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NUDITA'
RICERCHE


La decorazione del nudo:
note sociologiche su piercing e tattoo
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di Eleonora de Conciliis




Il corpo umano, se colto improvvisamente nella sua nudità, derubato della sua capacità di esibizione, non è affatto bello. Anche quando si tratta di un corpo giovane, proporzionato ed esile oppure muscoloso, vi sono sempre, al di qua della sua ‘esposizione’ (pittorica nel passato, oggi mediatica), posture nascoste che lo rendono laido e sgradevole, difetti che lo sottraggono al canone – peraltro immaginario – della perfezione. Se non è investito da un desiderio sessuale o travestito da uno sguardo esteticamente avvertito, il nudo, in piena luce, è sempre disadorno e sgraziato; sia chi la osserva, sia chi la incarna per l’occhio altrui, sente allora la nudità come qualcosa di incompleto, di povero, di misero – non certo di potente o animalesco. Sarebbe perciò fuorviante, oltre che antropologicamente scorretto, esaltare la nudità more philosophico (farne cioè, con intenti più o meno post-heideggeriani, un’elegante metafora dell’autenticità), o attribuire soltanto al pudore di matrice giudaico-cristiana – cioè ad un tratto socio-comportamentale specifico della nostra civiltà – la tendenza propria dell’uomo a coprirsi; molto più universale appare il bisogno di decorare il proprio corpo nella sua interezza o in alcune sue parti, perchè praticamente presso tutte le civiltà primitive questo viene ornato, dipinto, modificato e arricchito prim’ancora di essere percepito come ‘nudo’ o come ‘proprio’, ovvero come la forma esteriore, empirica, di una presunta anima individuale. Quanto al coprirsi, si tratta di un’abitudine sviluppata solo da gruppi umani divenuti stanziali e solo a certe latitudini.

Ma, se è vero che la nudità in sè non è bella, è anche vero che, quanto più è (totalmente o parzialmente) esibita, tanto più viene ‘trattata’ per diventarlo, viene cioè culturalizzata, piuttosto che rimossa o velata: la nudità opaca, la carne, è solo il punto di partenza, la tela bianca, il pretesto per l’abbellimento di parti del corpo visibili e invisibili.

Due direttrici di senso si nascondono dietro la tendenza a decorare il corpo nudo, cioè a potenziare, manipolandola culturalmente, la sua nudità. Al di qua del soggetto, i popoli senza scrittura e senza storia (quindi, in un certo senso, senza interiorità) disegnano sulle loro membra l’appartenenza delle medesime a divinità totemiche, a spiriti animali (spesso oggetto di caccia), o ad elementi della natura; d’altra parte, il semplice gesto di indossare degli orecchini da parte di una donna indica, al di qua del desiderio di seduzione, la necessità di ornare la nudità del proprio viso: anche e soprattutto ciò che non viene coperto dagli abiti, ciò che resta nudo, dev’essere abbellito, truccato, e con ciò differenziato, marcato, inserito in un codice di senso (sia esso personale, o meglio personalizzante, oppure collettivo). In sostanza, il corpo ‘comunica’ solo se la sua nudità viene arricchita, trasformata, vivificata da un linguaggio. Ma, mentre il corpo nudo può apparire agli occidentali al di qua o al di sotto della soggettivazione, nella misura in cui abolisce la differenza singolare (ed è per tale motivo che essi possono desiderare e godere di questa abolizione dell’individuazione solo nell’esperienza pornografica dell’osceno, e non in quella falsamente democratica del contatto animale), il corpo del primitivo, che in quanto tale non entra nel processo di soggettivazione come separazione dal clan, non è mai, fin dalla nascita, lasciato senza segni: una nudità senza ornamenti impedirebbe, appunto, di leggervi l’appartenenza al gruppo e il rango raggiunto al suo interno. In entrambi i casi, il corpo completamente nudo sembra insopportabile, impossibile da lasciar essere come tale, così come agli uomini è impossibile guardare a lungo un cadavere. Si potrebbe persino sostenere che il nudo assoluto, senza ornamenti, va rimosso perchè cadaverico: i gioielli delle mummie egizie testimoniano di una tenace volontà di combattere la morte combattendo la sua spoglia nudità. Perchè, proprio come la morte, in sè la nudità non significa nulla, ma anzi cancella ogni significato.

Al contrario, la nudità significa immediatamente e potentemente la vita e riafferma la differenza quando viene esperita come dolore e/o piacere: al di qua del buon senso (o della pruderie borghese), il corpo nudo è attraversato dall’individuazione quando si guarda patire (o godere), quando diventa superficie di prova e di sfida, ovvero quando la manipolazione decorativa che lo inserisce in un codice ne potenzia, oltre alla bellezza, anche la percezione.

La filosofia occidentale non ha fatto che esorcizzare quest’esperienza radicalmente estetica (non estetizzante) del nudo associata al dolore e al piacere. In particolare, quando viene chiamata a parlare del dolore, la filosofia assume spesso un tono tragico, talvolta oracolare, ma non s’inoltra che di rado nella dimensione corporea, nella materialità della sofferenza: occupandosi prevalentemente del suo significato esistenziale e/o morale, della sua psichicità, essa è ben lungi dal mostrare interesse per il dolore fisico in quanto tale. Ed è ancor meno interessata alle esperienze in cui il dolore fisico (che pure, è chiaro, non è mai solo fisico) s’incrocia con la manipolazione della nudità e con la percezione della bellezza. L’imbarazzo del pensiero di fronte a certi fenomeni di costume, infine, fa sì che chi voglia riflettere seriamente sulle due principali pratiche di decorazione del nudo – piercing e tatuaggio – trovi in libreria, oltre a preziosi manuali pratici2, soltanto tre tipi di pubblicazioni. Le prime, di carattere per così dire moral-pedagogico, presentano il fenomeno come sintomo di un disagio adolescenziale, di cui solo la psicologia saprebbe trovare le cause remote, ed a cui solo la psicoterapia può rispondere con un efficace counseling familiare3; le seconde, più che sentenziare sulla necessità di una ‘guarigione’ dalla ‘moda’ del piercing e del tatuaggio, s’interrogano sull’intenzione comunicativa che i ragazzi di sedici anni attribuiscono a tale pratica: dà loro la parola affinchè possano illuminare gli sprovveduti adulti sul significato profondo che si cela dietro l’esperienza di questo particolare tipo di dolore fisico4; soltanto gli studi condotti a cavallo tra sociologia ed estetica5 sembrano accorgersi del fatto che il fenomeno non è patologico e non riguarda solo gli adolescenti, e che oggi esistono almeno tre generazioni di portatori di piercing e tattoo: i quarantenni ex-punk che erano giovani negli anni ’70 e ‘80, i trentenni ex-grunge che erano adolescenti tra gli ‘80 e i ‘90, ed i teen agers o ventenni del 2000, spesso frettolosamente etichettati come no global6. Oggi anche questa classificazione è saltata: tutti i ragazzi si fanno tatuare o desiderano farlo, e il piercing è diventato un fenomeno estetico di massa. Va inoltre osservato che alla fine degli anni ’60, prima che queste pratiche decorative si diffondessero in Occidente, la nudità in quanto tale veniva esibita dal movimento hippy, nato sulla West Coast statunitense, come segno di protesta pacifista e di ricongiunzione con la natura, e che già negli anni ‘20 e ‘30, nell’Europa centro-settentrionale di cultura protestante non attraversata dalla controriforma (dalla Germania ai paesi scandinavi), il nudismo era (ed è) praticato come una innocente, de-sessualizzata forma di naturismo.

È chiaro che, con le metamorfosi attraversate dalla contestazione a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, qualcosa muta nella percezione del corpo nudo, in particolare di quello giovane; si potrebbe dire che con il tramonto del Sessantotto il mondo giovanile inizia ad articolare una nuova politica della nudità, che appare meno rivoluzionaria e più complessa – di certo più dolorosa – rispetto a quella praticata durante gli anni caldi del naturismo hippy e del movimento studentesco. In una prospettiva sociologica, i ragazzi che oggi si fanno dipingere o forare il corpo, insieme a quelli che imparano a farlo (e vendono con profitto questa loro abilità), non sono semplicemente il prodotto di una sub-cultura; non sono neppure vittime di una violenta regressione psichica, di un tribalismo di ritorno che ne cancellerebbe la soggettività. Sono piuttosto individui che attraverso la decorazione cercano di esibire una differenza. Dal punto di vista storico-politico, invece, è stata la rabbia nichilistica della fine degli anni ’70 (che coincisero con l’inizio del cosiddetto ‘riflusso’) a determinare la diffusione del piercing e del tatuaggio in Occidente: mentre il movimento gay della costa occidentale degli Stati Uniti lanciava la pratica del cutting (scarnificazione), nasceva in Inghilterra, con la musica dei Clash, dei Ramones e dei Sex Pistols, il movimento punk7, che, col suo disprezzo per le regole, tendeva ad esibire la volgarità del nudo come odio di classe, e finì per cavalcare la protesta contro il governo conservatore di Margaret Thatcher. I punk inglesi, presto imitati dai tedeschi (si pensi alle metamorfosi della cantante Nina Hagen), non si tingevano soltanto i capelli di viola o di verde, ma si foravano il corpo con degli spilloni; è anche per questo che il piercing deve all’inglese la sua denominazione ufficiale, come già il tatuaggio. Il verbo to tattoo, di origine polinesiana, vuol dire disegnare, marcare con segni: è un verbo onomatopeico che allude al rumore prodotto dai chiodetti di legno appuntiti che entrano sotto la pelle, mentre taigei è il nome della pianta polinesiana dalla cui radice veniva estratto l’inchiostro di cui questi strumenti erano imbevuti8. Quanto al significato del termine piercing, il verbo inglese to pierce vuol dire forare, bucare, trafiggere, infilzare, straziare (anche in senso emotivo), lacerare (detto di un suono), e (usato intransitivamente) penetrare, addentrarsi.


Il piercing, come pratica decorativa di penetrazione del nudo, ha origini remote. Non lo praticavano solo i Maori ed i fachiri indiani osservati dagli inglesi, ma anche i Maya, gli Aztechi e gli Egizi. Conosciuta da quasi tutti i popoli a organizzazione tribale, la tecnica di forare il corpo in determinate parti per modificarne l’aspetto in modo permanente (e spesso irreversibile) è legata ad una concezione magica del corpo e più in generale della natura, in cui la paura e l’attrazione verso il dolore hanno un significato rituale e non vengono affatto dominate razionalmente. In Africa, nel Borneo o in Amazzonia, gli uomini hanno sempre sottoposto e sottopongono ancora le loro membra a trattamenti dolorosissimi (oltre al piercing e al tatuaggio, si pensi ad esempio all’espansione o alla perforazione del labbro inferiore), nei quali vedono tre tipi di significato, tra di loro intimamente connessi.

In primo luogo, la sofferenza fa parte del processo di identificazione dell’individuo perché produce in un colpo solo identità e differenza; se sopportare il dolore senza lamentarsi è segno di forza, il piercing, come il tatuaggio o la circoncisione, fa parte dei riti di appartenenza alla tribù, superando i quali si dimostra di essere diventati adulti o guerrieri, di avere coraggio: l’oggetto inserito nel corpo risponde contemporaneamente sia al bisogno di identificarsi col gruppo, perché lo si esibisce come segno ben visibile di riconoscimento, sia a quello di distinguersi dagli altri, quando lo si mostra come un segno particolare, in eccesso rispetto a quelli comuni, che perciò denota il proprio rango all’interno del gruppo.

In secondo luogo, l’oggetto introdotto nella carne è un ornamento che l’uomo conferisce al corpo, in quanto questo non viene considerato come una proprietà personale, privata, ma come un dono degli dèi che va arricchito con orecchini, piume, ossa o conchiglie (e su cui si possono tatuare immagini “belle”, in grado di tenere lontani gli spiriti maligni persino dopo la morte); presso alcuni popoli primitivi, l’introduzione di oggetti nel corpo tende anche ad accentuare la somiglianza dell’uomo con il dio o l’animale totemico.

In terzo luogo, la sensibilità delle parti del corpo che vengono forate (tradizionalmente ci si limitava ai capezzoli, alla lingua, all’ombelico e agli organi genitali) viene enormemente potenziata, e di conseguenza ciò accresce il piacere sessuale. Vi è un legame inscindibile fra esibizione del corpo, dolore fisico e godimento erotico, legame che potremmo caratterizzare con il concetto più generale di estetica del dolore. Tutte le tecniche primitive per forare le membra o decorare la pelle comportano un dolore acutissimo, tipico dei riti di iniziazione (si pensi alla danza del sole presso gli indiani Sioux del Nordamerica, durante la quale il giovane veniva letteralmente appeso ai lembi della sua carne); a questo dolore segue sempre, grazie alla scarica di adrenalina che l’organismo produce per concentrazione e per paura (e talvolta grazie alle droghe che vengono somministrate all’iniziando), un lasso di tempo, che può durare ore o un giorno intero, durante il quale si è intensamente eccitati e si percepisce con una sensibilità eccezionale la parte del corpo traforata o tatuata. Questa sensibilità diminuisce ma non sparisce col passare dei giorni: insieme all’ornamento visibile, rimane come segno dell’esperienza fatta, che ha modificato sia l’immagine di sé che la capacità percettiva. Ogni volta che l’ornamento viene esibito (con una funzione sociale ben precisa), o che con esso, nel caso del piercing, si potenzia l’eccitazione sessuale con l’aiuto del partner, si ha perciò un effetto estetico che è anche erotico: stimolando la parte si prova dolore e piacere allo stesso tempo, e con un’intensità maggiore rispetto a quella concessa dalla carne intatta. La nudità viene bucata e personalizzata dalla decorazione; il nudo diventa bello perchè identifica e fa godere.


È, allora, sulla scorta di tali riflessioni che dobbiamo nuovamente chiederci perché il piercing e il tatuaggio siano stati reinterpretati dalla cultura occidentale solo a partire dalla fine del secondo millennio, per così dire nel passaggio dal moderno al postmoderno. Perché queste pratiche, abbandonati i libri di antropologia e le foreste pluviali, sono approdate nelle nostre metropoli proprio alla fine degli anni ’70?

La tecnica del tatuaggio, introdotta per la prima volta in Europa nel quindicesimo secolo ma subito confinata sulle navi e nelle galere, vi è stata praticata per secoli in modo più o meno clandestino; dal canto suo, migrando dai lobi delle orecchie dei gentiluomini secenteschi, il piercing venne sperimentato nell’Inghilterra del Settecento per poi trasferirsi nei sotterranei dell’età vittoriana (tanto che il principe Alberto, marito della regina Vittoria, si sarebbe fatto inserire un anello nel glande). Rimasti come degli animali in letargo ai margini dell’Occidente, solo da poco più di vent’anni il piercing e il tatuaggio hanno conosciuto un successo macroscopico, e non solo nei Paesi nordeuropei.9

Chiunque può oggi recarsi in un centro specializzato, in una qualunque città europea, per farsi tatuare qualunque cosa (parole, simboli tribali, immagini semplici o complesse, colorate ed estese), oppure per farsi applicare un cerchio di metallo in una zona a scelta. Si può anche scegliere un surface, ovvero un piercing sotto pelle in zone non tradizionali come le sopracciglia, il mento, o la parte anteriore dell’ascella: in linea di principio lo si può fare ovunque (anche se vi sono particolari zone a rischio di rigetto: collo, polsi, fronte), e il costo varia a seconda della parte del corpo prescelta. L’operatore di solito ha un piercing o un tatuaggio da qualche parte, spesso ne ha molti; fa stendere il cliente su di un lettino e lo invita a rilassarsi, perché l’intervento si effettua di norma senz’alcun tipo di anestesia (è per questo che, sia per il piercing che soprattutto per il tatuaggio esteso, più doloroso perchè più lungo da realizzare, vengono consigliate speciali tecniche di respirazione, simili a quelle insegnate alle partorienti). Se si tratta di realizzare un piercing, dopo l’introduzione, nella parte disinfettata, di un ago simile a quello usato per le fleboclisi, lascia passare l’orecchino, lo chiude con una piccola cerniera tondeggiante, e asciuga qualche goccia di sangue, che non sempre fuoriesce. La cicatrizzazione è ottenuta con l’applicazione periodica di acqua e sale o di vaselina; in caso di piercing al capezzolo, alla lingua o agli organi genitali vengono utilizzate creme al cortisone. Negli ultimi due casi non si possono rispettivamente inghiottire cibi caldi e solidi o avere rapporti sessuali per un certo periodo dopo l’intervento.

Quali sono le motivazioni di coloro che affrontano simili torture? Spesso la decisione è presa coscientemente: non può essere catalogata come un’effimera moda adolescenziale o un elementare istinto imitativo, anche se probabilmente agiscono in essa delle forti motivazioni inconsce, non tanto dissimili da quelle esistenti presso i primitivi; inoltre, non si tratta di un fenomeno limitato a gruppi di emarginati, dal momento che coinvolge ormai tutti gli strati sociali, senza svolgere una funzione discriminante in seno al mondo giovanile: la sua diffusione trasversale, interclassista, non può più essere paragonata a quella delle droghe leggere, del reggae e del rap negli anni ’70 e ‘80, oppure, per rimanere all’oggi, dell’ecstasy e della musica techno. Siamo ormai oltre l’identificazione socio-culturale specifica. Certo, chi ha deciso di farsi fare un piercing o un tatuaggio permanente in seguito ad una lunga riflessione o avendo maturato una profonda convinzione, racconta talvolta di essere rimasto affascinato dal ruolo che queste pratiche rivestono nelle culture arcaiche; ma, più semplicemente, avrebbe deciso di fare un’esperienza che lo renda diverso dalle persone “normali”, un’esperienza eccezionale attraverso cui dimostrare a se stessi forza di sopportazione del dolore e amore per il rischio, per l’ignoto. Il risultato di questa esperienza, la modificazione della nudità esposta o sessualmente significativa (ad es. i genitali), cioè l’orecchino e l’aumento di sensibilità che ne deriva, costituiscono ciò di cui andar fieri dal punto di vista estetico/erotico: il piercing e il tatuaggio rendono le persone più seducenti, le distinguono dalle altre, spesso già a prima vista, le designano come portatrici di un’esperienza che non tutti sono in grado di affrontare, le inseriscono in un gruppo che si distacca dalla comune concezione del corpo. Ma soprattutto, nel caso del piercing, hanno donato loro un mezzo per godere di più: la scoperta di un piercing in parti nascoste del corpo del partner, o l’esibizione di esso sul proprio, diventa una carta da giocare nella seduzione e nel sesso, qualcosa che può amplificare l’eros proprio perchè ne manipola (letteralmente) la nudità. L’eccitamento che segue al dolore della lacerazione è quindi sia frutto dell’orgoglio per aver superato la “prova”, sia presentimento intenso delle nuove possibilità di felicità che il piercing e il tatuaggio dischiudono: se la bellezza – sosteneva Pascal – è una promessa di felicità, il dolore, oltre a render bello ed a cambiare radicalmente l’individuo, può essere una promessa di piacere.

Se così stanno le cose, col piercing – concepito, insieme al tatuaggio e più in generale alla body art, come esperienza profondamente relazionale, estetica della fisicità e della nudità – stanno cadendo almeno tre categorie “forti” della cultura occidentale in relazione al modo di concepire il corpo, che si conferma, ancora una volta, come il protagonista assoluto dei comportamenti sociali10:

1) il corpo non è più un’unità chiusa, compatta e intoccabile (statuaria o velata)11, ma non è neppure una proprietà del soggetto superiore, un oggetto passivo che la mente può attivamente dominare; e, proprio perché non è una macchina inerte (la cartesiana res extensa), viene sottoposto, come suggeriscono i molteplici significati del verbo to pierce, a perforazioni, lacerazioni e penetrazioni simboliche che, invece di minacciarne la vita, finiscono coll’esaltarla: chi si fa praticare un piercing o un tatuaggio, non solo si fa “bucare” e “disegnare” la pelle, ma sente in modo più vivo le parti del corpo che l’ago ha attraversato o decorato, e percepisce più intensamente il contatto, anche solo visivo, col corpo altrui; spesso ripete il piercing e il tatuaggio su un’altra parte del corpo per riprovare quest’emozione straordinaria: per sprofondare, seppure per brevi istanti, in un’altra esperienza del nudo;

2) se la medicina moderna ha sviluppato strategie grandiose contro il dolore fisico, queste vengono puntualmente negate da ogni individuo che si fa praticare un piercing o un tatuaggio: benchè (o forse proprio perché) completamente medicalizzato durante i secoli della modernità, dopo essere stato reso oggetto del sapere-potere, del discorso, dello sguardo medico che ne ha ulteriormente imbruttito la nudità12, il corpo forato dal piercing o decorato dal tatuaggio non è più gravato dal nesso (indicato da Bichat) morte tissulare > malattia, non è più ciò che dev’essere a tutti i costi preservato dal dolore, ma anzi, è il teatro di una sfida al dolore che in Occidente non trovava adepti da molto tempo: qualcosa di simile è rintracciabile solo nella mistica medievale – per la quale il dolore era una vera e propria esperienza della trascendenza, un farsi attraversare dall’Altro divino; oppure nella cultura orientale – per la quale (si pensi alla tortura) non solo la crudeltà è una raffinatezza13, ma il dolore fisico può portare all’estasi (si pensi all’India dei fachiri);

3) infine, il corpo non viene più considerato “bello”, se non quando è dotato di ornamenti sia interni che esterni; il corpo nudo, in altre parole, dev’essere completato con l’orecchino (o con il tatuaggio), e così modificato, il che vuol dire che non vi è alcuna bellezza naturale, in sé, del corpo, ma che essa è frutto dell’artificio, o meglio dell’arte con cui l’uomo lo adorna: non vi è bellezza semplice, naturalmente perfetta, su cui non possa intervenire la tecnica del dolore. In un certo senso, oggi si oscilla tra una residua concezione “greca”, atletica del corpo armonico e perfetto (alimentata dal culto-mercato del fitness), ed un’idea barocca di bellezza come deformazione grottesca, sovraccarico, scrittura cifrata o riproduzione dell’arcaico – o meglio: le due concezioni tendono a intrecciarsi, a sovrapporsi; col risultato che il corpo cyborg, incarnato da modelle e atleti, è perfetto perchè al di là del nudo e della carne ‘molle’, ma rende possibile la versione hi-tech del dolore: il piercing all’ombelico di Naomi Campbell, già qualche anno fa, annunciava una sorta di complicazione plastica, postmoderna del concetto classico, ‘naturale’, di bellezza.

Ma c’è di più. L’equivalenza tra bellezza e artificio ha subito, nel corso del Novecento, un’intensificazione che è stata anche un’emancipazione: basti pensare alla diffusione di massa del maquillage femminile, che ha annullato la differenza borghese tra prostituta (l’unica a truccarsi nel XIX secolo) e “donna per bene”; o al fenomeno del travestitismo, il cui trionfo mediatico (si pensi al Gay Pride) ha coinciso con la possibilità di cambiare artificialmente il genere sessuale; il piercing e il tatuaggio rendono forse questa equivalenza ancora più radicale portandola, per così dire, alle sue estreme conseguenze. L’individuo è mosso dal desiderio di diventare più bello, agli occhi propri e a quelli degli altri, mediante forme che la esaltano, oppure oggetti inseriti nella carne: essi diventano parte del sé, e la trasformazione del corpo equivale ad una trasformazione della propria immagine psichica. Si tratta di un concetto non contrario o distante, ma complementare a quello della chirurgia estetica, che ha il compito di ricucire, tirare, perfezionare, armonizzare il corpo: cosa sono le protesi al silicone se non dei piercing interni? E le deformazioni artificiali (asportazioni, riduzioni, ecc.) non assomigliano alla scarnificazione (cutting) praticata dai masochisti?

La mescolanza inestricabile, spesso ludica di dolore e piacere connessa al piercing e al tauaggio (o al lifting), mette in imbarazzo ogni concezione della sessualità che tenti di classificare oppure bandire la perversione, e con ciò di ‘intenerire’ la nudità: la bellezza coincide con l’eccezionalità aggressiva dello stato in cui viene a trovarsi chi si sottopone al gioco della metamorfosi, che è anche un “intervento” sul nudo. Le ragazzine con la lingua bucata fanno pendant con le cinquantenni dalle labbra scoppiate: entrambe rispondono ad un processo di trasformazione del gusto, che può portarle sino alla scelta di martirizzare il corpo a scopi erotico-estetici. In altri termini, proprio perché sedotte dal gioco del dolore esse sono esposte al rischio di ri-assoggettare il corpo alla tirannide della mente. Se la bellezza è artificio, è metamorfosi, può anche diventare delirio di controllo della trasformazione di sé (ad esempio attraverso la dieta): possibilità di deificarsi attraverso il corpo, che nella sua profonda ambiguità contiene una nudità orrenda, rovescio della bellezza e del godimento.14

La sofferenza fisica scelta per motivi estetici genera dunque fenomeni di confine, fenomeni borderline che non solo fanno saltare il (già precario) limite tra normale e patologico, ma fanno segno verso una sempre più forte ibridazione dell’Occidente con culture una volta considerate inferiori: sul campo di battaglia del corpo, essi creano un campo di indistinguibilità tra arcaico e postmoderno. Ed è in questo campo che vanno collocati il piercing e il tatuaggio.


Qualche osservazione conclusiva. Il piercing e il tatuaggio, si è detto, esplodono col punk. Dal punto di vista sociologico, il punk, come il Settantasette in Italia, rappresenta una specie di seconda fase (oscura) del Sessantotto: una fase in cui, pur vivendo ormai come irreversibile l’allentamento dei modelli borghesi di integrazione sociale, comincia a venir meno la carica progettuale, ‘eroica’, della contestazione. L’effetto lungo del Sessantotto sposta infatti quest’ultima dalla collettività all’individuo: la ripiega, per così dire, sulla corporeità. Poiché non si riesce a cambiare la società, si tende a cambiare selvaggiamente, a manipolare senza tregua il proprio corpo – espropriandolo allo stesso modo in cui durante il Sessantotto si espropriavano le ricchezze private. Il piercing e il tatuaggio non sono riemersi per caso dall’oblio dell’arcaico, costringendoci a mettere in discussione i nostri abituali canoni di giudizio in relazione alla fisicità, le nostre categorie ideali di perfezione, di controllo e di dominio, i nostri codici rigidi di comportamento e di rimozione del dolore. A partire dalla fine degli anni ‘70, il dolore viene reintegrato e padroneggiato in modo diverso, rispetto a quello che ha caratterizzato la società occidentale nei due decenni precedenti, quando il boom economico doveva esorcizzare con l’abbondanza e il benessere le sofferenze della guerra e la terribile normalità della morte. Il modello, ora, non è più quello moderno della produzione-accrescimento razionale del sé e della collettività, ma quello postmoderno della deformazione-intensificazione dell’esperienza, con tutti i rischi che questo comporta per il soggetto.

Il piercing, in particolare, è un ‘buco’ in grado di ridisegnare e abbattere i confini individuali a livello percettivo, estetico ed erotico. Attraverso il piercing la persona si denuda: lasciandosi manipolare, si ri-vela finalmente per ciò che è, per-sonam, maschera bucata (dall’ago) attraverso cui passa il suono. L’io individuale – di cui il corpo è espressione immediata, viva, e non semplice suddito – lungi dall’essere qualcosa di unitario ed uguale per tutti (una forma trascendentale, avrebbe detto Kant), si presenta così come un campo energetico aperto al gioco seduttivo e alla metamorfosi, un campo nel quale “circolano” (penetrano) e si incrociano forze diverse. Esiste insomma – ha scritto Jean Baudrillard – “una regola di metamorfosi […] Esiste una circolazione simbolica delle cose, all’interno della quale nessuna ha individualità separata, dove tutte agiscono in una sorta di complicità universale di forme inseparabili. Ciò vale anche per il corpo, che non possiede più la condizione di essere ‘individuale’ [legata alle nozioni di possesso e di dominio] perché è divenuto una sorta di sostanza sacrificale che non si oppone ad alcun’altra sostanza, come può essere l’anima o ad un’altra che abbia comunque valore spirituale. In queste culture [primitive, ma anche postmoderne] nelle quali il corpo viene messo continuamente in gioco attraverso il rituale [...], la questione non è quella della sua santità, della sua sopravvivenza e della sua integrità […]: è una sostanza che può muoversi verso altre forme, animali, vegetali, minerali”.15

In altri termini, il postmoderno, arcaizzando il corpo nudo, lo sacralizza, lo riveste, ma assolutamente non in senso cattolico: tende a produrne una visione primitiva, rituale appunto, cioè sacrificale e metamorfica, che rende sempre più inservibile quella ‘individualistica’, soggettiva, cartesiana, del corpo come oggetto di dominio, ma anche quella cristiana della santità-peccaminosità della carne16: stiamo attraversando la metamorfosi estetica della forma-soggetto, la sua contaminazione con ciò che Baudrillard chiamava la “circolazione simbolica delle cose”. Secondo il sociologo francese, questo fenomeno sarebbe forse l’unico in grado di opporsi alla cancellazione della realtà operata dal “Virtuale”, ovvero al riassorbimento dell’esperienza umana (non solo, dunque, di quella della nudità) nella “Realtà Integrale” costituitasi negli ultimi anni grazie all’intelligenza artificiale, ad internet, ed a quello che definirei ‘effetto Matrix’17. Credo, tuttavia, che questa sorta di arcaismo del postmoderno si rifletta in modo straordinariamente fecondo, ma per ciò stesso ambiguo e non risolutivo, bensì per certi versi regressivo, proprio sull’esperienza del dolore.Da un lato il dolore fisico, in quanto ‘scelto’ e sopportato nella sfera estetico-erotica, non separa (più) i corpi, non li chiude gli uni agli altri18, com’è accaduto nel moderno, ma li individualizza e li unisce allo stesso tempo, cioè li fa entrare in un gioco, in uno scambio simbolico-comunicativo. Già nella Fenomenologia della percezione (1945), Merleau-Ponty sottolineava la complementarietà tra corpo proprio e corpo altrui: la propriocezione, che individua il vivente, è nondimeno un’esperienza di totale, indifesa apertura al mondo e all’alterità. Tanto indifesa da fare segno, oltre che verso il contatto erotico, verso l’asoggettamento sadico del corpo ridotto a cadavere.

D’altra parte il dolore fisico, come corporeità, dunque come nudità, non è virtualizzabile, quindi può resistere alla de-realizzazione operata dalla cibernetica e dall’intelligenza artificiale, in quanto evento singolarizzante che ‘sfida’ la manipolazione digitale del mondo19; ma può anche soccombervi, nel senso che il virtuale può a sua volta de-realizzare la sofferenza, compresa quella del piercing e del tatuaggio, facendone una specie di spettacolo osceno: trasformando la fiera esibizione del corpo lacerato e/o tatuato in una vera e propria pornografia del dolore, il virtuale ci farebbe paradossalmente (fatalmente, nel linguaggio di Baudrillard) ritornare a ciò da cui siamo partiti, alla irredimibile miseria del nudo.

In altri termini, proprio perché produce un effetto-isolamento, il dolore fisico è sempre accompagnato dall’esperienza dell’alterità: per sopportarlo, per sfuggire alla sua paralizzante assurdità, da sempre l’uomo gli cerca un senso, e lo domanda ad altri. Questo paradosso si ripresenta, rischiosamente, nella sfera della biopolitica foucaultiana come gestione della ‘nuda vita’, della sua miserabile, e non solo estetica esposizione alla sofferenza: vi è un labile confine tra il significato del dolore scelto, segno di libertà, e quello del dolore subìto, che comporta la perdita di autonomia individuale, dunque la reificazione del nudo. Se ad esempio, come suggeriva Baudrillard, il senso della sofferenza consiste nel considerare il proprio corpo una “sostanza sacrificale”, il dolore fisico, inevitabilmente, inferiorizza questa sostanza: diventa un’offerta ad un essere superiore (reale o virtuale, poco importa) che ha il potere di mettere alla prova l’individuo e la sua povera nudità. Dove si trova, allora, il discrimine tra autonoma esperienza della sofferenza biologica (o del godimento sessuale), e manipolazione culturale, storica, politica: in una parola, pastorale della carne?20 ...nel caso del piercing e del tatuaggio, dove finisce la sfida a se stessi, la padronanza di sè, e dove inizia la moda o il condizionamento sociale?

Rimanendo nell’indecibilità antinomica di questo interrogativo, l’Occidente, giunto ormai al di là del corpo-proprio del soggetto moderno, dissemina corpi dis-umani, decorandoli li de-nuda, e così facendo li de-soggettiva: quanto più la sofferenza, de-privatizzandosi, si esibisce e si estetizza ludicamente in nuove forme, tanto più il corpo si mineralizza, lo si fa diventare pianta o animale21. Questa metamorfosi costringe la nostra cultura a ripensare il nesso tra dolore fisico e trascendenza: da un lato, l’individuo appare sempre più ossessivamente alla ricerca di una sfera metafisica in cui collocare il senso del proprio soffrire – simile, in ciò, ad una pedina costantemente rivolta verso una mano superiore in grado di afferrare e così trasfigurare la ‘nudità’ della sua sofferenza; d’altra parte, egli si trova per la prima volta solo, in un mondo da lui stesso sdivinizzato, nel quale può finalmente giocare col proprio dolore e guardare a viso aperto la sofferenza come un assaggio di morte. Ma chi osserva (attraverso lo schermo) i volti scomposti e davvero nudi di chi soffre, non vi scorge alcun segno di trasfigurazione, e neppure di autenticità; così il dolore (dell’ago) produce un piccolo buco nero: sorta di microscopico nihil negativum, che resiste ad ogni sforzo di comprensione.

Note con rimando automatico al testo

1 Questo saggio sviluppa, con alcune sostanziali modifiche e integrazioni, il testo di una relazione tenuta il 24 marzo 2006 nella sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici per il convegno su L’esperienza del dolore nella storia del pensiero, svoltosi nell’ambito della seconda edizione de L’arte della felicità. Incontri e conversazioni, Napoli, 23-26 marzo 2006.

2 Cfr. A. Steele-Pennyman, Piercing e tattoo, TEA 1996.

3 Cfr. M. Zattoni Gillini, A. Zattoni, Il piercing nell’anima. Capire il dolore nascosto dell’adolescente, Ancora 2005.

4 Cfr. G. Pietropolli Charmet, A. Mazzacan, Piercing e tatuaggio. Manipolazioni del corpo in adolescenza, Franco Angeli 2000.

5 Cfr. R. Camphausen, La tribù del tatuaggio. Piercing, tatuaggi e altri riti di decorazione del corpo, Lyra 2006.

6 Gli stessi che, per intenderci, durante il G8 di Genova del 2001 furono portati nella caserma Bolzaneto, dove ad alcuni di loro i piercing vennero letteralmente strappati dalla carne.

7 Si noti che punk in inglese vuol dire ‘teppista’, e che il carattere dispregiativo del termine proviene dall’omofonia con junk, ‘spazzatura’.

8 Oggi i chiodetti di legno sono stati sostituiti dagli aghi, e la sorta di martelletto che li percuoteva da una sofisticata macchina elettrica.

9 Sembra probabile che l’abitudine alla nudità in chiave naturista, tipica dei paesi nordici, abbia favorito in queste regioni una precoce diffusione del piercing e del tattoo.

10 Attraverso il modo di usare il corpo in società (ad esempio attraverso l’uso pelle posate a tavola), la sociologia storico-processuale legge i mutamenti epocali del comportamento dell’uomo occidentale: cfr. sprt. il passaggio dalla rozzezza medievale alla moderna “civiltà delle buone maniere” descritto da N. Elias ne Il processo di civilizzazione, Il Mulino 1988.

11 Mi riferisco alle due principali “invenzioni del nudo” nella cultura occidentale: quello ideale, greco, e quello morale, giudaico-cristiano; su ciò rimando a T. Ariemma, Il senso del nudo, Mimesis 2008.

12 Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica. Il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, Einaudi 1992.

13 Un bell’esempio di approccio cinematografico al tema orientale della scrittura sul corpo, con la sua ambigua carica di erotismo, è costituito dal film I racconti del cuscino di Peter Greenaway (v.o. The Pillow Book, 1995).

14 Una donna può voler essere padrona del suo corpo fino a negarlo, fino a non sentire più il dolore della fame: chiusa nella sua carne come in una tomba, non si aprirà, non si lascerà bucare – non vi sarà più per lei alcuna possibilità di farsi attraversare dall’altro. La derealizzazione e la diserotizzazione dell’esperienza della propria nudità, la rimozione del dolore, con il loro correlato di bruttezza (si pensi ai volti scavati delle anoressiche), costituiscono dunque il negativo del carattere artificiale, storico, culturale della bellezza.

15 J. Baudrillard, Parole chiave, Armando 2000, pp.23-24.

16 Da questo punto di vista, sarebbe interessante analizzare i sensi nascosti di quella che, con Foucault, potremmo chiamare biopolitica vaticana: l’ossessiva difesa della ‘nuda vita’ proposta negli ultimi anni dalla chiesa cattolica.

17 Cfr. J. Baudrillard, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina 1996; Id., Violenza del virtuale e realtà integrale, Le Monnier 2005.

18 Sul dolore fisico come esperienza incomunicabile ed incomunicativa per essenza (= paticità del dolore), cfr. la posizione fenomenologica di A. Masullo, Filosofie del soggetto e diritto del senso, Marietti 1990; Id., Il tempo e la grazia, Donzelli 1995; Id., Paticità e indifferenza, il Melangolo 2003.

19 La resistenza al virtuale da parte della fisicità del singolo potrebbe essere definita, ironicamente, ‘teoria del pizzicotto’: in una vischiosa indistinguibilità tra realtà e finzione, solo il dolore allontana il dubbio relativo alla veracità della mia esperienza.

20 Lo stesso si può dire del corpo femminile: dove finisce, ad esempio nell’esperienza del parto, la scelta matura e consapevole di sopportare il dolore, e dove comincia il condizionamento millenario che rende la donna un essere inferiore destinato alla sofferenza della lacerazione?

21 Cfr. ad es. il romanzo della giovanissima giapponese K. Hitomi, Serpenti e piercing, Fazi 2005: una ragazza si trasforma in rettile inserendosi un piercing nella lingua e sostituendolo di volta in volta con uno di dimensioni sempre maggiori, fino a quando il filo di carne rimasto sulla punta dell’organo viene tagliato, e resta una lingua biforcuta con due estremità mobili e indipendenti.


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