Nascondere il corpo
di Lisa De Luigi Nel pensiero di Hegel trova posto un avvenimento del tutto speciale, che contraddistingue la sua particolare concezione di uno Spirito che è essenzialmente storico, e quindi in movimento. Questo avvenimento è la fine della Storia. Tra le molte interpretazioni e domande che questo avvenimento pone al pensiero c’è una questione particolarmente interessante, destinata a mettere sul tavolo la fondamentale distinzione tra essere umano e animale, tra pensiero/logos e corpo organico. Questa domanda è: quali saranno le caratteristiche del mondo post-storico? Finita l’attività dell’Azione negatrice, che cosa resterà dell’Uomo e dello Spirito? Le espressioni umane come il gioco, l’arte, l’amore continueranno ad esistere o sono legate indissolubilmente al movimento dello Spirito in evoluzione? Anni dopo la morte di Hegel, Bataille e Kojève discuteranno dell’abisso che separa uomini e animali non umani, tentando di scoprire la fine che esso farà dopo il termine della storia. Kojève affronta l’argomento solo in alcune note al suo testo, Introduction à la lecture de Hegel(1) (la raccolta degli appunti delle sue lezioni curata da Queneau), e non vi dedica mai uno scritto autonomo. Queste note sono comunque densissime e ci fanno intravedere una svolta inaspettata dell’uomo hegeliano. Alla fine della Storia, per Kojève, l’uomo propriamente detto deve scomparire, dissolto dalla mancanza dell’azione negatrice. Con l’uomo e l’azione negatrice scompaiono anche l’errore e la contrapposizione tra soggetto e oggetto; scompaiono guerre e rivoluzioni; scompare la filosofia. L’uomo infatti non avrà più bisogno né di domande né di risposte, ma vivrà nella completezza delle sue possibilità (biologiche) e nella totale comprensione della sua esistenza (naturale). Rimane Homo sapiens, l’essere antropoforo, ma senza più il suo contenuto. Verrebbe quasi da dire senza il “sapiens”, parola che indica infatti la volontà, da parte di Linneo, di associare in modo essenziale all’essere umano la caratteristica di conoscere se stesso (“sapiens” sostituisce la primitiva definizione di Homo come l’essere il cui tratto saliente è il classico “Γνῶθι Σεαυτόν”), una caratteristica che per molti pensatori e filosofi, moderni e meno, distingue l’uomo dagli animali non umani. L’uomo post-storico prima si confonde e poi si risolve nell’animale, nella sua sicurezza indivisa del mondo. L’animale antropoforo rimane un vaso vuoto e perfettamente integro, non più definito dalle sue scissioni interne. L’uomo che vive prima della fine della storia, infatti, non è una specie biologicamente definita, né una sostanza data una volta per tutte: è, piuttosto, un campo di tensioni dialettiche sempre già tagliato da cesure che separano in esso ogni volta – almeno virtualmente – l’animalità “antropofora” e l’umanità che in essa s’incarna.(2) Nella post-storia nulla di tutto questo sopravvivrà. Scrive Kojève: La scomparsa dell’Uomo alla fine della storia non è una catastrofe cosmica: il mondo naturale resta ciò che è da tutta l’eternità. Non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale che si trova in accordo con la Natura e con l’Essere dato.(3) E ancora Agamben riflette: Se la storia non era che il paziente lavoro dialettico della negazione e l’uomo il soggetto e, insieme, la posta in gioco in quest’azione negatrice, allora il compimento della storia implicava necessariamente la fine dell’uomo e il volto del saggio che, al limitare del tempo, contempla soddisfatto questa fine sfuma necessariamente, come nella miniatura dell’Ambrosiana [una miniatura raffigurante il banchetto dei giusti nei giorni del Messia. La loro testa viene raffigurata dall’artista con fattezze animali], in un muso animale.(4) Questa, quindi, la fine dell’uomo: una fine che Bataille non vuole assolutamente accettare. Per lui un uomo senza arte non può essere un uomo; che le attività umane, ed in particolare quelle artistiche, possano diventare qualcosa di semplice e naturale, simile all’attività del ragno che tesse la sua tela e all’ape che distilla il miele, è qualcosa di incompatibile con la concezione dell’arte di Bataille. Che fine fanno, infatti, nella piana innocenza dell’animale, l’osceno ed il sublime? Senza di essi l’arte è muta, ridotta a prodotto naturale, a frutto della generazione naturale, come sono quelli degli alberi, e senza ferite. Un’arte inconcepibile per Bataille. Per salvare l’arte, che qui è anche e soprattutto possibilità di ferita, egli deve salvare il momento negativo, la contrapposizione, che però ora si trova in qualche modo orfana del suo correlativo, della sua altra metà. Nasce così un’assurda quanto disperata soluzione, che prende il nome di “negatività senza impiego”; essa continuerebbe ad operare anche nel mondo poststorico. Ma questa soluzione è, appunto, disperata. È il tentativo di mettere un paradosso al fondo di una speranza, un’operazione vaga e composta di una sostanza sfuggente e difficilmente gestibile. Kojève ne troverà una migliore. Nel 1959 Kojève fa un viaggio in Giappone che lo porta a riformulare in termini completamente nuovi il problema dell’esistenza umana nella poststoria. Inizialmente egli aveva creduto di dover prevedere, per l’uomo sopravvissuto alla fine della storia, un’esistenza simile a quella dell’animale e cioè una vita in cui ogni produzione sarebbe stata simile alle produzioni naturali, niente di più e niente di meno: una forma di vita solo positiva e compatta, inesposta alla rottura e al riparo dai rischi della ricerca del senso. In questa vita l’uomo sarebbe stato contento, e mai felice. La raggiunta sintonia con il suo corpo e la scomparsa del conflitto, motore della Storia, renderebbero l’uomo un essere che, essenzialmente, si accontenta della vita, non desidera oltre e non chiede nulla di diverso da ciò che ha. Kojève aveva creduto di riconoscere questa poststoria già in atto nella società americana del consumismo; in questa, infatti, a sopravvivere è un uomo incapace di creare la Storia, intesa appunto come movimento attraverso i momenti della creazione del senso. Questa sua incapacità lo chiude in un eterno presente e questo presente prefigurerebbe il destino prossimo dell’intera umanità. Il mondo poststorico in America è quindi già iniziato; possiamo vedere i suoi frutti ed il nostro destino nell’American Way of Life. Almeno questo pensava Kojève prima di arrivare nell’isola del Sol Levante. Il viaggio in Giappone rimette infatti tutto in questione. In quest’isola, così diversa nella sua essenza dall’Occidente, Kojève individua una terza possibilità per la vita post-storica. Forse l’uomo creatore di storia/senso non è necessariamente condannato a sparire. La possibilità di sopravvivere dell’uomo dopo la fine della storia è tutta compresa nello snobismo; questo è, per Kojève, il tratto caratterizzante la società giapponese. Grazie allo snobismo i giapponesi possono essere abitanti della post-storia e insieme infinitamente lontani dagli animali; ecco la quadratura del cerchio, la grande svolta che permette all’uomo di restare tale anche dopo che la Storia, con l’azione negativa che la produce, si sarà conclusa. Nelle parole di Kojève: La civiltà giapponese «poststorica» si è messa per una strada diametralmente opposta a quella americana. Certo in Giappone non vi sono più Religione, Morale o Politica nel senso «europeo» e «storico» di questi termini. Ma lo Snobismo allo stato puro vi ha prodotto delle discipline negatrici del dato «naturale» o «animale» che hanno superato di gran lunga quelle che nascevano, in Giappone come altrove, dall’Azione «storica», cioè dalle lotte guerriere e rivoluzionarie o dal Lavoro Forzato. (…) Ora, visto che nessun animale può essere snob, ogni epoca poststorica «giapponesizzata» sarà specificamente umana. Non vi sarebbe dunque «annientamento definitivo dell’Uomo propriamente detto» finché vi fossero uomini della specie Homo sapiens in grado di servire da sopporto «naturale» a quel che vi è di umano negli uomini.(5) La società poststorica giapponesizzata riesce quindi a esibire quella misteriosa e incompresa/incomprensibile (prima dell’esperienza giapponese) “negatività senza impiego” che era stata teorizzata da Bataille, nel suo tentativo di confutare il venir meno dell’arte come egli la intendeva (imprescindibilmente legata al momento negativo). La cultura giapponese è quindi riuscita, in regime post-storico, a creare delle discipline (artistiche?) in grado di negare ed annullare il dato naturale, in modo da trasformare di nuovo l’animale homo sapiens in supporto carnale dell’Uomo, a fare del primate che siamo l’animale antropoforo. E in America? Nell’altro colosso della post-storia non esiste nessun accenno ad una negazione dell’animale? Una negazione del suo corpo aperto all’uomo, come fosse un vaso che contiene l’essenza dell’umano senza mai coincidere con essa? Mi chiedo se sia un caso che proprio in America ed in Giappone si formino due dei più mastodontici produttori commerciali di immagini teriomorfe della modernità postindustriale. Entrambi questi colossi si rivolgono ad un pubblico essenzialmente infantile, influenzando poi, di fatto, gran parte dell’immaginario collettivo sugli animali. Sto parlando dei due imperi economici della Walt Disney e della Sanrio. Le loro rappresentazioni, come anche le due nazioni cui appartengono, sono sicuramente molto lontane, tuttavia mi pare siano simili nella loro tendenza, non dichiarata, di annullare e mortificare il referente animale inteso appunto come questo “altro” che concorre a creare l’uomo senza far parte della sua essenza. E qui l’animale è anche il sostrato organico dell’essere umano, il corpo spogliato della sua umanità e ridotto a supporto materiale di ben altra sostanza. L’animale homo sapiens è allora intercambiabile con ogni altra specie, come paperi, topi e gatti. Laddove la Walt Disney semplifica e antropomorfizza l’animale, facendone, in effetti, delle allegorie dei tipi umani senza alcuna autonomia e individualità che ne sottolinei la differenza (nei comportamenti, nei desideri, nella percezione del mondo) rispetto all’uomo, la Sanrio, in linea con il gusto dell’estetico sottratto a “ogni dato naturale” (come lo aveva definito Kojève), crea a sua volta delle icone artificiali dell’animale, in cui vengono tematizzati esclusivamente i tratti neotenici per poi eliminare qualsiasi altro tratto, compreso quello espressivo. Per questo le sue sagome lineari e semplicissime, dai colori uniformi e dal tratteggio pulito, sono addirittura, nella maggior parte dei casi, sprovvisti della bocca. Possiamo considerare la bocca organo espressivo per eccellenza, sia nella sua funzione di articolazione del parlato che, soprattutto, nella sua funzione di organo mimetico, deputato all’espressione immediata del fatto emotivo. Essa è inoltre una parte del corpo fortemente connessa alla sessualità come anche alla possibilità di ferita (pare che l’origine evolutiva del bacio fosse proprio connessa all’espressione di estrema fiducia e sottomissione: avvicinare le labbra, potenzialmente soggette ad essere ferite dai denti, è qualcosa di intimo e pericoloso). La mancanza della bocca evoca quindi insieme l’assenza di sensibilità e quella di sessualità. Se con nudità intendiamo l’esposizione allo sguardo, sia a quello indagatore che a quello del desiderio, e la vulnerabilità, allora questa mancanza definisce l’assoluta impossibilità di rimanere nudi. Questi pupazzi sembrano irrimediabilmente di gomma, senza peli, senza unghie, completamente deformati per somigliare il più possibile a dei perfetti neonati. Ma gli animali della Sanrio, pur essendo tutt’altro che naturali e rifiutando qualsiasi forma che ricordi l’organismo animale, non sono, propriamente, neppure umani o umanizzati. Pur essendo vestiti ed abitando case umane, l’interpretazione e la lettura di questi personaggi è in qualche modo complicata dall’impassibilità e dalla rigidità che li contraddistingue, limitando la possibilità dell’empatia. Mentre la Walt Disney compie un’operazione tutto sommato classica, riducendo la complessità del dato animale ad una serie di espressioni facilmente riconoscibili da un fruitore umano, la Sanrio crea un ideogramma perfetto dello neotenia; in questo, il potere attrattivo delle icone della Sanrio su un certo pubblico resta insuperato. I suoi personaggi sono degli alieni inespressivi e assolutamente lontani, impenetrabili, che però manifestano un accumulo di tratti stimolatori del comportamento epimeletico(6) talmente ostentato da diventare uno dei fenomeni commerciali della globalizzazione. Questo tipo di raffigurazione dell’animale è infatti in linea con le aspettative di un pubblico infantile, ma è diventato oggi incredibilmente attraente anche per fruitori (soprattutto femminili) adulti. Grazie a questo fenomeno, la Sanrio ha potuto allargare la sua produzione in modo incredibile: da accessori per bambini e per la scuola si è passati all’abbigliamento per adulti, agli elettrodomestici e addirittura a parti meccaniche per le automobili!(7) Se Kojève individuava nell’ikebana, nella cerimonia del tè e nel teatro Nô l’essenza dello snobismo giapponese, in quanto improntati a “valori completamente formalizzati, cioè completamente svuotati di ogni contenuto «umano» nel senso di «storico»”(8), bisogna a mio parere inserire, tra la forme estetiche che fanno dell’allontanamento dal dato naturale e della purificazione dell’organico il loro punto di forza, anche le icone create dai disegnatori giapponesi della Sanrio. Queste immagini sono costruite intorno alla loro mancanza assoluta di collegamento con il reale, una specie di nuovo iperuranio postindustriale che prende come referente primario il teriomorfo nella sua declinazione neotenica. Questa idealizzazione del dato naturale e questa estetica neotenica non è certo un’esclusiva della Sanrio. Molti altri produttori di gadget e oggettistica seguono gli stessi canoni e la stessa ispirazione. Di più, mi pare di riscontrare una simile tendenza in molti aspetti della produzione estetica giapponese. Anche il sushi, altra pratica vastamente esportata in occidente, in qualche modo si allontana dalla semplice definizione di cibo, diventando prima di tutto una affermazione estetica, come, del resto, i famosi bento (pranzi al sacco preparati dalle donne di casa per i loro cari), che sono delle composizioni con una complessità estetica anche notevole. Il cibo non viene disposto per sembrare semplicemente appetibile ma, innanzitutto, per essere bello e accattivante da un punto di vista estetico. Questa stessa eliminazione e marginalizzazione dell’organico mi pare riguardi anche le opere di certi artisti. Nella produzione artistica della giovane Erika Yamashiro è chiara l’idealizzazione dell’animale e, in generale, dell’organismo. I suoi autoritratti la raffigurano come una figura perfetta, assolutamente liscia, simile alla bellezza esangue dei manichini. Il suo corpo è quanto di più lontano da qualsiasi idea di ferita o di permeabilità del corpo. Gli animali, che spesso la accompagnano, sono ancora più idealizzati, riducendosi anche a delle semplici sagome nere. Essi richiamano sempre una certa forma infantile, sono piccoli e arrotondati, raffigurati sotto la cifra della delicatezza e della tenerezza. È
interessante come, però, in certi dipinti si intraveda una
complessità maggiore. L’irrompere, in questi ideali scenari
pervasi dal colore rosa, di particolari fuori luogo e sottilmente
inquietanti conferisce a questi quadri una certa instabilità. Così
mi pare, per esempio, l’appuntito tacco a spillo della scarpa
(naturalmente rosa) che sovrasta dei piccoli coniglietti (Fluffy):
o la
presenza delle forbici ed il pullulare di insetti nel quadro
Cake
o, ancora, la mano riflessa nell’acqua che tira il gattino per la coda in Another.
Un
gusto ed un’estetica molto simili sono rintracciabili anche
nelle belle fotografie di Kyoko Hamada. Qui lo spazio è limpido e
gli oggetti perfettamente a fuoco; le linee sono poche e pulite ed i
colori uniformi e tendenzialmente molto chiari. La luce è pervasiva
e non lascia spazio a ombre, ribadendo continuamente il fatto che in
queste foto non c’è nulla di misterioso o di inquietante; niente
viene celato al nostro sguardo, non incontriamo mai la difficoltà di
decifrare una forma o di interpretare un’ombra sfuggente. Ed in
questa facilità di visione pare non emergere mai il dato organico,
il corpo, la terra. Per esempio nella foto Strawberries tutto sembra chiaro, pulito. L’acqua nel bicchiere e la vaschetta di plastica trasparente sono meravigliosamente puri e luminosi. I colori sono molto tenui e si fanno più definiti solo nei resti delle fragole lasciati sul piatto. Ma non sono proprio sempre questi resti a richiamare il morso e l’appetito? In una scena iper-controllata e, come i corpi di Yamashiro, esangue, queste fragole sono come una lacerazione che fa passare il resto non detto: la carne, il cibo, i denti. Questa limpidezza innaturale sembra un tentativo di affermare una pacificata perfezione, chiusa ad ogni dubbio e lacerazione. Ma proprio questa stessa perfezione non può, a mio avviso, non richiamare il suo opposto: il corpo nudo, organico, passibile di ferita. Un’analisi di un altro corpo, nudo e perfetto, è quella di Didi-Huberman, che nel suo saggio Aprire Venere(9) guarda e tenta di capire l’eterea bellezza della Venere di Botticelli. Osservando la perfezione cerea del corpo della Venere, Didi-Huberman vuole superare la canonica interpretazione della sua nudità come perfezione cesellata e marmorea, lontana da ogni contaminazione impura e da ogni desiderio. Per far questo egli ricostruisce pazientemente tutti i collegamenti che il famoso dipinto intrattiene con la cultura del Quattrocento, mostrando che la nudità perfetta della Venere non può essere letta senza tener conto, per esempio, dei lugubri sermoni del Savonarola o dalle colorite novelle del Boccaccio. Il corpo freddo e perfetto della dea porta in sé i segreti della sua apertura. Se siamo tentati di definire anche questo corpo come esangue, verrebbe da ricordare la lezione di Heidegger che ci ricorda che per dire l’aletheia, il vero, bisogna sempre anche dire la lethe, il velato, ciò che nella verità si svela; allo stesso modo nel dire esangue bisogna sempre anche richiamare la presenza del sangue, del corpo organico. Anche se i molti collegamenti che un fruitore dell’epoca di Botticelli doveva avere in mente alla vista del suo dipinto sono stati neutralizzati ed espulsi dall’analisi classica del quadro, Didi-Huberman li richiama dall’oblio: primo fra tutti la narrazione della nascita di Venere, che include il macabro episodio dell’evirazione di Crono da parte di Urano. Bisogna “ripensare la nudità oltre gli abiti simbolici di cui si riveste”(10). Ciò significa in primo luogo accostarsi a quella fenomenologia del contatto mascherato che Freud richiama giustamente come rovescio bifronte – tocco di Eros e tocco di Thanatos – di ogni idealizzazione, di ogni difesa psichica contro l’attacco, in noi, dei cosiddetti processi «primari». Occorre dunque trovare nella Venere stessa la traccia di questo snodo dissimulato, inquietante, in cui il tocco di Thanatos si sposa con quello di Eros: passaggio impercettibile, e nondimeno straziante, in cui l’essere toccati (essere commossi dalla bellezza pudica di Venere, vale a dire essere attirati e quasi carezzati dalla sua immagine) diviene essere colpiti (ovvero essere feriti, essere aperti dal negativo che appartiene a quella stessa immagine).(11) In questo senso le immagini pacificate e fin troppo rosee delle autrici giapponesi, come anche quelle dell’iconografia della Sanrio, non possono essere lette isolandole da altre produzioni tipiche giapponesi, come per esempio i manga erotici che, pure condividendo una estetica simile (in cui i corpi sono perfetti, rosa e soprattutto infinitamente ingenui e infantili), sono poi spesso orientati verso una raffigurazione dell’abuso sessuale e della violenza. L’uso del fumetto per la rappresentazione pornografica ed erotica ha creato molti equivoci nella fruizione di questi ultimi in occidente. L’uso del disegno per la rappresentazione pornografica è forse un aspetto che, se approfondito, può risultare interessante per l’interpretazione del rapporto estetico e percettivo dell’individuo con il proprio corpo nella cultura giapponese. Tornando alle opere prima citate, l’attenzione scrupolosa con cui questa tenerezza e dolcezza eccessive vengono raffigurate, impedisce al fruitore di accettarle per quello che vogliono mostrare in superficie; proprio l’eccesso di pulizia e di nitidezza evoca e crea il desiderio opposto, in qualche modo crudele, di aprire la superficie e creare ferita in questa perfezione artificiale, focalizzata nel suo proposito (per alcuni autori consapevole) di eliminare l’organico, il dato naturale, il caos proprio del vivente.
Bibliografia G. Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino, 2002 M. D’Abbiero, L’animale, un’esistenza infelice. Il concetto di animalità nell’Enciclopedia di Hegel, in, Filosofie dell’animalità, a cura di E. Baccarini, T. Cancrini, M. Perniola, Mimesis, Milano 1992 G. Didi-Huberman, Aprire Venere. Nudità, sogno, crudeltà, Einaudi, Torino, 2001 (G. Didi-Huberman, Ouvrir Venus. Nudité, rêve, cruauté, Éditions Gallimard, Paris, 1999) M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, Il Melangolo, Genova, 1999 (M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Einsamkeit, Vittorio Klostermann Verlag, Frankfurt am Main, 1983) M. Horkheimer e T.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino, 1971 (M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialektik der Aufklarung. Philosophische Fragmente, Querido Verlag, Amsterdam 1947) R. Marchesini, Lineamenti di zooantropologia, Calderini Edagricole, 2000 R. Marchesini, K. Andersen, Animal appeal. Uno studio sul teriomorfismo, Hybris, Bologna, 2003 R. Marchesini, S. Tonutti, Manuale di zoantropologia, Meltemi, 2007
1
A. Kojève, Introduction
à la lecture de Hegel,
Gallimard, Paris 1979.
) |