Svestire
le dee
di Giuseppe Russo Può forse apparire inattuale il celebre verso conclusivo del Faust goethiano secondo il quale «l’Empireo femminino ci spinge verso l’alto», e il fatto che non sia mai stato fatto proprio da alcun movimento delle donne lascia intuire che non sia nemmeno particolarmente apprezzato. Tuttavia, resta inalterata la possibilità che esso conservi un certo contenuto di verità riguardante quel complesso rapporto culturale rintracciabile tra la femminilità e alcune forme di trascendenza che, con le relative implicazioni sociologiche e strategie comportamentali, è tra gli oggetti di studio dell’antropologia del sacro(1. Se si accetta questa eventualità, e le scienze religiose la accettano senza remore, si può approntare un excursus come quello sviluppato nelle pagine che seguono sulle declinazioni del sacro che l’elemento femminile è in grado di generare – nel nostro caso, usando come asse oscillatorio l’esperienza della nudità, che pertanto sarà esclusivamente nudità femminile. Partiamo da una definizione abbastanza neutrale come quella formulata poco più di quarant’anni fa dalla massima autorità del settore, secondo cui l’irruzione del sacro nel mondo delle esperienze umane esprime «sempre lo stesso atto misterioso: la manifestazione di qualcosa di completamente diverso, di una realtà che non appartiene al nostro mondo, in oggetti che fanno parte integrante del nostro mondo “naturale”, “profano”»(2. È questa la struttura di una ierofania(3: l’oggetto del religioso è qualcosa di totalmente altro(4, ma si relaziona all’uomo attraverso elementi, ambienti e circostanze della sua vita quotidiana irrorandoli di una ulteriorità che da quel momento li isola dall’universo dimensionale consueto e li veicola in una realtà sovrapposta (spazi sacri, tempi sacri, reliquie venerate, archetipi rituali). Data per buona questa definizione generica del fenomeno, proviamo a compiere un viaggio interculturale tra alcune soluzioni storicamente accertate (e non particolarmente conosciute) che vedono per protagonista una figura femminile, la cui facoltà sacra si sia manifestata tramite atti di nudità, ovvero la cui nudità abbia provocato delle conseguenze profonde nelle strutture del sacro accettate dalla comunità che l’ha esperita. Risaliamo agli albori della civiltà scritta, sebbene esistano anche numerosi casi di artigianato neolitico che potrebbero riguardare il nostro oggetto, ma ovviamente è opportuno limitare l’orizzonte di analisi. Ci interessa un poema sumerico che è stato pubblicato per la prima volta in versione tedesca nel 1973 col titolo Inanna und Enki(5. Si tratta di un componimento particolarmente lungo rispetto alle consuetudini del tempo (circa 800 versi distribuiti su due tavolette di 400 linee ciascuna). Il testo, nella stesura che ci è pervenuta, è stato redatto nel circuito della scuola di Nippur e risale al periodo di Isin-Larsa (2000-1900 a.C.); in nessuno caso la sua datazione può essere successiva al 1850 a.C., più probabilmente ricade nel I secolo del secondo millennio, quando noi indoeuropei ancora ci nutrivamo di ciò che potevamo trovare vagando nelle steppe russe. La più recente e completa traduzione italiana è col titolo Viaggio di Inanna ad Eridu in un volume della più prestigiosa fra le collane dedicate a queste materie(6. La vicenda narrata è riassumibile in poche righe: la dea Inanna (che gli accadici ribattezzeranno Ishtar, nome col quale è maggiormente conosciuta perché adottato anche dai Babilonesi), di fronte all’immagine del proprio corpo nudo, ed in particolare del proprio sesso, decide di meritare maggiori poteri di quanti conferitile dall’assemblea degli dèi presieduta da An e da Enlil agli inizi dei tempi. A darle questa certezza è solo ed unicamente la visione della propria nudità, non il paragone delle proprie facoltà con quelle degli altri dèi, come accade piuttosto nella mitologia classica, usa ad attribuire alle divinità tutti gli estremi comportamentali degli umani, compresi alcuni complessi da confronto. Inanna intraprende allora un viaggio verso la città sacra di Eridu, sede di Enki, il dio ordinatore del mondo e distributore delle potenze celesti, allo scopo di pretendere da questi un ampliamento delle sue dotazioni. Enki, che aveva previsto il suo arrivo, inizialmente decide di accontentarla e le dona una lunga serie di facoltà (logiche, filosofiche, artigiane, organizzatrici dell’assetto sociale); ma subito dopo la partenza di Inanna se ne pente e cerca più volte di farsele restituire tramite un suo messaggero, inutilmente. Certo, nell’atteggiamento di base di Inanna c’è la proiezione di un tratto ritenuto tipicamente femminile (una natura capricciosa ed irascibile è infatti il suo profilo più comunemente usato dagli scriba mesopotamici) e nella traccia mitologica di fondo si nascondono elementi squisitamente politici, dal momento che questo trasferimento di poteri – in una realtà come quella del mondo sumerico, organizzato per città-stato, ora solidali e consorziate, ora rivali e antagoniste – simboleggia la decadenza di una città (Eridu, dominata da Enki) a favore di un’altra (Uruk, fedele a Inanna). Ma come detto, qui ci interessa il motore iniziale dell’azione, e quindi riportiamo il testo dalla versione più recente ed integrale. Purtroppo le lacune delle tavolette sono numerose, ma quel che è stato reperito e decifrato basta al nostro scopo(7: (Segmento A, vv. 3-7): «Quando
essa uscì
per andare dal pastore, verso l’ovile, (Segmento B, vv. 1-3): «Inanna,
proprio
io, [ ] io, Ciò che qui spinge Inanna all’azione è dunque una motivazione estetica: guardandosi, la dea acquista piena consapevolezza della sua bellezza, mentre fino a quel momento ne aveva una conoscenza solo parziale, e in questo Bewußtsein radica un atto di volontà, destinato a mutare addirittura la sistemazione dei poteri fra gli dèi. Bellezza e determinazione sono dunque intrecciate tra loro ed entrambe appaiono originate, quanto meno nel loro potenziale di effettività, dall’esibizione del corpo nudo e dalla conseguente scoperta o constatazione della genitalità come mysterium fascinans e quindi come fattore del sacro, secondo la celebre analisi di Rudolph Otto(8. Nulla di nuovo in questo, dato che antropologi e fenomenologi della religione sanno bene che «il sentimento del sacro è sempre particolarmente vivo e sviluppato rispetto a tutto ciò che tocca la sessualità»(9, ma qui c’è molto altro. L’autoesposizione di questa nudità (presumibilmente tramite uno specchio, anche se le lacune del testo non permettono di stabilirlo con certezza) diviene infatti un evento in grado di modificare i livelli di realtà e l’orizzonte teologico, poiché la nuova concentrazione di poteri nelle sue mani avrà come conseguenza un mutamento anche nella destinazione delle invocazioni e delle esortazioni, di cui la letteratura sumerica è piena, e quindi del sistema di equilibri interno al pàntheon mesopotamico. Ma non è tutto. A differenza di altri poemi che la vedono protagonista, infatti, qui Inanna non si infuria di fronte alla scoperta e non dà in escandescenze. Trattandosi di una divinità connotata da una mentalità fortemente complottista, in altri casi se la sarebbe presa in maniera rabbiosa con chi le aveva tenuto nascosta la bellezza del proprio sesso. È ciò che accade in un altro poema della stessa epoca, che è stato intitolato coi nomi dei suoi protagonisti Inanna e Šukalletuda, dove la dea viene violentata dal mortale: la reazione di Inanna si concretizza in una spaventosa serie di piaghe contro tutto e tutti, anche perché convinta che qualcuno sappia dove si nasconde il suo stupratore ma glielo tenga nascosto(10. In questi versi, al contrario, con un atteggiamento più maschile che femminile (per la cultura mesopotamica) stabilisce un piano d’azione per prendersi ciò che ritiene le sia dovuto, e ottiene un successo tale che riesce a ricevere anche più di quanto avesse motivo di domandare. Una volontà ferrea la guida e le apre le porte del successo per la sua rivendicazione. Tutto ciò, solo per aver contemplato il proprio corpo nudo ed essere rimasta colpita, quasi “modificata”, da tale immagine. Viene in mente Schopenhauer, secondo il quale «si può anche dire: la volontà è la conoscenza a priori del corpo e il corpo la conoscenza a posteriori della volontà (…) Ogni vero, genuino atto volitivo è subito e direttamente anche un visibile atto del corpo; e corrispondentemente, ogni azione sul corpo, subito e direttamente, è anche azione sulla volontà»(11. L’elemento che si sovrappone alla relazione volontà-corpo e che la determina in maniera essenziale è però, nel nostro caso, la bellezza femminile; ed è proprio questo il Leitmotiv che torna negli altri casi che ora esamineremo. La creatura femminile che sta a metà strada tra l’umano e il divino – concezione frutto di una lenta evoluzione storica favorevole alla mediazione, ed anche per questo motivo estranea al rigoroso mondo mesopotamico, troppo arcaico e poco incline alla tolleranza di zone grigie tra il sacro e il profano – è invece abbastanza comune nelle civiltà camito-semitiche (si pensi all’ingenita Lilith, figura accolta dalla tradizione biblica ma che nasconde un’origine sumerico-accadica) e in quelle indoeuropee. In virtù della loro irriducibile “diversità”, a creature di questo genere si applicano funzioni e proprietà tanto naturali quanto sovrannaturali, a seconda delle esigenze della cultura che sviluppa queste figure e delle forme espositive della letteratura religiosa che le descrive. Nel bacino vedico e indoario ci sono esempi di creature femminili apparse sulla superficie del mondo senza il ricorso alla generazione naturale, «come spuntate da un terreno vivo»(12 in grado di far crescere i suoi frutti autonomamente ed offrirli alla comunità dei credenti. È questo anche il caso di Sita, la protagonista femminile del Rāmāyana, un essere sospeso tra l’umano e il divino, come precisa lo stesso padre Yanaka quando ne ricorda la nascita spontanea dal suolo ed altre caratteristiche, mentre la presenta al principe cui intende unirla: «Mia figlia Sita, di gentil persona, somigliante alla figlia di un Dio, non nata da femmineo seno ma uscita di mezzo alla terra, è destinata a premio»(13. Invece l’altra figlia di Yanaka, Urmila, non merita nemmeno un distico di presentazione perché umana. Ovviamente, Sita nasce totalmente nuda e già adulta(14, sostanzialmente come Venere nel mito greco: cambia solo l’elemento naturale dominante, con la terra al posto dell’acqua. Non solo, ma anche in questo caso – che pure appartiene ad un sistema culturale molto diverso da quello mesopotamico ed è modellato su valori poco comparabili con questo – l’eroismo battagliero di Sita e il coraggio da lei dimostrato nel corso degli eventi narrati ne fanno una figura, più che eroica, al di là dell’umano. Questo perché è animata, anche lei, da una forza di volontà che appartiene al piano della mitologia. Corollario necessario ad una figura del genere è, neanche a dirlo, la dotazione di una bellezza incantevole ed estremamente raffinata, tale che già ne preannuncia una diversità assoluta rispetto alle donne comuni e la pone come “totalmente altra” fin dall’aspetto. Dunque, è nuovamente un fattore estetico a fare da trait d’union fra l’acquisita consapevolezza di sé come essere superiore e la determinazione nell’intervenire sui diversi livelli di realtà alterandoli secondo un progetto radicato nella trascendenza e che formerà una delle direttrici principali dell’epopea redatta da Vālmīki nel I sec. a.C. Questo avviene molto più raramente quando il protagonista della vicenda mitologica è un personaggio maschile, più spesso mosso da forze come il risentimento, la brama di potere, il destino inesorabile e tiranno. In effetti, se allarghiamo il campo d’osservazione al di fuori del mondo greco-romano, ci accorgiamo che la bellezza relazionata al sacro rappresenta una prerogativa riservata in maniera prevalente alla femminilità e che generalmente sprigiona un decreto di interdizione alla vista del corpo nudo della dea o della semidivinità femminile. Nella mitologia del mondo classico, ovviamente, il caso più vicino al nostro tema è quello di Diana-Artemide spiata da Atteone mentre si bagna nelle acque della fonte (recessus in Ovidio) in Gargàfia. L’origine poetica fondamentale del mito, come noto, è nel V inno di Callimaco (Per i lavacri di Pallade), dove però l’avvenimento viene presentato al futuro, come qualcosa di non ancora accaduto ma che è destinato a svolgere un ruolo di compensazione esemplare rispetto all’affaire del giovane Tiresia che, avendo visto il seno e i fianchi di Atena durante un’abluzione di quest’ultima, è stato implacabilmente accecato dalla dea (vv. 87-89) in rigorosa applicazione delle disposizioni di Kronos (vv. 100-103): «Non è
cosa dolce per Atena di fanciulli gli occhi Cariclo, la ninfa madre di Tiresia, viene allora consolata da Atena con l’esposizione dell’episodio prossimo venturo di Diana e Atteone. Rispetto a quel che dovrà accadere, infatti, Cariclo ha motivo di considerarsi «beata» (olbístan) e «fortunatissima» poiché può ancora abbracciare il figlio, sebbene cieco, mentre Atteone non potrà in alcun modo essere salvato e gli sarà destinata una sorte complessivamente analoga a quella di Šukalletuda per la sua violazione del corpo nudo di Inanna:
«Quando, pur
senza volerlo, vedrà i graziosi lavacri Tre secoli dopo Callimaco, Ovidio stilizza l’episodio raccontandolo al preterito e rendendo metafisico l’aspetto del corpo nudo di Diana tramite una similitudine con l’orizzonte alle primi luci dell’alba: «Quale
si vede il
color nelle nubi, cui tinga l’opposto Diversamente dal nucleo mitologico greco, in Ovidio la vendetta di Diana inizia da ciò che ha a disposizione in quel momento: l’acqua in cui sono parzialmente immersi i suoi virgineos artus e che spruzza in faccia ad Atteone azionando la catena metamorfica che lo porterà ad essere sbranato dai cani. Cinque secoli più tardi, Nonno di Panopoli contaminerà le due versioni fondendole con altre ma ci terrà a precisare che, al momento della visione del busto nudo di Diana sulle acque (dalla vita in giù sembra non visibile ad Atteone), la dea ha l’istinto di coprirsi il seno e celarsi con rapidità allo sguardo profanatore: «… A
mezzo
corpo La ritorsione divina, nella versione di Nonno, si scatena da sé senza alcun intervento diretto da parte della dea, andando così a sostenere l’interpretazione del mito elaborata da Giordano Bruno con la sua insistenza sulla coessenzialità fra Diana e la Natura. Ma questo non è rilevante per il nostro argomento: ciò che conta è che, nella successione delle versioni del mito, la morfologia del corpo nudo della dea subisce una progressiva rarefazione nella messa a fuoco, per così dire, diventando di epoca in epoca sempre meno precisa nelle forme e nei lineamenti, mentre aumenta l’importanza del contesto in cui l’episodio è avvenuto. Con un parallelo cinematografico, potremmo dire che la medesima sequenza viene presentata più volte ma da inquadrature diverse a seconda delle epoche e dei gusti estetici: dapprima dalla soggettiva di Atteone, quindi con punti di ripresa laterali, fino ad un totale nel quale l’ambiente sembra quasi prevalere per rilevanza sull’azione dei suoi protagonisti. In un certo senso, si tenta di ri-velare la nudità della dea senza per questo modificare il contenuto di verità della sua storia: un caso di alètheia che riesce ad attuarsi aggiungendo veli anziché eliminandoli.
Questo trend si è conservato nell’età moderna, e ha finito per riguardare qualsiasi figura di questo genere ereditata dalle tradizioni precristiane. Tale movimento discendente del sacro si è però armonicamente incrociato con uno uguale e contrario che ha progressivamente sospinto verso l’alto figure femminili eccezionali, talvolta esplicitamente sovrannaturali, generalmente caratterizzate da una bellezza estrema esibita in momenti di “nudo religioso”, andando così ad infoltire quello spazio tra l’umano e il divino di cui parlavamo. Né si tratta di un processo iniziato di recente. Fin dall’età antica, in determinati casi, l’esibizione della nudità femminile da parte di una profana può tradursi in un ingresso privilegiato nell’ambito del sacro; ad esempio, può costituire il rito di inziazione per l’accesso ad una comunità ieratica esclusiva per antonomasia come quella sacerdotale, evento normalmente regolamentato in maniera molto rigorosa(21. Se torniamo al mondo indoario, un caso eclatante di questo tipo lo ritroviamo nel X Canto (cap. 22) dello Śrīmad Bhāgavatam, dedicato ai divertimenti cui si dedicò Krşna durante la sua lunga (125 anni) incarnazione umana. Un giorno, capitando per caso in un raduno di gopī (giovani contadine della regione di Vrindāvana) che facevano il bagno in un fiume, Krşna decide di rubare loro i vestiti e di obbligarle ad uscire dall’acqua nude per sfilare in una sorta di parata davanti a lui, del quale le ragazze si erano innamorate all’istante percependo la sua natura divina. Una comprensibile vergogna le frena, ma il sentimento le spinge, né valgono le loro deboli minacce di rivolgersi alle autorità religiose per evitare l’onta: «Di fronte alla fermezza e alla determinazione di Krşna, le gopī non ebbero altra scelta che obbedirgli. Uscirono dall’acqua, una dopo l’altra, cercando di attenuare la loro nudità coprendo con la mano la regione pubica; e rimasero in quella posizione tutte tremanti. Così semplice, così puro il loro atteggiamento, che Śri Krşna fu subito soddisfatto di loro (…) Fu così che divennero le più grandi amanti di Krşna e le sue servitrici più fedeli»(22 nel senso che andarono a formare un corpo sacerdotale scelto, al quale da quel momento risulteranno difficilmente paragonabili gli altri, certo superiori per sapienza vedica ma inferiori per dignità estetica. Si tratta di un principio di “selezione del personale” decisamente diverso rispetto a quello usato, ad esempio, dalle sacerdotesse di Iside, della cartaginese Tanit o della Vesta romana: qui la nudità svolge un ruolo iniziatico decisivo e, data l’irripetibilità dell’evento (Krşna non tornerà più sulla Terra), sublima nel leggendario senza passare per la strettoia del moderno pudore inteso come «rivolta del corpo contro la perdita della propria soggettività»(23, concezione poco compatibile con una circostanza mitologica. In questo caso, la forza di volontà soggiace al principio erotico dell’amore per un dio, ma l’evento è abbastanza comprensibile, e inoltre non spetta certo alle gopī modificare l’ordine del mondo. L’episodio pone comunque queste ragazze tra l’umano e il divino, e dunque sembra legittimo parlare di promozione nella gerarchia del sacro. Questo era solo uno tra gli esempi possibili del movimento complementare a quello che riduce la distanza tra il sacro femminile e il mondano abbassando alcuni standard del primo. Ma potremmo addurne altri, non meno significativi. In effetti si può affermare che, ogni volta in cui in poesia o in altre soluzioni espressive si tende a divinizzare la donna amata in virtù della sua bellezza, si aggiunge un anello a questa catena, incrementando così la popolazione della regione delle semidee. E, come nel Capolavoro sconosciuto di Balzac, non di rado questa sacralizzazione si celebra anche grazie ad un atto di nudo, ovviamente non aperto a tutti. Una volta giunti al culmine i processi di secolarizzazione, in coincidenza con l’avvento della società di massa, il trionfo della dimensione pop appare un esito quasi scontato. Ma ciò non pregiudica affatto la possibilità di preservare l’asse divino-femminino come clima estetico d’applicazione del sacro; semplicemente, il sacro assume le forme della tarda modernità (o postmodernità o surmodernité o liquid modernity, come la si preferisce denominare) ed inizia la ricerca di quei corpi, di quei volti e di quelle sinuosità peculiari del mutato contesto storico. Ovviamente cambiano anche i codici espressivi che alloggiano le nuove circostanze ierofaniche, privilegiando quelli di massa come la pubblicità, la televisione, il cinema, la moda: territori nei quali «sembra davvero puerilmente facile conquistare il palcoscenico. D’altra parte, sembra dannatamente difficile, anzi impossibile, rimanervi a lungo»(24. Probabilmente Bauman ha ragione per quel che riguarda l’orientamento generale del nostro tempo, tuttavia esistono ancora oggi non pochi casi di riconoscimento pubblico che riesce a valicare i limiti angusti della notorietà da velina o da ereditiera della catena Hilton: personalità forti (Meryl Streep, Jodie Foster, Michelle Pfeiffer) che sembrano durare nel tempo come stelle relativamente fisse del firmamento mediatico, o anche astri che da molti anni brillano per conclamata versatilità di talenti, come Barbra Streisand. Anzi, hanno diritto al trattamento da dee proprio quelle dive dello star system che appaiono in grado di non farsi schiacciare dal mercato, che incarnano un principio resistenziale rispetto a quello usa-e-getta del “quarto d’ora di celebrità” warholiano, «divinità che parlano a un pubblico specifico a seconda delle inclinazioni dello spettatore»(25 ma che – sebbene in forme nuove e senza dubbio discutibili – in fondo sembrano racchiudere in sé quanto meno alcuni dei tessuti tradizionali del mysterium numinoso. Svestirle è diventato piuttosto semplice, questo sì; mentre è più difficile reperire nei loro corpi, nelle loro curve, nei loro sguardi qualcosa che rinvii ad una trascendenza. Più difficile, e tuttavia non impossibile. Anzi, col passare del tempo e con lo specializzarsi delle arti i casi si moltiplicano e, in un certo senso, si perfezionano. Quando, ad esempio, negli anni Cinquanta Roland Barthes individua nel viso di Greta Garbo un elemento cruciale del suo catalogo di mythologies, lo fa perché vi rintraccia un potere evocativo che ancora poteva ospitare alcuni elementi di sacralità. È lui stesso ad ammetterlo: «La Garbo appartiene a quel momento del cinema in cui la sola cattura del viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento (…) Come momento di transizione, il viso della Garbo concilia due età iconografiche, assicura il passaggio dallo spavento al fascino»(26. Mistero, spavento, fascino, sintesi di opposti: tutte caratteristiche delle manifestazioni del sacro secondo la fenomenologia delle religioni. Per ragioni speculari, nella stessa raccolta Barthes condanna senza appello lo strip-tease come «mistificazione» voyeuristica, freddo teatro di una brutale reificazione della donna quale mero «elemento stereotipato di varietà [che] non ha nulla di un nuovo denudamento»(27. Interpretazione legittima, sebbene discutibile. E comunque, se il Moulin Rouge non è un possibile scenario di atti che rinviino alla trascendenza, i media di massa sembrano anche a lui in grado di ospitare delle manifestazioni del potenziale religioso che qui ci interessa. Però esistono anche le interferenze determinate dai gusti personali: a Barthes non piaceva Audrey Hepburn in quanto «donna-bambina», scriveva lui, o «donna-gattina»(28 (chissà cosa ci sarà di tanto disgustoso in questo!?), e pertanto la boccia nel confronto con la Garbo; ma solo lui considerava la allora meno che trentenne Hepburn paradigma basale di una nuova epoca della femminilità alla metà degli anni Cinquanta, proprio quando si stava affermando il fenomeno-Marilyn – che invece, per ironia della sorte, aveva iniziato la propria carriera posando nuda per Playboy – e si era appena conclusa la parabola artistica di Grace Kelly, la cui bellezza risulta ancora oggi difficile da considerare unicamente terrena. Restando nell’ambito cinematografico, ed ovviamente senza ripercorrervi la cronologia del nudo, che qui non ci interessa né ci riguarda perché ha piuttosto a che fare con la parabola storica dell’erotismo(29, occorre domandarsi: dal momento che si tratta di una forma espressiva essenzialmente diversa da quella della scrittura e dalle arti figurative, quali casi possono essere considerati caratteristici dell’esibizione, per mezzo del corpo femminile, di una ulteriorità che appaia in grado di trattenere un’essenza religiosa? Quali sequenze di nudo sono riuscite a trasmettere quella sensazione del numinoso che Rudolph Otto racchiude nella sua formula di «sentimento creaturale»(30? Molte, ovviamente. Pertanto limitiamoci a qualche esempio recente basato su elementi di relazione con la tradizione culturale occidentale. Nelle Avventure del barone di Münchausen nella versione diretta nel 1989 da Terry Gilliam, si assiste ad una rappresentazione plastica molto precisa della botticelliana Nascita di Venere con le grazie di Uma Thurman immersa in un’attenta scenografia realizzata da Dante Ferretti, con tanto di conchiglione avvolgente. È certo efficace come messinscena, e si appella a fattori che nel nostro patrimonio iconografico sono religiosamente connotati da sempre (col valore aggiunto del proibito perché pagano). Ma si tratta di una semplice traduzione tra codici espressivi: dalla pittura alla macchina da presa attraverso una concezione teatrale, senza sostanziali rinnovamenti nel nucleo del rappresentato. È citazionismo per immagini, non è qualcosa di nuovo. Un simile agglomerato iconografico, per risultare convincente nel Duemila, dovrebbe riuscire ad attivare le medesime stimolazioni sensoriali e a trasmettere quella forma di inferiorità “creaturale” rispetto ad una potenza ulteriore, ma attraverso i materiali, le forme e le relazioni dell’epoca del web e del virtuale. Dovrebbe riuscire a prelevare alcune sostanze caratteristiche della nostra realtà tecnologicamente strutturata e a trasformarle in immagini contenenti agglomerati mitopoietici che, come nell’antico poema su Inanna, mostrino il numinoso in azione mentre avanza le sue pretese di riorganizzazione (kataskené) sia del reale che del simbolico. Ci sono esempi di questo tipo. Ne illustriamo uno, ma se ne potrebbero proporre molti altri. Nel primo film della trilogia Resident Evil, diretto nel 2002 dal giovane e non particolarmente esperto Paul W.S. Anderson, la prima sequenza del montato che mostra la protagonista Milla Jovovich elabora, sebbene in maniera presumibilmente inconsapevole (ma è proprio per questo che funziona), una “venerogenesi” attualizzata seguita da qualcosa di molto simile a ciò che abbiamo individuato nel testo sumerico di 4000 anni fa. Non si tratta di una semplice revisione occasionale, ma di una vera e propria rielaborazione iconografica complessiva. La sequenza parte da un dettaglio dell’iride azzurro tenue dell’attrice, ripreso dall’alto perché in quel momento lei è stesa nel piatto della doccia dove aveva perduto i sensi e si è appena risvegliata, e stacca su un primo piano del suo viso allargando con un movimento rotatorio di macchina molto dolce la ripresa al totale del suo corpo nudo disteso e ricoperto solo in minima parte da un lembo della tendina della doccia strappata durante la caduta. Alice, la combattente interpretata dall’attrice ucraina, si rialza, va ad osservarsi nello specchio dopo averlo ripulito da uno strato di vapore e comincia a ricordare quel che le è successo mentre era priva di sensi (le hanno iniettato un virus apparentemente letale). Da quell’istante, ossia dal momento in cui si è guardata negli occhi usando lo specchio e ha tastato alcune parti delle spalle e delle braccia per constatare l’avvenuta introduzione nel suo organismo di una sostanza estranea e pericolosa, riacquista coscienza di sé in modo progressivo: si riveste, esce di casa e dà inizio al suo viaggio nel mondo esterno per ridefinirne l’organizzazione e ritagliarsi il proprio “spazio sacro”, proprio come Inanna nel suo itinerario a Eridu, ma partendo da una combinazione estetica basata sull’idea di un’Artemide ciprigna nell’epoca della tecnologia digitale. E, laddove la dea sumerica aveva vissuto una sorta di metabolé acquistando coscienza di sé soltanto dopo aver ammirato il proprio sesso scoperto, Alice la vive dopo aver fissato i suoi stessi occhi in uno specchio e dopo aver verificato sul proprio corpo nudo la profanazione (che è sempre anzitutto violazione dell’integrità, e quindi della bellezza) perpetrata dai tecnici della multinazionale che dovrà affrontare. Ogni dea ha i suoi punti di forza. La Jovovich ha soprattutto gli occhi, e quindi non deve sorprendere che su questi si sia concentrata la scelta registica di stabilire un contatto con una forma di ulteriorità che, nello sviluppo della trama, si manifesterà tramite soluzioni da videogame. Inoltre la sua fisicità è caratterizzata da una serie di attributi che certo evocano il postmoderno: ha qualcosa di metallico, di cibernetico, di non-esattamente-umano(31, ma allo stesso tempo è estremamente leggera, eterea, quasi impalpabile. Un corpo ideale per una divinità di oggi, dunque. Che poi Alice non sia esattamente una dea ma piuttosto un’eroina da consolle che deve trascinare verso la salvezza un gruppo di persone vicine ma non affini, quasi fosse una Pentesilea da grafica elettronica, non fa molta differenza, data la funzione che svolge: la sua è la posizione diegetica di una semidivinità. Si trova infatti al di sopra del livello ontologico degli umani che vanamente la combattono e, per mezzo della sua volontà che si traduce in azione, «assistiamo [comunque] alla compartecipazione popolare di un repertorio mitologico» dotato, come accade in ogni fumetto ben realizzato, di una «efficacia di persuasione paragonabile solo a quella delle grandi raffigurazioni mitologiche condivise da tutta una collettività»(32. Inoltre, a differenza del Superman analizzato a suo tempo da Umberto Eco, e che infatti non è un semidio, Alice non ha affatto come obiettivo il misero ripristino dello status quo ante dopo un crimine, ma anzi un sovvertimento irreversibile dell’esistente (imposto dallo strapotere di un’industria della chimica, un tipo di soggetto che non ha mai rappresentato un nemico nell’orizzonte operativo di Superman o degli eroi Marvel) tramite un’incontenibile forza di volontà, come nel poema di Inanna o nella storia di Sita o anche in alcune articolazioni della mitologia germanica che hanno come protagonista Brunhilde(33. Qualcuno nella produzione della pellicola si sarà poi reso conto della notevole riuscita di questa sequenza, al punto che verrà proposta ripetutamente negli altri due film della trilogia in qualità di flashback della protagonista o come scenario di realtà virtuale per le esercitazioni dei suoi avversari che cercheranno di eliminarla. E, dopo tutto, anche questo ricorso al rinvio ad episodi già raccontati in tutto o in parte rappresenta una strategia narratologica tipica della mitografia; non a caso viene utilizzato spesso nel cinema di fantascienza basato su elementi che fanno appello a questi nuclei arcaici della cultura occidentale. Dunque, quando il rapporto tra l’elemento femminile e il numinoso attraversa l’esperienza del nudo, mostra notevoli capacità di modificazione dei livelli di realtà e delle gerarchie interne al sacro. Molte altre narrazioni potremmo addurre a sostegno di questa tesi, ma è cosa buona e giusta fermarsi qui e chiudere magari ricordando alcuni versi del massimo poeta di lingua ceca del XX secolo, premio Nobel nel 1984, che nel componimento d’apertura di una delle sue ultime raccolte così si esprime(34:
«Leggevo con
passione la poesia In fondo, è solo un modo un po’ dandy di formulare la massima faustiana sull’“eterno femminino” (Ewig-Weibliche) che, col suo potere attrattivo, invita l’uomo alla trascendenza passando anche attraverso l’esposizione di sé per mezzo del nudo.
Note con rimando automatico al
testo 1 Cfr. AA.VV., Trattato di antropologia del sacro, vol. I (Le origini e il problema dell’homo religiosus), ediz. ital. a cura di M.Telaro, D.Cosi e L.Saibene, Jaca Book, Milano 1991; J. Ries, L’uomo e il sacro nella storia dell’umanità (Opera Omnia, vol. II), ediz. ital. cura di R. Nannini, Jaca Book, Milano 2007, in particolare i capp. III-V della prima parte. 2 M. Eliade, Il sacro e il profano, ediz. ital. a cura di E. Fadini, Boringhieri, Torino 1984³, pp. 14-15, corsivi dell’autore. 3 Per una buona panoramica sul concetto di “ierofania”, cfr. M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, ediz. ital. a cura di V. Vacca, Boringhieri, Torino 1984³, cap. I. 4 Julien Ries, il più importante antropologo del sacro in attività, per molti anni docente a Lovanio, nei suoi studi degli anni Ottanta ha elaborato una lista abbastanza completa delle denominazioni che le principali civiltà hanno usato per designare il “totalmente altro”, dal vedico Anyad Eva all’egizio Neter, dal taoista T’ien Ming al Numen latino; cfr. J. Ries, L’uomo religioso e la sua esperienza del sacro (Opera Omnia, vol. III), ediz. ital. cura di R. Nannini, Jaca Book, Milano 2007, pp. 345-362, pp. 490-492. 5 G. Farber-Flügge, Der Mythos «Inanna und Enki» unter besonderer Berücksichtigung der Liste der me, in «Studia Pohl», n, 10, Roma 1973. Una seconda (ma non integrale) versione è anche nell’antologia di J. Bottéro & S.N. Kramer, Uomini e Dèi della Mesopotamia, ediz. ital. a cura di G. Bergamini, Einaudi, Torino 1992, pp. 236-266. 6 Mitologia sumerica, a cura di G. Pettinato, UTET, Torino 2001, pp. 307-336. 7 Mitologia sumerica, ed. cit., pp. 308-309, corsivi miei. La ripetizione di singoli versi o di intere strofe è molto comune in questi testi (ancor più in quelli liturgici) ed alimenta la tesi di quanti sostengono che in origine dovevano essere stati redatti per venire recitati in pubblico da più “attori” nei diversi ruoli, per meglio imprimere la storia narrata nella memoria di un popolo che ha sì inventato la scrittura, ma in massima parte era composto da contadini analfabeti. 8 Cfr. R. Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, ediz. ital. a cura di E. Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 1984, cap. VI. 9 R. Caillois, L’uomo e il sacro, ediz. ital. a cura di U.M. Olivieri, Bollati Boringhieri, Torino 2001, p. 134; ma cfr. anche i §§ 126-138 di: M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, ed. cit. 10 Ovviamente Šukalletuda fa una fine orribile, proporzionata al suo affronto: cfr. Mitologia sumerica, ed. cit., pp. 380-395. In altre raccolte sono comunque disponibili altre storie di Inanna con epiloghi simili. 11 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, § 18, ediz. ital. a cura di C. Vasoli, Laterza, Roma-Bari 1979³, vol. I, p. 154. 12 Atharva-Veda, XIV, 2, 14. 13 Il Ramayana, libro I, LXXIII, trad. ital. a cura di G. Gorresio, vol. I, Melita Editori, Milano, p. 187. 14 Cfr. A.K. Coomaraswamy, The Rgveda as Land-nāma Book, Dover Publications, New York 1962, p. 15. Il celebre studioso ha realizzato una sinossi con altri testi brahmanici che accennano alla vicenda. 15 Callimaco, Inni. Epigrammi. Ecale, vol. I, a cura di G.B. D’Alessio, Rizzoli, Milano 1997², p. 187. 16 Ivi, p. 189. 17 Metamorphoseon, III, 183-185; trad. di F. Bernini in: Ovidio, Le metamorfosi, vol. I, Zanichelli, Bologna 1961, p. 111. 18 Trad. ital. di M. Maletta in: Nonno di Panopoli, Le Dionisiache (V, 311-315), vol. I, Adelphi, Milano 1997, p. 92. 19 Caccia di Diana, II, 22-23. 20 Cfr. H. Heine, Gli Dèi in esilio, ediz. ital. a cura di L. Secci, Adelphi, Milano 2000², p. 63 segg. 21 Cfr. A. Van Gennep, I riti di passaggio, ediz. ital. a cura di F. Remotti, Boringhieri, Torino 1981, pp. 89 segg. 22 Il libro di Krşna (Canto X dello Śrīmad Bhāgavatam), a cura di A.C.B. Swami Prabhupāda, The Bhaktivedanta Book Trust Italy, Verona 1987, p. 174. 23 U. Galimberti, Il gioco delle opinioni, Feltrinelli, Milano 2004, p. 196. 24 Z. Bauman, Il teatro dell’immortalità, ediz. ital. a cura di G. Aragonese, Il Mulino, Bologna 1995, p. 228. 25 M. Maffesoli, La tribù delle icone, in: «L’espresso» n. 20 del 22.05.2008, p. 185. 26 R. Barthes, Miti d’oggi, ediz. ital. a cura di L. Lonzi, Einaudi, Torino 1994, pp. 63-64. 27 Ivi, p. 144. 28 Cfr. ivi, p. 64. 29 Che il primato spetti a Clara Calamai o a qualsiasi altra attrice non ha nessun rilievo, ovviamente. Non è una gara dove vince chi arriva primo; qui si afferma chi si presenta bene. Semmai, bisognerebbe chiedersi quanto fosse eroticamente sacrale la melliflua e già adulta Louise Brooks nella Lulù (1928) di Pabst rispetto alla salomeica e adolescenziale Mia Kirshner in Exotica (1994) di Atom Egoyan. In questo ambito, svolgono un ruolo inevitabile per la formazione del giudizio i gusti individuali, ma guardando il film di Egoyan risulta davvero impossibile dare ragione a Barthes nella sua velenosa interpretazione dello strip-tease, e ancor più nella sua avversione un po’ snob nei confronti delle “donne-bambine”. 30 Cfr. R. Otto, Il sacro, ed. cit., in particolare le pp. 17-23. 31 L’anno scorso una rivista di moda le ha dedicato una copertina usando come titolo L’invasione degli ultracorpi: un titolo appropriato. 32 U. Eco, Apocalittici e integrati, Bompiani, Milano 2001, p. 224. 33 Cfr. ad esempio la parte centrale del Sigurdharkvidha in Skamma, in: L’Edda. Carmi norreni, a cura di C.A. Mastrelli, Sansoni, Firenze 1982², pp. 194-198. 34 Autobiografia (da L’ombrello di Piccadilly, trad. di E. Hlocková Ripellino), in: J. Seifert, Opere, Utet, Torino 1987, p. 624. |