Il giudizio primo
di Paul Virilio
Nota introduttiva. Il breve articolo che proponiamo è stato pubblicato da Paul Virilio (Paris, 1932) nella rivista Esprit, nel numero 4-5 dell’aprile-maggio del 1972. Noto soprattutto per la sua riflessione sulle trasformazioni radicali che la velocità ha prodotto nelle relazioni sociali e culturali contemporanee, Virilio, in quanto urbanista-filosofo (è stato professore di Architettura presso l’Ecole spéciale d’Architecture di Parigi), ci ha consegnato, a partire dagli anni Settanta dello scorso secolo, numerosi e illuminanti saggi sulla crisi irreversibile delle città e della politica dovuta ad un vero e proprio cambiamento di paradigma prodottosi nella struttura del potere. La possibilità dello spostamento sempre più rapido delle persone e delle cose, dovuto a vettori di trasporto sempre più veloci e numerosi, unita allo sviluppo delle tele-comunicazioni che consentono all’informazione di viaggiare in rete in modo indipendente rispetto agli emittenti umani e agli stessi mezzi di trasporto dei corpi, ha trasformato irreversibilmente, a suo dire, le moderne democrazie in dromocrazie, e ha comportato di conseguenza una trasformazione nelle strategie del controllo sociale (cfr. Vitesse et Politique. Essai de Dromologie, Paris 1977, tr. it. Milano 1981;L’Horizon négativ. Essai de dromoscopie, Paris 1984, trad. it. Milano 2000; cfr. anche, come esito finale delle sue riflessioni sul controllo sociale, Ville panique, Paris 2004, trad. it. Milano 2004). Le modalità del controllo sociale da statiche e territoriali tendono a diventare dinamiche, mobili e de-territorializzate. Seguendo l’assunto secondo il quale la logica della velocità sia da considerarsi intrinsecamente “bellicosa” (assunto per la verità poco problematizzato), Virilio ritiene che “vince” il controllo del territorio chi è capace di fare due cose insieme: spostarsi velocemente e ricevere tele-informazioni in tempo reale. In fin dei conti potremmo definire la “dromocrazia” una forma di governo del territorio che unisce la tele-sorveglianza agli spostamenti veloci dei controllori (o dei repressori). Nel breve articolo del 1972 che presentiamo in traduzione italiana, queste conclusioni sono ancora in parte sullo sfondo, ma Virilio già lucidamente descrive – anche con riferimenti al Foucault studioso dei sistemi disciplinari – la paradossale coincidenza tra, da un lato, le leggi di chiusura dei manicomi e, dall’altra, la progressiva trasformazione dell’intero spazio sociale in spazio “concentrazionario”, in cui le nuove figure degli operatori sociali (assistenti sociali, psicologi, sociologi) diventano, a volte senza neanche rendersene conto, ‘figure di sistema’ necessarie al controllo sociale e alla “cura preventiva” delle anomalie e dei disadattamenti sociali. In una società che
ha smarrito il
senso religioso del “giudizio finale”, il “giudizio primo”
consiste nella preventiva normalizzazione delle divergenze sociali,
culturali, psicologiche e della creatività sociale in senso lato. È,
come lapidariamente scrive Virilio, la «dissuasione preventiva dei
possibili» (infra). (Vincenzo Cuomo)
Il giudizio primo di Paul Virilio Integrità
non integrazione Dopo la recente decisione della Camera dei Comuni, concernente la soppressione degli ospedali psichiatrici in Gran Bretagna, gli anti-psichiatri hanno vinto. Essi avrebbero contribuito ad affermare il carattere concentrazionario (asilaire) dell’insieme dello spazio sociale e, attraverso ciò, hanno aperto la strada alla moltitudine degli operatori sociali (travailleurs sociaux). Questa nuova situazione implica, in effetti, il controllo e la sorveglianza dei devianti sulla scala del territorio nazionale, fatto che, tra parentesi, si ricongiunge e completa il progetto di legge Enoch Powell1 sul controllo dell’immigrazione. Agli infermieri e ai guardiani dei vecchi ospedali del XIX secolo, subentrano l’operatore sociale e il poliziotto d’isolato. Lo spazio privato delle relazioni di vicinato, di isolato, di palazzo o di pianerottolo partecipa ormai al carattere pubblico delle piazze e delle grandi strade. Niente sfugge alla vigilanza del servizio d’ordine che pattuglia i cortili, gli scantinati e i pianerottoli degli alloggi. Il controllo sociale si esercita ora a domicilio e lo spazio urbano diventa trasparente, esposto impudicamente all’oscenità dello sguardo clinico o poliziesco. I commissariati di quartiere installano le loro succursali negli appartamenti… Effettivamente è possibile sopprimere i manicomi d’Inghilterra e preparare le basi per una riforma europea delle carceri. Lo spazio sociale è talmente saturo che non è più necessaria la pratica dell’isolamento per trattare i devianti (mentali, sociali). La città e il manicomio si confondono e la critica, giustificata, delle condizioni di detenzione del malato o del carcerato, permette simmetricamente la legittimazione di un controllo sociale globale. Il problema del delitto non è più quello dell’estorsione, del furto, del crimine etc., ma è quello dell’adattamento, è il principio della normalizzazione: l’imposizione di un’esigenza a un’esistenza copre l’insieme sociale. I delitti non sono che epifenomeni di un unico male: il disadattamento, la non-adeguazione allo statuto culturale e sociale, ad un ordine che rilancia senza tregua i limiti del sistema normativo [à un ordre qui repousse sans cesse les limites du système normatif]. I muri dei manicomi sono illusori ed arcaici, i nuovi tramezzamenti sono più sottili, meno visibili, ma penetrano nel cuore del tessuto sociale. All’interno delle nuove città essi formeranno l’infrastruttura dell’organizzazione urbana2 e l’operatore sociale vi sostituirà i mezzi di comunicazione di massa, sarà lo spettro a tre dimensioni, l’ologramma del nuovo messaggio. Alla domanda che pose Nanterre nel 1968: «Perché dei sociologi?», si può ora rispondere: per inquadrare la nuova assistenza, la legione dei 90.000 adattatori (adaptateurs) previsti dal VI Piano. Il carattere di anticipazione che rivestono queste pratiche non sembra tuttavia allarmare nessuno, laddove la minima utopia rivoluzionaria scandalizza per la sua apparente inconseguenza. I partiti politici vi vedono senza dubbio delle future masse di manovra, i sindacati un nuovo tipo di militanza, un po’ come la chiesa di un tempo di fronte alle culture straniere. Si assiste inoltre, attraverso la finzione politica di una normalizzazione generalizzata, all’apparizione d’una tecnologia sociale, come se le scienze umane, desiderose di meritare il loro nome, potessero essere catalogate come altrettante tecniche di punta. Il processo alle intenzioni [le procès d’intention] che si sviluppa inoltre all’insaputa di tutti, trova la sua migliore illustrazione nei metodi dei diversi organismi di pianificazione, in questi “scenari” che consistono nel simulare ipotetiche situazioni per tirare delle “conclusioni” utili al progetto3. L’utilizzo delle scienze sociali è divenuto, inoltre, e ormai già da un certo tempo, una realtà parallela a quella delle armi e la sfumata distinzione tra civile e militare ha considerevolmente ridotto la differenza tra conflitto e pace sociale. La normalizzazione sociale non è più il frutto d’una morale, ma dei criteri d’efficacia, di affidabilità, propri del gergo tecnologico. Mettere in primo piano la norma è in effetti frenare le trasgressioni che perturbano la funzionalità dello Stato. Ma qualcosa qui ci sfugge: la confusione mantenuta tra il funzionamento dell’istituzione e il funzionamento tecnocratico. L’economismo dell’era industriale ha messo in luce le capacità strumentali delle funzioni a detrimento dei loro campi fenomenali. Questa è la causa culturale dell’esaurimento degli ambienti (ecologico e sociologico). Questa è anche la ragione della rottura sempre più manifesta tra il corpo sociale e le sue istituzioni civili o religiose. È ciò che rende il richiamo in patria degli ideologi non solo necessario ma, sembrerebbe, indispensabile alla sopravvivenza dello Stato. Nondimeno, ci si dimentica, là ancora, un campo fenomenale, quello urbano. Da una parte si assiste allo sviluppo delle concentrazioni urbane, dall’altro si pretende di combatterne gli effetti attraverso i poliziotti… Dal momento che la città è diventata il luogo d’una acculturazione accelerata, d’una desocializzazione progressiva, si pensa di poter far fronte a questa situazione rivoluzionaria mobilitando l’armata degli adattatori! Ciò mostra una profonda misconoscenza del fenomeno urbano e soprattutto una disistima della sua portata. L’abisso che si crea qui al livello di una conoscenza reale dell’ambiente urbano e che, come abbiamo visto, deriva dalla svalorizzazione dell’insieme dell’habitat come prodotto della cultura dell’età industriale, non sarebbe così inquietante se non fosse contemporaneo d’un vuoto teorico tanto vasto dalla parte delle forze dell’opposizione. Lasciando tutta intera la problematica dello spazio sociale, ci sono elevate probabilità di vedere partecipare all’azione missionaria, coscientemente o meno, un buon numero di oppositori alla cultura dominante. L’esempio dell’apostolato etnologico o religioso è nondimeno là per metterci in guardia e bisogna qui intendere l’avvertimento di Jaulin4. Questa scoperta di anomalie riporta in auge in effetti il modello coloniale, come se, dopo aver abbandonato la dimensione geografica delle sue conquiste, l’imperialismo culturale perseguisse la sua strada “a domicilio”. Alle tribù selvagge e barbare subentrerà l’anormalità interna; il disadattato non sarà più colui che viene da un altro orizzonte ma colui che sorge dal sottosuolo della nostra propria cultura. All’interno di questo pseudo-colonialismo, gli operatori sociali si comporteranno nello stesso modo dei Servizi degli Affari indigeni. Si tratterà questa volta di civilizzare e di pacificare questi gruppi marginali, così simili alle inquietanti tribù dell’antico impero. Alla conquista dello spazio, praticamente compiuta, si congiunge anche il tentativo di reprimere l’effervescenza che si manifesta nello stesso tempo: la normalizzazione è una dissuasione clandestina dei possibili (des possibiles). Ora, noi non conosciamo che la conoscenza e se questa, come afferma Bacone5, è effettivamente dominio, allora noi non conosciamo che la distruzione, nel senso della destrutturazione, della disintegrazione, dell’analisi; può esserci forse l’illusione di pervenire al cuore, al centro, ma questa progressione mi sembra che vada verso un regresso di una comprensione reale del divenire della specie. Più noi pretendiamo di conoscere i fenomeni sociali, più quelli si modificano e ci sfuggono, e più noi opprimiamo l’entità sociale [la società] attraverso dei fossili legislativi e amministrativi. Più noi la dominiamo e più questa qui inventa e produce i mezzi per sfuggire a questa coercizione; come se una forza centrifuga de-centrasse (excentrait) i sistemi istituzionali, come se il corpo sociale progettasse e poi rigettasse la regola: dall’autoregolamentazione delle società antiche passando attraverso la regolazione attuale, fino all’inizio di questa “deregolazione” tecnocratica alla quale assistiamo. Il lavoro sociale è questo corpo sociale “in travaglio”. La questione è ora di sapere se questo parto ha bisogno di ostetriche (sage-femmes)6 o di uomini saggi (psicologi, sociologi, ecc.). Si può ragionevolmente credere che le scienze sociali faciliteranno la nascita d’una “nuova società”? Si può onestamente stimare che esse interverranno in modo plurale, nella divergenza dei loro punti di vista, oppure si può già supporre che un aspetto maggioritario prevarrà? La prospettiva sociale non sarebbe una garanzia scientifica; perché il nasconderlo, se non per dissimulare la prova di forza che qui s’ingaggia con l’immaginario sociale? Questa fonte di trasgressione degli interdetti, di superamento dei costumi e delle abitudini, questo traumatismo delle nascite, non ha alcun posto nella filosofia della storia. La produttività sovversiva del corpo sociale è perpetuamente mascherata attraverso le rappresentazioni e i ruoli. Questa metastabilità inquieta dà le vertigini, perché non esiste alcun rimedio, alcuna verità scientifica per conoscere la direzione delle insorgenze sociali (surgissements). La “cultura della povertà” non è più qui quella di Oscar Lewis7: povero è qui chi non ha nome, povero è chi non può essere nominato. A mio avviso tra noi ci sono troppi professori di folle, troppi clandestini pedagoghi; la critica del sapere non dovrebbe arrestarsi alle porte delle scuole e delle università. La cultura dominante ha prodotto da lungo tempo il suo spazio e che spazio! Saturo, pullulante d’ordini e di messaggi, d’oggetti e di veicoli. Vogliamo ancora aggiungere altro a questo affollamento oppure vogliamo infine svuotare tale spazio? Ciò che si chiama “conquista dello spazio” non è che il riconoscimento d’un volume finito: quello del nostro habitat. Noi ci muoviamo alla superficie di un globo che si restringe; noi abitiamo un solido finito e questa finitezza ci costringe a verificare i nostri progetti, i nostri studi su questi limiti ormai raggiunti. È la fine di un sistema di valori che privilegia il dominio, l’estensione, che si slancia trascendentalmente verso l’alto, verso le sfere: ormai tutto ci riporta pesantemente al referenziale di base, al suolo che ci sostiene. Tutto ciò che qui è escluso, svalorizzato, ci fa segno e ci conduce verso una misteriosa comunità; riconosciamoci in ciò che noi abbiamo sempre sfruttato, disprezzato e sottomesso, questa è la via d’uscita. Non c’è ora trascendenza possibile che verso il basso, attraverso un rivolgimento copernicano di valori e di prospettive. Per tale ragione l’ideologia che attualmente discrimina il sano dal malato è così funesta: l’ideologia sanitaria ostruisce l’uscita di soccorso; il giudizio primo che essa infligge ai popoli attraverso la normalizzazione sociale è la caricatura del giudizio finale dell’ideologia religiosa. Fino a che noi non accetteremo il mondo come limite storicamente raggiunto, i nostri lavori (le nostre scienze, le nostre tecniche) saranno inutili e dannosi perché alla omogeneizzazione senza sosta raggiunta dell’habitat risponderà un vuoto teorico sempre più grande. Il desiderio atavico di conquista non avrà più terreno da percorrere; più dello scopo di saziare le sue ambizioni, dopo la “morte di Dio” e quella dell’uomo, così facilmente accettate, ci proteggeremo dall’illusione imperialista nell’esitare a tirare le conseguenze di questa “morte dell’habitat”? Questa è l’unica questione, perché noi non sfuggiremo alla fine del mondo che ci promette l’Età industriale ed atomica che attraverso l’accettazione piena ed intera del mondo finito. È tempo di abbandonare questo sguardo moralizzatore, di dimenticare la prospettiva vitalista che orla di un orizzonte luminoso l’interpretazione del decadimento e dell’abiezione. Abbiamo bisogno di contemplare gli oscuri limiti del mondo, grazie ai quali ciascun atomo prende infine il suo valore, grazie ai quali l’opacità (epaisseur) accede all’esistenza. Se no l’operazione di vivisezione sociale che si ingaggerebbe e che sarebbe il prodotto, come la dissezione coloniale, non di un semplice potere politico ma dell’insieme d’una cultura, perpetuerà sulla materia sociale ciò che ha compiuto nella materialità dell’ambiente naturale: la normalizzazione del vissuto ripeterà l’estrazione e la contaminazione delle risorse dell’immaginazione popolare. All’esaurimento delle varie materie prime s’aggiungerà quello delle possibilità stesse dell’invenzione e, dunque, del rinnovamento della vita. (traduzione
dal francese di Vincenzo Cuomo)
1 [Enoch Powell (1912-1998), uomo politico britannico, è stato deputato per il Partito conservatore alla Camera dei Comuni tra il 1950 e il 1974 e per il Partito Unionista dell’Ulster dal 1974 al 1987. È divenuto famoso per il discorso tenuto a Birmigham il 20 aprile 1968 (The ‘Rivers of Blood’ speech) rivolto contro la politica governativa sull’immigrazione. Egli riteneva, infatti, che l’immigrazione di massa di persone di altre culture avrebbe provocato in Gran Bretagna “fiumi di sangue” (N.d.T.)] 2A Cergy-Pontoise per esempio. 3 Vedi lo “scenario dell’inaccettabile” pubblicato nel 1971 dall’Aménagement du Territoire. 4 Robert Jaulin: La paix blanche (Ed. du Seuil). 5 “Conoscere est dominari”. 6 90 % di donne nell’assistenza. 7 Quella dei marginali dei grandi agglomerati americani studiati da Oscar Lewis ne La Vida (Gallimard). .
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