sotto giudizio
EMERGENZE

Critiche del giudizio
Intervista a Louis Joinet di Olivier Doubre e Stany Grelet



Nota introduttiva
Fondatore del Sindacato della Magistatura (che negli anni Settanta rappresentava la sinistra del potere giudiziario francese, rapidamente radicalizzatasi dopo gli eventi del Maggio), europeista e collaboratore del Consiglio d’Europa, Louis Joinet è stato consigliere giuridico di tutti i primi ministri socialisti (e dello stesso Mitterrand) fra il 1981 e il 1991, occupandosi principalmente di tutela della privacy e di diritto internazionale, con particolare riguardo alla difesa dei diritti umani e al problema delle estradizioni. Giurista pressochè sconosciuto al grande pubblico italiano (da noi è apparsa la sua Prefazione a I media dell’odio. Reporters sans frontieres, a cura di R. de La Brosse, trad. it. di S. Milioti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1998; in francese segnaliamo Lutter contre l’impunite: dix questions pour comprendre et pour agir, sous la direction de Louis Joinet, Ed. La Decouverte, Paris 2002), negli anni in cui ha fatto parte della Commissione governativa francese per la Prevenzione della Discriminazione e la Protezione delle Minoranze, Joinet ha preso posizione contro le dittature dell’Est europeo ed i regimi dittatoriali dell’America Latina: le sue inchieste sui desaparecidos sono state alla base della Convenzione Internazionale in materia stilata dall’ONU, e grazie alla sua conoscenza diretta delle condizioni detentive in diversi Paesi, ha contribuito alla creazione dello Human Right Council. Con la fine della stagione politica socialista in Francia, Joinet è uscito dall’establishment governativo, diventando consulente esperto delle Nazioni Unite; in tale veste indipendente, o come osservatore/relatore speciale, ha partecipato a numerose missioni diplomatiche per la difesa dei diritti umani, ad esempio ad Haiti nel 2002.
[E. d. C.]






Critiche del giudizio (*)

Intervista a Louis Joinet di Olivier Doubre e Stany Grelet






1977. Foucault è invitato dal Syndicat de la magistrature a Goutelas. All’epoca la giustizia era quella di Peyrefitte e degli anni di piombo: la pena di morte non era stata ancora abolita, ciò che faceva del giudiziario un puro attributo della sovranità. A Goutelas tuttavia non è questa subordinazione al principe a preoccupare Foucault, bensì l’ipotesi inversa: la giustizia, foss’anche quella di Badinter, potrà mai diventare un contro-potere? Per Louis Joinet, cofondatore del SM e interlocutore di Foucault, la questione non ha smesso di risuonare durante tutto il corso di una carriera che lo vedrà ostinarsi a non diventare giudice. E tale questione Joinet se la pone nuovamente qui, come riprendendo una discussione interrotta.

Lei è uno dei fondatori del Syndicat de la Magistrature. È per questa via che ha incontrato Foucault?

Ho incontrato Foucault per la prima volta nel 1970 con mia moglie, in occasione della creazione del Groupe d’Information sur les prisons, il G.I.P. In seguito ci siamo incrociati nel corso di dibattiti o di altre riunioni, ad esempio nella cerchia della rivista Esprit, del cui comitato di redazione facevo parte, nel Comité d’Action des Prisonniers, il C.A.P., fondato da Serge Livrozet, nel Groupe d’Information Santé, il G.I.S. (che se non ricordo male era una sorta di G.I.P. della psichiatria), e infine nella nebulosa del Mouvement d’Action Judiciaire, il M.A.J., che riuniva dei giuristi specializzati in varie professioni intervenendo sul risvolto giuridico della maggior parte delle lotte dell’epoca.

Diciamo che inizialmente sono stati l’effervescenza e il crollo delle barriere del dopo ’68 a favorire il nostro incontro. Ma in un secondo momento il Syndicat de la Magistrature ha giocato un ruolo determinante. Va ricordato che la data di fondazione del sindacato può indurre in errore. Il sindacato è stato sì creato nel 1968, ma senza un rapporto diretto con il maggio: la decisione era stata presa nel dicembre 1967. In verità, per alcuni dei suoi fondatori, la creazione del sindacato affonda in parte le sue radici nella guerra d’Algeria. Per quelli come me, profondamente segnati da questo periodo, per noi che avevamo visto all’opera la giustizia laggiù, gli ideali di Montesquieu insegnati all’Ecole de la magistrature sembravano completamente rimossi. Probabilmente ciò non è estraneo al mio interesse per il pensiero di Michel.

Vale a dire?

Credo che il mio interesse per Foucault fosse allora quello di un magistrato che, nel suo foro interiore, tendeva a pensare che giudicare gli altri fosse un po’ un mestiere contro natura. Per quanto mi riguarda, se posso dirlo, sono entrato in magistratura tardi e assolutamente per caso. Al ritorno dalla guerra d’Algeria avevo ripreso il mio lavoro di maestro di strada nel 18º arrondissement. L’ho lasciato poco dopo per via di un conflitto di ordine pedagogico. Ripresi allora i miei studi di diritto, abbandonati dieci anni prima, e ciò mi ha condotto una sera a presentare una relazione sul ruolo della gioventù nell’evoluzione della società, soggetto ideale per un educatore. Il moderatore, che era un magistrato, mi ha avvicinato all’uscita dicendomi: «Lei dovrebbe entrare in magistratura». Risposi: «Senta, lei capita a proposito: sono disoccupato, mi dica cosa devo fare». Lui mi ha fatto ottenere una borsa, io ho preparato il concorso e sono stato accettato. Ecco tutto. Se non vi fosse stata una simile opportunità in un momento in cui cercavo lavoro non avrei mai pensato di diventare un giudice. È senza dubbio questo a spiegare – casi della vita o pregnanza dell’inconscio – come mai in quarant’anni di carriera in magistratura ho ricoperto per più di ventitré anni funzioni di giurista e non di giudice. Credo che condividessi con Foucault, sebbene dall’interno, questa fondamentale reticenza verso l’esorbitante potere di giudicare.

Lei l’ha affiancato anche nei seminari del Syndicat de la Magistrature a Goutelas, vicino Lione, ai quali è stato talvolta invitato. Cosa si aspettava da questo seminario e dalla presenza di Foucault?

Goutelas fu una sorta di ritiro per un gran numero di movimenti dell’epoca, in particolare per quello dei contadini-lavoratori. Inizialmente l’idea del sindacato era di mettere in piedi uno stage di formazione sindacale. Per quanto mi riguarda avevo già praticato il sindacalismo come educatore, prima di diventare giudice. Ma la maggioranza dei miei colleghi erano vergini in materia, e giustamente: erano in pochi ad aver esercitato un mestiere in precedenza, e soprattutto, l’inconscio collettivo del Palazzo ha sempre spinto a credere che il sindacalismo fosse proibito nella professione, mentre questo divieto non vale che per l’esercito. Molto rapidamente questi stages sono diventati un crogiolo di riflessioni e di scambi di punti di vista, in cui ci sforzavamo di comprendere cosa stessimo facendo e in che direzione stessimo andando. Avevo chiesto ad esempio a Marin Karmitz, che conoscevo, di venire a proiettare Coup sur coup, il film che ha realizzato nel 1971. Vi si vedono degli operai tessili spinti all’estremo dalle vessazioni e dai turni di lavoro sequestrare il loro padrone. Mi sembrava interessante mostrare a dei giudici il retro della scena che vale a degli operai il deferimento dinanzi a essi. Quanto a Foucault, è stato invitato due volte se non ricordo male, nel 1973 e nel 1977. Non veniva per farci una lezione, ma per aiutarci ad assumere una certa distanza, storica, critica e prospettica, dalle nostre pratiche. Personalmente, ho trovato in lui un modo di coltivare quella reticenza nei confronti del giudice di cui vi parlavo, foss’anche quella del buon giudice, che tentava allora una parte dei miei compagni.

Potrebbe dirci qualcosa in più al riguardo?

Tenuto conto della nostra immagine di giudici contestatari, era grande la tentazione di cedere a una forma di fede in noi stessi riposante sul mito del buon giudice. Tentazione comprensibile: uscivamo da una magistratura quasi-napoleonica – pensate che all’epoca i giudici erano ancora controllati dai procuratori – e in confronto eravamo obiettivamente dei giudici progressisti. Ma la legittima preoccupazione che il potere non interferisca tra il giudice e l’imputato diventa ai miei occhi una devianza quando si ritorce, ad esempio, contro gli avvocati. In un libro il sindacato li criticava duramente nella misura in cui potevano fare da schermo tra il giustiziabile e la «buona» giustizia che cercavamo di rendere. Io non ero d’accordo. Bisogna sì pensare la giustizia come un contro-potere, ma è anche e soprattutto necessario che esistano dei contro-poteri rispetto alla giustizia stessa, ciò che costituisce l’essenza del ruolo dell’avvocato.

Questo d’altronde è uno dei miei punti di contatto con Foucault. A Goutelas, nel 1977, era venuto a commentare un volume collettivo dal titolo Liberté, libertés, promosso dal Partito socialista in vista delle elezioni politiche del 1978. Robert Badinter, Michel Rocard e altri sostenevano ciò che Foucault chiamava la «moltiplicazione del ruolo del magistrato». Gli autori proponevano cioè di affidare ai magistrati il compito di fare da contrappeso a una varietà di istituzioni e di gruppi potenzialmente liberticidi, dall’internamento psichiatrico al consumo, passando per le espulsioni e per la televisione. Il libro si sarebbe potuto sottotitolare: «o come fare la felicità delle persone attraverso il giudice».

Siamo nel 1977: questa «moltiplicazione del ruolo del magistrato» di cui Foucault crede di rintracciare un sintomo in Liberté, libertés, e che all’epoca vi inquietava, in seguito si è avverata?

Non del tutto. Da un lato, quando la sinistra è arrivata al potere, con Robert Badinter Guardasigilli, non ha collocato giudici ovunque, ma ha preso innanzitutto la saggia decisione di sopprimere i più pericolosi tra essi: tribunali militari, corte di sicurezza dello Stato. A quel tempo io ero incaricato di questi dossier nello studio di Pierre Mauroy. Dall’altro l’ipotesi di una crescita di ciò che Foucault chiamava il «giudicabile» non si è verificata che in maniera parziale. L’evoluzione più significativa, per ciò che riguarda la costituzione di contro-poteri istituzionali, si è prodotta più nel campo amministrativo che in quello giudiziario. A partire dalla fine degli anni Settanta si è assistito in Francia, sul modello scandinavo, all’emergenza di quelle che si chiamano oramai «autorità amministrative indipendenti». Ho avuto l’opportunità di presiedere la prima di esse, la Commission nationale informatique et libertés (C.N.I.L.), ma molte altre hanno da allora visto la luce: la Commission d’accès aux documents administratifs (C.A.D.A.), il Conseil supérieur de l’audiovisuel (C.S.A.), l’Autorité de régulation des télécommunications (A.R.T.), ecc. Di che cosa si tratta? Di istituzioni incaricate di operazioni di controllo ma non fondate sul modello giudiziario. Il loro ruolo non è di giudicare stricto sensu, ma di rendere trasparenti le istituzioni e i gruppi di pressione. Il loro metodo? Il rapporto, dei pareri resi pubblici, dei principi direttori… Esse non reprimono, ma consigliano; non sanzionano, o meglio, la loro sanzione è la pubblicità. Credo si tratti di un’evoluzione decisiva nella storia di quel giudicabile di cui parlava Michel.

Vale a dire che la «giudiziarizzazione della società» non ha avuto luogo, contrariamente a quanto si ascolta dappertutto?

Quando si parla di «giudiziarizzazione» bisogna stare attenti a non confondere due cose: la domanda e l’offerta di giustizia, o in altri termini, il contenzioso e i giudici. In verità, sotto l’effetto della crescente capacità di organizzazione e di intervento della società civile, non sono tanto i luoghi di potere dei giudici a estendersi, quanto il contenzioso ad aumentare. Ciò è particolarmente evidente nell’ambito del consumo: la proliferazione del diritto in materia è legata in modo evidente allo sviluppo delle associazioni dei consumatori, che possono ormai costituirsi parte civile in nome dell’interesse generale. Nel suo intervento a Goutelas, d’altronde, Foucault evoca il consumo come uno dei nuovi oggetti del giudicabile. Ma, se posso permettermi, egli pone il problema dall’alto, dal lato del potere, dall’offerta istituzionale, mentre gli sviluppi più importanti credo siano avvenuti in basso, sul piano della domanda di giustizia, avendo i cittadini sempre più coscienza e conoscenza dei loro diritti. Si tratta di una mutazione quantitativa più che qualitativa del giudicabile.

Tra il contenzioso e i giudici, tuttavia, non vi è forse un terzo termine, il legislatore? Quando si pensa alla legge Perben e a quelle che l’hanno immediatamente preceduta si ha la sensazione che «l’offerta» giudiziaria, a partire dalla metà degli anni Novanta, riprenda a proliferare: non più in nome delle libertà, come nel 1977, ma in nome della sicurezza.

Si tratta in effetti di un’evoluzione notevole che rischia di lasciare un segno nelle stesse autorità amministrative indipendenti, e che costituisce oggi l’intera posta in gioco del progetto di legge che riformerà la C.N.I.L. (1), progetto al quale siamo in molti tra i vecchi membri a esserci opposti. La riforma che è stata elaborata le conferirà infatti dei poteri quasi giurisdizionali, facendoci ricadere nel giudiziario. Perché ero così legato a questa istituzione, tanto da essere frainteso sul punto in questione? Mi sono sempre opposto al fatto che essa potesse trasformarsi in un ulteriore giudice. Che il giudice, quando essa lo adisce, faccia pure il suo lavoro – ciò che, ahimé, non avviene sempre –, ma non deve essere essa stessa un giudice.

Questa giudiziarizzazione della C.N.I.L. è tanto più deplorevole quanto più si accompagna in contropartita, per le grandi imprese, a misure derogatorie che permettono loro di sfuggire al suo controllo. È in effetti in progetto la creazione di un «corrispondente informatico» nell’impresa, ossia di una sorta di sorvegliante privato. Se l’impresa se ne dota, non sarà più obbligata a dichiarare i suoi schedari alla commissione. Il problema è: non essendo previsto per questo soggetto uno statuto protetto, alla maniera di un delegato sindacale, è molto poco probabile che l’interessato si assuma il rischio di opporsi frontalmente al suo datore di lavoro in caso di mancato rispetto della legge da parte di quest’ultimo. Si perde dunque sui due fronti: la C.N.I.L. diventa un giudice supplementare, e la sua giurisdizione ha tutte le possibilità di essere elusa.

E nelle istituzioni internazionali, che lei conosce bene, cosa ne è delle analisi di Foucault? In particolare, cosa ne è di questo movimento di bilanciamento tra contro-poteri giudiziari e autorità amministrative indipendenti?

L’evoluzione storica è quasi inversa. Nelle istituzioni internazionali incaricate di proteggere i diritti dell’uomo, ad esempio nell’O.N.U., vi è una tradizione di tipo ombudsmän (2), nella persona di esperti indipendenti chiamati «relatori speciali». È il mandato che ho ricevuto dall’O.N.U. ad Haïti. Si tratta di una missione d’inchiesta e di raccomandazione che sfocia in un rapporto reso pubblico, pratica che costituisce tutto l’interesse democratico delle autorità amministrative indipendenti. Ed è ugualmente ciò che ho fatto nell’ambito di un precedente mandato sulla detenzione arbitraria in numerose prigioni del mondo, soprattutto in Cina e in Iran. Ma per riprendere i termini della nostra conversazione, si assiste pure da una quindicina d’anni a questa parte a una giudiziarizzazione massiccia nel campo internazionale. Il giudiziario guadagna un terreno considerevole in due modi: sia attraverso la creazione di giurisdizioni penali (la Corte Internazionale dei diritti dell’uomo, il Tribunale Penale Internazionale sull’ex Jugoslavia, sul Ruanda, sulla Sierra Leone, sulla Cambogia), sia attraverso la via della competenza universale (processo Pinochet). Vi è stato anche un tentativo, a mio modo di vedere troppo ambizioso, o comunque prematuro, di instaurazione di una competenza extra-territoriale attraverso il Belgio. Rimpiango di non poter discutere di ciò con Foucault. Tutte queste iniziative erano impensabili all’epoca, in particolar modo a causa della guerra fredda, mentre ora hanno un’ampiezza notevole.

Quali problemi avrebbe desiderato sottoporgli?

Mi avrebbe fatto piacere soprattutto proseguire con lui la discussione sul costo del potere intrapresa all’epoca. Nel suo intervento a Goutelas Foucault mette in luce una trasformazione nell’esercizio del potere in Europa che risale al XVIII secolo: un potere che si vuole razionale ormai deve economizzarsi. Egli pensa al costo esorbitante della repressione e della guerra per il potere stesso, nel loro significare la distruzione delle forze sulle quali quest’ultimo riposa – uomini, raccolti, beni, moneta, ecc. Ora, di ciò mi sarebbe piaciuto discuterne a partire dalla mia esperienza internazionale. Perché per quanto il ragionamento mi sembri valido in politica interna, sul piano internazionale quel che si produce è troppo spesso il contrario. Prendete il tribunale penale sull’ex Jugoslavia: il costo del funzionamento di una giornata di tribunale è considerevole, e pertanto funziona. Un altro esempio è quello delle forze di mantenimento della pace del tipo FORPRONU: anch’esse mobilitano delle somme faraoniche. Altro esempio ancora, la guerra in Iraq. Assumendo i criteri a partire dai quali rifletteva Foucault si sarebbe portati a sostenere, in questo caso, che la strategia di potere sia troppo costosa rispetto ai suoi obiettivi; e tuttavia essa dura. Ciò equivarrebbe a dimenticare – e l’Iraq ne è la dimostrazione flagrante – che l’esercizio costoso del potere, politicamente ed economicamente, crea anche dei mercati incredibili. La distruzione crea i piani Marshall. Sarebbe stato appassionante discuterne con Michel.

Dalla lettura di Sorvegliare e punire a oggi lei ha visitato 143 prigioni sparse in tutto il mondo: le analisi di Foucault hanno resistito al confronto?

Ciò che mi aveva particolarmente colpito in Sorvegliare e punire è lo sviluppo dell’architettura penitenziaria. L’architettura delle prigioni non è dappertutto panottica, ma è sempre e ovunque un dispositivo di potere decisamente refrattario alla trasparenza verso l’esterno, dunque ai contropoteri. Quando ho visitato la prigione di Evine, un complesso penitenziario di Teheran, per ricostituire le piante della prigione avevo ascoltato quasi per un anno vecchi prigionieri in esilio. Perché perlopiù, quale che sia il paese, le autorità non dicono dove sono i luoghi che voi vorreste visitare, o le persone che vorreste incontrare, oppure mentono sulla loro identità, come mi è accaduto in Argentina all’epoca della dittatura. Di colpo la posta è disporre di una pianta della prigione, così da poter cambiare direzione all’improvviso e andare a vedere quanto si tenta di nascondervi. Si possono utilizzare anche delle fotografie tratte dalla stampa. Quando un oppositore viene imprigionato, per gridare vittoria il governo pubblica un articolo con la sua foto, ciò che ci consente di assicurarci che il detenuto non è un infiltrato. Altra tattica: una volta che si ha la pianta, fare in modo di renderla nota. Raccogliete le piante e le foto in uno schedario e consultatelo ostensibilmente davanti alle vostre guide: per loro è destabilizzante, perché non sanno se ne avete venti, o di più, né se le piante sono complete o meno, e l’effetto dissuasivo che se ne produce non gli permette più di barare.

Una bella storia, molto foucaultiana: quando un contropotere si costituisce a partire dal sapere dei detenuti…

Sì. La differenza tra il G.I.P., il C.A.P. o il G.I.S. e organizzazioni come Amnesty o la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo – il cui ruolo d’altronde non è rimpiazzabile – è una sorta di solidarietà nel vissuto. Non so come spiegarlo. Non si tratta di dire: «Io, osservatore dei diritti dei detenuti – che è ad esempio il mio ruolo all’O.N.U. – disapprovo ciò che fate», ma piuttosto: «Noi, dentro e fuori, faremo sapere a tutti ciò che accade dietro le mura». Vi è un coinvolgimento maggiore, e anche un rischio maggiore: corrieri clandestini, manifestazioni sotto le finestre, fermi di polizia, ecc. Ciò che conta, in fondo, è che la politica sia progressivamente assunta dai primi interessati. È il mio problema ad Haïti. Le mie proposte come relatore speciale non mirano solo a contribuire alla costituzione di strutture che vigilino contro gli abusi di potere, ma anche a permettere l’appropriazione di queste strutture da parte degli Haïtiani stessi. L’esperienza mi ha insegnato che un dispositivo, per quanto imperfetto, se preso in carico dai suoi soggetti vale più di una bella architettura istituzionale di cui essi non si approprieranno mai. Questo è fondamentale. Credo che Michel non mi avrebbe contraddetto.

(traduzione di Gianvito Brindisi)


Note con rimando automatico al testo

* In «Vacarme», 29 (2004). Si ringraziano Louis Joinet e la redazione di «Vacarme» per la concessione della traduzione italiana.
1 Pochi giorni dopo quest’intervista è stata adottata la nuova legge «Informatique et libertés», che liberalizza la schedatura amministrativa generalizzata, copre le derive degli schedari polizieschi e accorda allo Stato tutti i regimi derogatori sugli schedari che costituisce. È stato il nuovo presidente del C.N.I.L., Alex Türk, il relatore del progetto di legge al Senato.
2 L’istituzione e il termine – letteralmente «colui che parla a nome d’altri» – sono di origine svedese. Tipico della socialdemocrazia scandinava, l’ombudsmän era in origine un funzionario indipendente, designato dal parlamento, a cui il cittadino poteva indirizzarsi quando contestava una posizione assunta nei suoi confronti da un’amministrazione pubblica. Progressivamente estesa a molteplici domini istituzionali e importata da numerosi paesi – in Francia, negli anni Settanta, con la creazione del Médiateur de la République o della C.N.I.L. –, la nozione designa attualmente varie forme di controllo del potere che hanno in comune il fatto di essere ufficiali (gli ombudsmän sono mandatari), non giuridiche (se possono essere reclutati tra i magistrati, essi non giudicano) e di procedere a un tempo attraverso l’investigazione, le raccomandazioni e i rapporti pubblici.


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