno, per prodursi, di produrre disordine: proprio quando non è nazionale, ma eversivo, il terrorismo (tradotto nella cosiddetta strategia della tensione) può funzionare come stabilizzatore della governamentalità – che guida la condotta degli uomini anche in modo oscuro, attraverso una violenza di stato, non di partito e dunque non apertamente totalitaria39. In quest’ottica, il potere giudiziario funziona a sua volta come rassicurante silenziatore della governamentalità liberale: indaga, processa, punisce persino con angoscia, ma, da buon servitore, tace sui segreti di stato. Nella Germania Ovest, invece, il terrorismo eversivo assumeva un carattere anomalo, dal momento che vi erano due Germanie, quindi due nazioni, di cui una apparentemente socialista40. E Foucault, angosciato da una divisione che rifletteva quella dell’Europa in blocchi contrapposti, dunque ossessionati dalla paura e dall’insicurezza reciproca41, sembra in questi anni volerla fuggire, guardando molto più a Est della DDR. Dopo il famoso viaggio in Giappone, verranno i reportages in Iran: è qui che Foucault credette di vedere all’opera un ‘terrorismo’ finalmente rivoluzionario, quello sciita dei pasdaran; una «sollevazione» che, né nazionale né eversiva, né liberale né socialista, gli si mostrò gravida di «spiritualità politica»42. Come se solo a Oriente fosse stato possibile resistere, o addirittura liberarsi dalla governamentalità, dal pastorato della sicurezza... Ma dopo trent’anni le prigioni iraniane visitate da Louis Joinet continuano a restituirci l’arma più antica del potere: quella della paura.
1 Cfr. M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74; Id., Gli anormali. Corso al Collège de France 1974-75, entrambi in trad. it. Feltrinelli, Milano 2004; Id., Bisogna difendere la società. Corso al Collège de France 1976, trad. it. Feltinelli, Milano 1998 ; Id., Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-78; Id., Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, entrambi in trad. it. Feltrinelli, Milano 2005; Id, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993. 2 Convinto della compromissione con il potere nascosta in ogni forma di giustizia popolare, all’epoca sostenuta da Sartre, ma al tempo stesso deciso a denunciare gli abusi del potere carcerario, Foucault fonda nel 1971 il Groupe d’information sur les prisons (G.I.P.), insieme a Pierre Vidal-Naquet e Daniel Defert; vi collaborano Jean-Marie Domenach, Robert Castel, Jacques Rancière, Jacques Donzelot, Gilles Deleuze e Claude Mauriac. Dopo diverse inchieste e la pubblicazione dei relativi dossier, il gruppo si scioglie per tensioni interne nel 1973. Un’ampia documentazione dell’attività del G.I.P. in traduzione italiana è contenuta nel volume di S. Vaccaro, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’ortopedia sociale, Mimesis, Milano 2005. 3 Oltre al C.A.P. (Comité d’action des prisonniers), costituito da detenuti ed ex detenuti sul modello del G.I.P. si costituiranno nel ’72 il G.I.S. (Gruppo informazione salute) e il G.I.A. (Gruppo informazione asilo). 4 Cfr. Michel Foucault à Goutelas: la redéfinition du «judiciable», «la célibataire», autunno 2004, pp. 149-152 (già in «Justice», 115, 1987, pp. 36-39). 5 Cfr. M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti Edizioni, Palermo 2009. Il testo in questione, La ridefinizione del giudiziabile, si trova alle pp. 37-50. 6 Come spiegò lo stesso Mitterrand nel 1985 al congresso della Lega dei diritti dell’uomo, era necessario accogliere coloro che «hanno chiuso con la macchina infernale, lo proclamano ed hanno iniziato una seconda fase della loro vita [...] Naturalmente, se questo o quello mancasse ai suoi impegni, ci ingannasse, noi lo colpiremmo. […] E lo estradiremo!». Se infatti il rifugiato politico viola la legge, incorre automaticamente nel giudizio e perde la sua inviolabilità. 7 Dall’articolo di P. Persichetti Storia della dottrina Mitterrand, apparso su Liberazione del 19 giugno 2008. «L’esperienza – racconta sempre l’ex consigliere dell’Eliseo – mi aveva insegnato che la clandestinità è la peggiore delle situazioni poiché produce gerarchie ma non dibattiti. La vera questione che pone la violenza politica, ripeteva Mitterrand, è certo quella di sapere come vi si entra, ma soprattutto come trovare il modo di uscirne. È sulla base di questo ragionamento che con l’accordo di Gaston Defferre, allora ministro dell’Interno, decidemmo di discutere con gli avvocati dei fuoriusciti». In questo modo si arrivò a delineare una soluzione: «Bisognava realizzare delle liste, fornire nomi, date e luoghi di nascita». Un gruppo di lavoro venne costituito presso il ministero dell’Interno [...] Delle inchieste furono ordinate, i rifugiati vennero sorvegliati ma i rapporti di polizia «mostravano che nessuno di loro violava la legge». 8 Dall’articolo di P. Persichetti: Tuttavia la reazione italiana non si fece attendere e molti pentiti, per ottenere agevolazioni e riduzioni di pena, cominciarono a sovraccaricare d’accuse gli esiliati, «circostanza che non solo riaccese una violenta campagna contro la Francia, ma soprattutto provocò una immediata inflazione di domande d’estradizione e al contempo un ulteriore aggravamento dell’incertezza giuridica che le contraddistingueva». Come sottolineerà Robert Pandraud, futuro sottosegretario alla sicurezza del governo Chirac: «Dal 1981, tra i 150 e i 200 brigatisti italiani sono rifugiati a Parigi. Una quarantina di loro beneficiano di un permesso di soggiorno, gli altri vivono in uno stato di non-diritto, tollerati ma non riconosciuti. Occorre precisare che il governo ha sempre rifiutato di dare seguito alle richieste d’estradizione avanzate nei loro confronti dall’Italia, nonostante una quindicina di queste richieste avessero ottenuto l’avviso favorevole della giustizia». 9 Forte della sua esperienza di un quarto di secolo all’ONU, Joinet (intervistato da Libération) ha sostenuto ad esempio che non è «facile per le famiglie delle vittime» del terrorismo, ma «la maggior parte dei processi di ritorno alla pace o alla democrazia comporta un margine d’impunità e passa per un’amnistia. Ma ciò suppone che un dialogo possa instaurarsi». Cfr. www.humanrights-geneva.info, oppure www.cnil.fr. Sulla necessità dialogica, cioè linguistica del perdono nei processi politici di riconciliazione che fanno seguito a guerre e stragi, cfr. J. Derrida, Perdonare, Cortina, Milano 2004 e B. Moroncini, La lingua del perdono, Filema, Napoli 2007. 10 Cfr. in part. Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, La sicurezza e le lo Stato (1977), La strategia dell’accerchiamento (1979), in M. Foucault, La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 61-76; 113-118. 11 Uno degli episodi più recenti è il decreto di estradizione firmato nell’estate del 2008 dal governo francese nei confronti dell’ex brigatista Marina Petrella. 12 Su ciò cfr. La questione dello stato di diritto in Michel Foucault, Postfazione di M. Senellart a La strategia dell’accerchiamento, cit., in part. pp. 261-263. 13 La Legge Perben (nomen-omen), emanata il 10 marzo 2004, che ha conosciuto un iter parlamentare molto travagliato, suscitato in una vasta opposizione e sulla quale sono stati sollevati molti dubbi di anti-costituzionalità, è una specie di Patriot Act alla francese: consta di ben 224 articoli che, oltre ad accentuare la separazione delle carriere nell’ambito della magistratura e ad ampliare il potere di quella inquirente, modificano numerose norme del codice penale e di procedura penale (inclusa la vecchia legge del 10 marzo 1927 sull’estradizione), ed elencano una serie di reati come terrorismo, traffico di stupefacenti e di esseri umani, torture e sequestri, inclusi quelli, più vaghi, di distruzione o deterioramento di beni comuni e furto, commessi dalla criminalità organizzata, ma sprt. il reato commesso da chi favorisce l’entrata, la circolazione e il soggiorno di stranieri irregolari. Se si escludono alcune misure contro la discriminazione razziale e l’antisemitismo, si tratta di una legge fortemente repressiva, dunque di un passo indietro rispetto alla tradizione garantista francese. 14 Cfr. ad es. Del buon uso del criminale (1978), in Le strategie dell’accerchiamento, cit., p. 103: «Ci vorranno anni, diversi tentativi e diversi terremoti, per determinare ciò che si deve punire e come farlo, e se punire ha un senso e se punire è possibile». L’eco di queste parole deve risuonare ancora nella mente di Joinet, quando lavora contro l’impunità e/o l’impunibilità (causata ad es. dalla morte) che spesso segue la violazione dei diritti umani. 15 M. Foucault, L’angoisse de juger, intervista con R. Badinter et J. Laplanche, «Le Nouvel Observateur», 655 (30 maggio-6 giugno 1977), ora in M. Foucault, Dits et écrits, vol. III, 1976-1979, Gallimard, Paris 1994, pp. 282-298. 16 Afferma infatti Badinter: «è il criminale che si giudica. Si può tentare di porre rimedio alle conseguenze di un crimine, ma è il criminale che si punisce. I giudici non potevano rifiutarsi di procedere verso il trattamento giudiziario. Potevano rifiutare l’idea di intervenire sul criminale per ricondurlo nella norma? Cosa farne altrimenti? Gettarlo in una fossa per vent’anni? Non è più possibile. E allora? Reinserirlo normalizzandolo. Dal punto di vista del tecnocrate giudiziario – giudice o avvocato –, non vi è altro criterio possibile» (ivi, p. 697, trad. it. di G. Brindisi). 17 Cfr. sprt. Attenzione: pericolo e Del buon uso del criminale (1978), in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 91-104. 18 Cfr. M. Foucault, L’angoisse de juger, cit., p. 297. 19 «Al termine di questa grande liturgia giuridico-psicologica […] i giurati accettano infine questa cosa enorme: punire, con il sentimento di aver compiuto un atto di sicurezza-igiene sociale, con la sensazione di trattare il male spedendo un poveruomo in prigione per vent’anni. L’incredibile difficoltà di punire si trova così dissolta nella teatralità, e ciò non funziona affatto male» (ivi, p. 699, trad. it. di G. Brindisi). Una denuncia analoga, che pure riconosce l’inevitabilità del giudizio, si trova nell’articolo Maniere di giustizia (1979), in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 105-112. 20 Su questo punto cfr. G. Brindisi, Potere e giudizio. Giurisdizione e veridizione nella genealogia di Michel Foucault, tesi di dottorato in Filosofia del diritto inedita, disponibile sul sito www.fedoa.unina.it/view/people. 21 Il primo gesto di rilevanza mediatica firmato dalle BR fu l’esplosione di alcune bombe incendiarie sulla pista della Pirelli a Lainate la notte del 15 gennaio 1971; prima di allora, c’erano stati solo pochi atti vandalici come l’incendio del box auto di un dirigente della Sit-Siemens (dove lavoravano, tra gli altri, Mario Moretti, Corrado Alunni e Paola Besuschio) il 17 settembre 1970 o quello dell’automobile del capo del personale della Pirelli (dicembre 1970); nei volantini di rivendicazione di questi atti comparve per la prima volta la stella a cinque punte. Il primo sequestro di persona fu quello di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit-Siemens, prelevato il 3 marzo 1972 da un commando formato da tre brigatisti travestiti da operai dello stabilimento e rilasciato un’ora dopo nel parcheggio della stessa fabbrica con un cartello appeso al collo su cui era scritto: «Brigate Rosse - Mordi e fuggi! - Niente resterà impunito! - Colpirne uno per educarne cento!» Sulla storia delle BR,cfr. P. Casamassima, Il libro nero delle Brigate Rosse, Newton Compton, Roma 2007; M. Moretti, R. Rossanda, Brigate Rosse. Una storia italiana, Baldini & Castoldi, Milano 2002³; A. Franceschini, Mara, Renato ed io, Mondadori, Milano 1988. 22 Eccone un esempio nell’intervista: «In un libro il sindacato criticava duramente [gli avvocati] nella misura in cui potevano fare da schermo tra il giustiziabile e la “buona” giustizia che cercavamo di rendere. Io non ero d’accordo. Bisogna sì pensare la giustizia come un contro-potere, ma è anche e soprattutto necessario che esistano dei contro-poteri rispetto alla giustizia stessa, ciò che costituisce l’essenza del ruolo dell’avvocato». 23 Cfr. Liberté, libertés. Réflexions du comité pour une charte des libertés animé par Robert Badinter, Gallimard, Paris 1976, alla cui stesura collaborarono, tra gli altri, J. Lang, E. Le Roy Ladurie, J. Attali e M. Serres. 24 Cfr. M. Foucault, La ridefinizione del giudiziabile, in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 37-50. 25 Cfr. ivi, p. 42. 26 Cfr. Liberté, libertés, cit., pp. 73-74 e 90-94. Qui ad es. egli viene indicato come colui che non deve sanzionare un comportamento contrario alla legge, bensì semplicemente esprimere biasimo su una condotta diversa da quella da lui stesso stabilita come più libera e meno pericolosa per i cittadini. 27 Cfr. La ridefinizione del giudiziabile, in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 48-49. 28 Si pensi ad esempio all’obbligo di apporre sui prodotti etichette informative. 29 La sicurezza e lo Stato, in La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 71. E più oltre, a p. 73: «Le società sicuritarie che si stanno instaurando tollerano ...tutta una serie di comportamenti differenti, variegati, persino devianti, antagonisti gli uni agli altri; a condizione, certo, che questi si trovino all’interno di un involucro che eliminerà cose, persone, comportamenti considerati come accidentali e pericolosi. Questa delimitazione dell’“accidente pericoloso” è effettivamente compito del potere. Ma in questo involucro ci sono un margine di manovra e un pluralismo tollerati molto più grandi rispetto a quanto accade nell’ambito dei totalitarismi. È un potere più scaltro, più sottile di quello del totalitarismo». 30 Sulla problematica interdipendenza tra socialismo e liberalismo, dunque sulla sostanziale specularità di governamenalità liberale e razionalità economica (apparato) socialista, cfr. Nascita della biopolitica, cit., pp. 89-90. 31 La strategia dell’accerchiamento, in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 116-117. 32 Già prima dell’ascesa al potere di Mitterrand, Foucault, essendosi mostrato fortemente critico nei confronti del neoliberalismo di Giscard d’Estaing e della sua economia sociale di mercato, poneva la questione come compito: «Esiste una governamentalità adeguata [al socialismo]? [...] se esiste una governamentalità effettivamente socialista, non è nascosta all’interno del socialismo e dei suoi testi. Bisogna inventarla» (M. Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-79, cit., p. 91; sulla critica alla politica sociale di Giscard cfr. passim, pp. 161-175). 33 Cfr. La ridefinizione del giudiziabile, in La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 47. 34 Cfr. D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari 2006; Id., I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma 2001. 35 Cfr. Karl Croissant sarà estradato? in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 51-59. Difensore di una delle più famose bande della Rote Armee Fraktion (RAF), Croissant aveva chiesto e ottenuto asilo in Francia nel luglio del ’77; tuttavia, dopo la rappresaglia scatenata dalla RAF (l’assassinio del presidente degli industriali della Schleyer) a causa della morte di tre suoi membri nel carcere di Stoccarda, Croissant viene arrestato e, nel novembre del ’77, estradato verso la RFT. Quest’episodio deve aver profondamente segnato Joinet, futuro architetto della dottrina Mitterrand sulle estradizioni. 36 In ciò la posizione di Foucault appare molto cauta e simile a quella del futuro ministro Robert Badinter: cfr. R. Badinter, Terrorisme et liberté, “Le Monde”, 14 ottobre 1977. Si comprende allora perché fu proprio il caso Croissant ad essere all’origine della rottura tra Foucault e Deleuze, che faceva della solidarietà con l’avvocato della RAF una questione ideologica, attribuendo al terrorismo tout court una valenza rivoluzionaria contro la ‘fascista’ Germania Ovest. Su ciò cfr. G. Deleuze, F. Guattari, Le pire moyen de faire l’Europe, “Le Monde”, 2 novembre 1977; D. Eribon, Michel Foucault, Flammarion, Paris 1989, p. 276. 37 La sicurezza e lo stato, in La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 68. 38 La sicurezza e lo stato, in La strategia dell’accerchiamento, cit., p. 72. 39 Sulla diffidenza di Foucault verso il nesso stato-totalitarismo, e sulla fascistizzazione della società attraverso la politica di partito, cfr. Nascita della biopolitica, cit., pp. 153-159. 40 Su ciò cfr. Nascita della biopolitica, cit., pp. 89 e sg. Come sottolinea M. Senellart (cfr. la sua Nota del curatore a Sicurezza, territorio, popolazione, cit., pp. 276-277), le lezioni di questo corso dedicate all’ordo-liberalismo tedesco sono il segno dell’attenzione storico-politica di Foucault verso la divisione della Germania. 41 Su ciò cfr. Ormai la sicurezza è al di sopra delle leggi, in La strategia dell’accerchiamento, cit., pp. 61-65. 42 Cfr. M. Foucault, À quoi rêvent les Iraniens?, “Le Nouvel Observateur”, 16-22 ottobre 1978; trad. it. in Id., Taccuino persiano, Guerini e Associati, Milano 1998.
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