numero 7
KAINOS 
Ricerche
2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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Le metamorfosi della carne.
Canetti e la psicologia del mangiare 

di Eleonora de Conciliis
 (1)

Dio è un divoratore di uomini
Vangelo apocrifo di Filippo



1. Lo specchio della fame


1.1 Proviamo a guardarci mentre mangiamo. Se ci sedessimo a tavola davanti ad uno specchio, ed osservassimo il movimento della nostra bocca, le nostre espressioni durante il pasto, noteremmo che il nostro volto muta profondamente senza che possiamo controllare appieno i suoi movimenti: facciamo smorfie continue, ora comiche, ora minacciose, mentre compiamo un atto di violenza verso qualcosa che prima era vivo, dotato di una sua identità, e, fosse pure una pianta, “separato” da noi. Questo qualcosa sta diventando parte del nostro corpo. Il cibo di cui ci nutriamo è altro da noi, un corpo diverso che distruggiamo proprio nella sua precedente autonomia. Quest’atto di distruzione, che continua in maniera perfettamente inconscia nello stomaco e nell’intestino, suscita in noi un piacere che chiamiamo sazietà, e senza di esso il nostro corpo sarebbe ben presto una cosa morta e inerte, del tutto simile a quelle che abbiamo ogni giorno nel piatto. Mentre compiamo quest’atto necessario, esercitiamo su ciò che ingeriamo un potere estremo, che non è altro che l’ultima manifestazione della nostra assoluta sovranità sul cibo.(2)

Tale sovranità consiste in una catena di azioni individuali e sociali necessarie a far giungere in tavola, nel nostro piatto, il boccone; si tratta di azioni attraverso le quali il cibo – animale o vegetale – viene asservito all’uomo (cfr. gli animali da allevamento ma anche le serre in cui, sorvegliati e pilotati, crescono i pomodori), manipolato, fatto a pezzi, cotto, condito, fino alla distruzione completa che noi eseguiamo portandolo alla bocca. Quando mangiamo, non siamo consapevoli che della parte finale di questa catena (la “cucina”): il nostro sguardo è tranquillo, i nostri movimenti nell’adoperare coltello e forchetta misurati e sobri, siamo certi di fare qualcosa di giusto e normale. Inoltre, una volta finito, non percepiamo più l’estraneità di ciò che abbiamo mangiato, se non sotto forma di piacevole sensazione di benessere e rafforzamento. Spesso alludiamo scherzosamente alla sorte di ciò che abbiamo ingerito, ma siamo ben lontani dal considerare l’“identità” di un calamaro o di una gallina. Il cibo noi non lo ‘uccidiamo’ più, se non in casi eccezionali: la parola ‘uccidere’, per il cibo, ci sembra assolutamente fuori luogo.

Tuttavia, si tratta pur sempre di un’uccisione, e l’uso metaforico di verbi come mangiare, ingoiare, divorare, riferiti a persone che si amano tanto o che si vorrebbe vedere morte, ci dovrebbe far riflettere. ‘Mangiare vivo’, ‘mangiarsi il fegato’, ‘mangiare con gli occhi’, ‘mangiarsi le mani’, ‘mangiare di baci’, ma anche ‘cucinarsi’ qualcuno, ‘cuocere’ per la rabbia, ‘bere’ avidamente l’immagine di una persona, ‘mandare giù un boccone amaro’: sono espressioni usate nel linguaggio quotidiano, il cui senso è dato dalla provenienza alimentare della metafora. Le metafore alimentari servono a dar voce alle emozioni e ai desideri più riposti dell’uomo. Queste forze agiscono in noi in modo inconscio, lo stesso in cui avviene la digestione di un minestrone: attraverso le metafore alimentari, le persone o le cose che entrano nel linguaggio diventano ‘cibo’, vengono inserite in una rete di significati che appartiene ad una zona più profonda della nostra esperienza.

Per esplorarla, è utile circoscrivere l’indagine al cibo più ricco di sostanze vitali e più amato dall’Occidente, alla pietanza più carica di significati, timori e limitazioni religiose (si pensi alla proibizione del maiale nella religione musulmana e in quella ebraica): alla carne. Questa parola racchiude in sé ed evoca non solo ciò che comunemente chiamiamo ‘carne’, ma le esperienze che la trasformano in una vasta categoria di comprensione della realtà, dentro la quale vanno a finire altre parole di uso comune come ‘io’, corpo’, ‘amore’, ‘potere’, ‘morte’. Quanto più la carne allarga le sue maglie, tanto più si trasforma in lingua; ma, di rimando, essa non può fare a meno di penetrare nelle slabbrature vive del linguaggio.


1.2 Il cannibalismo propriamente detto, o antropofagia, costituisce una fase primitiva delle pratiche rituali attraverso cui è passato ogni gruppo umano e forse ogni civiltà; anche se in alcune tribù dell’Oceania, dell’Africa e dell’America Meridionale ne sono rimaste, fino a pochi decenni fa, tracce sporadiche, esso appartiene alla sfera degli istinti più remoti della nostra specie, che l’evoluzione storico-culturale ha combattuto e addomesticato, ma non del tutto cancellato, trasferendoli nel nostro bagaglio simbolico.

Ogni gruppo umano distingue, in base a prescrizioni religiose o igieniche, gli animali mangiabili da quelli immangiabili. Nelle società primitive basate su un’economia predatoria (dove dunque il cibo principale era la carne), anche l’uomo veniva considerato un animale, pur se di rango elevatissimo; per tale motivo la carne umana era ritenuta un cibo superiore, assai prelibato.(3)

In epoca preistorica e nelle fasi primitive di ogni civiltà, le pratiche cannibaliche erano ristrette alla sfera rituale: l’essere umano veniva sacrificato e mangiato solo singolarmente, in occasioni rituali e per motivi religiosi. Lo stretto legame tra antropofagia (anche nelle sue forme limitate a specifiche parti del corpo umano: cuore, fegato, cervello, mano, ecc.) e religione, ha la sua ragion d’essere nei due scopi essenziali del cannibalismo rilevati dagli antropologi: da un lato, appropriarsi delle forze superiori dei nemici uccisi (eso-cannibalismo, praticato nei confronti di uomini estranei al gruppo di appartenenza); dall’altro, trattenere attraverso l’ingestione del corpo di un membro del gruppo di appartenenza quelle energie superiori che altrimenti andrebbero perdute (endo-cannibalismo o cannibalismo funerario, praticato anche nei confronti di parenti stretti)(4). In epoche remote tale sistema di regole rituali metteva il gruppo in grado di limitare e disciplinare, oltre alla frequenza, anche la violenza connessa a queste pratiche.

L’uomo era, all’inizio della sua evoluzione storico-culturale, e seppur in casi determinati, ‘buono’ da mangiare. La civiltà ha sostituito gradualmente all’organizzazione sociale basata sulla caccia e sullo scontro fra piccole tribù, un’organizzazione sempre più complessa, favorita dallo sviluppo di un’economia agricola stabile, legata alle stagioni e ai cicli naturali. Le pratiche cannibaliche vengono così relegate sullo sfondo, e proibite come qualcosa di appartenente alla barbarie primitiva. Con il progredire del divieto di mangiare carne umana e con il raffinamento del gusto nelle culture più avanzate, crescono parallelamente anche l’orrore ed il ribrezzo per questo cibo: la carne umana si trasforma lentamente in uno dei tabù più forti dell’uomo, un tabù la cui forza è paragonabile solo a quella del tabù dell’incesto. Entrambi divengono il fondamento elementare ed indispensabile di ogni convivenza pacifica e di ogni forma stabile di organizzazione sociale(5). La violenza che esplode nel cannibalismo sembra essere il terribile retaggio di un’età ormai scomparsa e superata dalla civiltà, ricacciata nel mito, nella leggenda o nella follia (cioè nelle fauci di Hannibal Lecter). Ma non è esattamente così.



2. Contro-filosofia della carne


2.1 Il processo di distruzione che chiamiamo ‘alimentazione’ viene normalmente realizzato, dagli uomini civili, ai danni di alcune specie animali e vegetali, linguisticamente definite e distinte dall’umano, ma il principio originario che lo domina, ed i significati che lo rendono analizzabile, vanno riferiti più rigorosamente al contatto violento fra corpo e corpo, ed al fatto che, nel racconto mitico come nell’esperienza più banale (cfr. l’ingestione di un cibo o di un farmaco a cui si risulta allergici), ogni metamorfosi incontrollabile è connessa all’ingestione di qualcosa di ‘strano’ e di ‘magico’.

Nel corso dell’evoluzione, l’uomo ha cercato di delimitare i confini della propria identità individuale, poiché questa è stata sempre percepita come qualcosa di precario, minacciato da forze avverse. Con lo sviluppo delle facoltà razionali, l’uomo ha tentato di distinguere sempre più rigorosamente tra ‘io’ e ‘altro’, e il linguaggio sociogenetico ha finito coll’assegnare a ciascun individuo un’identità unitaria, fondata sulla chiara coscienza di sé e sulla percezione immediata, sicura, del proprio corpo. Così, combattendo una lunga battaglia, l’uomo ha tentato di sottrarsi all’angoscia di perdere la propria identità, di cambiare improvvisamente forma, di smarrirsi nel caos della natura primordiale, di veder svanire insomma i netti contorni del suo essere individuale, del suo stesso corpo, in preda ad entità estranee e minacciose. A quest’angoscia si affianca tuttavia il desiderio, spesso nascosto, di sbarazzarsi della propria identità, di perdersi in un’entità immensamente grande; un’esperienza che può coincidere a volte con la morte dell’io, a volte con l’adesione ad un essere divino. Un terzo impulso è quello, apparentemente contrario alle caute norme della ragione, di incorporare violentemente l’estraneo, obbedendo ad istinti che sembrano totalmente svincolati dall’intelletto e dal sano buon senso. Mangiare significa trasformarsi: la paura di perdere la propria forma è inseparabile dal piacere di sottomettere il diverso, il raccapricciante e l’ignoto, divorandolo, riducendolo al non-essere.

Al di sotto della ragione, agiscono dunque forze avverse allo stabilimento di netti confini per il proprio corpo e, di conseguenza, pericolose per la propria identità psichica. L’essere umano cerca di differenziarsi dal mondo animale e vegetale, ponendo il proprio corpo ad un livello superiore, astratto, fino a renderlo indivisibile ed intoccabile. Tuttavia tale operazione non è né facile né irreversibile. I confini che gli uomini cercano di dare a se stessi come corpi delimitati nascondono infatti rapporti di potere e di ostilità fra i corpi stessi: spesso si riesce ad affermare come corpo proprio e autonomo, solo quello che s’impone con forza sugli altri, che si mostra più potente di loro – perchè capace di mangiarli. Da questo punto di vista, il corpo di un essere umano resta sempre un potenziale cibo per un altro essere umano, in tutto simile al pezzo di manzo che abbiamo nel piatto davanti a noi, anche quando è stato ormai dichiarato ‘cattivo’ da mangiare, e in quanto cibo potenziale esso non ha un’identità da rispettare.


2.2 Gli impulsi generati dal nostro corpo hanno un carattere assolutamente auto-conservativo, e di conseguenza ostile verso tutto ciò che all’esterno, nell’Umwelt, ne minaccia l’auto-conservazione. Il più forte degli impulsi diretti all’auto-conservazione, e quindi all’affermazione di sé rispetto al mondo esterno, è la fame; a partire da esso si genera la necessità di ‘incorporare’ qualcosa di diverso dal proprio corpo; una volta che lo si è fatto, si ristabilisce la situazione originaria di benessere e di potenza. Ogni volta che mangiamo ci difendiamo dalla morte, e continuiamo a fare esperienza diretta e particolare del nostro corpo come fonte di identità per mezzo della distruzione: io ‘sono’ il mio corpo, non ‘ho’ semplicemente ‘un’ corpo; ho dei confini in cui arroccarmi, ma questi confini non impediscono che qualcosa diventi parte del mio corpo; anzi, la mia identità di vivente permane nel tempo solo in questo modo. Mentre l’unità immaginaria dell’io è frutto di una mediazione speculare (Lacan), i contorni parziali dell’io vengono definiti a partire dall’immediatezza tattile, pre-eidetica e precaria, dell’esperienza corporea individuale (= io sono proprio questo corpo, e soltanto questo, con queste mani, questa faccia, questa bocca, questa voce, ecc.), ma essa viene altrettanto immediatamente intaccata dalla realtà del nutrimento (= io sono anche ciò che mangio, ‘me stesso’, le mie mani, il mio corpo vivo, è il risultato di questa azione continua). L’economia del nutrimento, sprofondata nel registro del reale, governa la relazione interno-esterno, io-altro, secondo una logica di incorporazione identaria. Essa crea un rapporto processuale, un nesso a spirale, tra il mio corpo e il mio io, da un lato, e tra il mio corpo e i corpi di cui mi nutro, dall’altro. L’inizio di tale processo è immemoriale, inconscio, anteriore alla mia nascita: comincia nel ventre materno, perchè il primo corpo di cui mi sono nutrito/a è mia madre.

La connessione tra identità e nutrimento deve sbarazzarsi dell’idea che l’identità è una, che è mia, che è un valore assoluto ed una condizione statica dell’essere umano. I corpi sono letteralmente fatti – nutriti – di altri corpi, e il modo più semplice di affermare il proprio potere sull’‘altro’ è quello di incorporarselo. Il corpo vivo si mantiene tale ‘divenendo’ altri corpi: li distrugge come corpi individuali, ovvero come identità. Il nostro linguaggio riflette sempre questo processo.

Il linguaggio del cibo costituisce l’orizzonte originario e sempre rinnovantesi del mio rapporto col mondo esterno. In questo orizzonte, ogni corpo vivente (Leib) che entra nel mio raggio di azione (come oggetto di conoscenza, di odio o di desiderio), viene deformato dalla spirale io-corpo, e quindi, inconsciamente, percepito come cibo potenziale. Se la delimitazione rigorosa e razionale – per non dire privata e borghese – dei confini del corpo è solo superficiale, secondaria, l’esperienza del proprio corpo implica l’esperienza degli altri corpi, l’ingresso in una dimensione comune, nella quale ogni corpo è cibo per l’altro. Questa dimensione non è pacifica nè idilliaca: la sua ‘comunità’ non è affatto tranquilla e tanto meno fantasmatica. I nostri ‘io’ sono, per così dire, incapsulati in un corpo-che-mangia, ed ogni corpo si rapporta agli altri in termini di differenza (qualitativa e quantitativa) e di potere. Il linguaggio che usiamo comunemente (come metafora, e in particolare come metafora del nutrimento) entra così al servizio di un sistema di comparazione tra corpi e tra identità individuali. Espressioni frequentissime nel linguaggio quotidiano, come “ti mangio”, “lo mangerei”, “se potessi lo farei a pezzi”, ecc., significano: ‘ti desidero’, oppure: ‘sono più forte di te - o di lui’, ‘ti voglio – o lo voglio – sottomettere, incorporare’, ecc. La differenza fra io e altro, fra io e tu, va riconsiderata dunque nei termini di uno scontro fra identità e nutrimento che ibrida il linguaggio e le funzioni del corpo, prim’ancora che questo corpo sia definito ‘umano’.

Lo scopo originario del cannibalismo, e dell’atteggiamento psicologico che da esso deriva, è quello di introiettare, di incorporare l’alterità, per cancellare la minaccia che essa rappresenta o, viceversa, il desiderio inestinguibile che essa suscita. La fame, infatti, è un impulso essenzialmente ambiguo, come la pratica metaforica che la simboleggia nella nostra cultura. Sia come impulso biologico, sia come fonte di metafore, la fame dell’altro implica però un’ammissione: non si può fare, e neppure pensare, come se l’altro non ci fosse. Bisogna dunque riconoscere il carattere difensivo e allo stesso tempo aggressivo del cannibalismo. Questo carattere implica una relazione di dipendenza affettiva fra i corpi psichici, fra i corpi viventi. La dipendenza dal cibo equivale cioè, sul piano psichico, alla dipendenza dall’altro. Ma quanto più forte è questa dipendenza, tanto più forte è la sua negazione. La negazione del corpo vivo dell’altro, cui sembra portare il potere della mente, è perciò uno dei due aspetti essenziali del cannibalismo, a cui, sul piano del linguaggio, il solipsismo filosofico(6) è straordinariamente vicino.


2.3 L’uomo è andato molto avanti nel sottrarsi al pericolo di diventare cibo esorcizzando la violenza legata all’atto della nutrizione. Consapevoli del rischio implicito in ogni assunzione di cibo e in ogni caccia al cibo (perché il cacciatore può a sua volta diventare preda), abbiamo elaborato una serie di linguaggi in grado di ‘rappresentare’ – e dunque di mettere a distanza – il contatto fra corpi e dunque l’atto dell’incorporare. I linguaggi con cui l’uomo riproduce, elabora o maschera il processo della nutrizione hanno acquistato, attraverso i secoli, una dimensione inconscia e a volte inconfessabile. Nell’architettura, il ricordo di esperienze di divoramento appartenenti alla specie umana nel suo complesso, è rintracciabile nella somiglianza tra fauci e prigioni (o camere di tortura). La necessità di ridurre al minimo l’aggressività durante il pasto in comune, ha invece portato all’usanza tipicamente occidentale di mangiare con la bocca chiusa. La vergogna di fronte al frutto della propria voracità ha imposto la necessità di isolarsi al momento della deiezione:


I denti sono le guardie armate della bocca. Quale spazio angusto, essa è il prototipo della prigione. Ciò che vi penetra è perduto, e spesso vi penetrano creature ancora vive [...] Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento. [La digestione] rivela perfettamente il fondamentale, ma anche più nascosto, meccanismo del potere. Si tratta di un processo così naturale, così spontaneo ed estraneo alla coscienza, che se ne sottovaluta l’importanza... Gli escrementi, che rimangono al termine del processo, sono carichi del nostro reato... Ci si libera dei propri in locali particolari, che servono solo a ciò; l’istante più privato è quello della deiezione.(7)


Ogni volta che l’alimentazione e le sue conseguenze rivelano la violenza insita nell’atto dell’incorporare e del digerire, gli uomini civili trovano il modo di rimuovere la percezione di questo ‘crimine’. Essi devono così neutralizzare la sensazione di essere preda potenziale per il proprio simile, al posto del cibo che viene masticato ed assimilato con il consenso sociale. Poiché ciò che viene mangiato viene anche “sfruttato” dal corpo, il processo della nutrizione resta profondamente affine a quello del potere esercitato dal sovrano sul suddito. L’essere umano prova un godimento speciale nello sfruttare il suo simile, nell’assoggettarsi le sue forze vitali e nello spremerne il succo fino all’ultimo: nel rapporto che lega il padrone al suo schiavo, è “evidente il rapporto fra digestione e potere”(8). Spesso tra i primitivi il capo è anche colui che è in grado di mangiare le più grosse quantità di cibo: il “gran mangiatore”. Per il medesimo motivo, i potenti si esibiscono in grandi abbuffate che costituiscono, nello stesso tempo, una distruzione dimostrativa di cibo in sovrappiù(9) ed una minaccia per i subordinati, i quali sanno che in ogni momento potrebbero – più o meno metaforicamente – finire sulla tavola dei loro signori.(10)

Questa condizione di ‘preda’ del suddito, o comunque dell’inferiore, del dipendente, si rivela istantaneamente, secondo Canetti, in un fenomeno sociale assai banale: quando un uomo cade a terra e i presenti ridono, essi mostrano i denti come iene davanti ad una preda che si trova a portata di mano senza nessuno sforzo o premeditazione. Il riso costituisce in tal caso una liberazione di energie psichiche originariamente aggressive, alle quali la società proibisce di scatenarsi realmente; esse vengono perciò rese innocue attraverso la scarica della risata, mentre colui che la provoca è vittima dell’aggressione ‘comica’ – egli è la preda di turno, in una momentanea sospensione dei seri codici della convivenza borghese. L’uomo civilizzato dimostra di essere in grado di proibirsi il piacere reale dell’incorporamento, e lo simboleggia attraverso il riso, cioè con una forma più raffinata di godimento: “si ride invece di divorare. Il cibo sfuggito [alle iene, ma rifiutato dall’uomo] è ciò che suscita il riso: è la subitanea sensazione di superiorità, come già disse Hobbes”(11). Questo principio comparativo di realtà, che è anche una forma di mediazione (in quanto si proibisce il godimento immediato del cannibalismo), è alla base di ogni convivenza sociale, la quale, proprio per tale motivo, conferisce al riso una funzione eminentemente rassicurante, trasformandola in un segno di distensione e di pace. Nel riso l’ambivalenza dell’oralità umana, il suo essere profondamente intrisa d’amore e di odio, manifesta forse la sua più inquietante potenza.



3. Freud e le larve di Witchetty


3.1 Per comprendere il significato del cannibalismo sia come pratica rituale, che come atteggiamento psicologico, che come pratica metaforica, bisogna rinunciare al desiderio aristocratico dell’uomo, di distinguere fra sé e ciò che gli è inferiore, fra ciò che ha coscienza e ciò che non ne ha, e bisogna viceversa partire dall’idea che non esistono né possono esistere confini precisi, descrivibili e irreversibili tra corpo e corpo, tra io e altro, tra uomo e animale. La possibilità di distinzione gerarchica fra diversi esseri umani, oppure fra uomo e animale, dev’essere radicalmente riformulata per riuscire a illuminare la relazione fra uomo e animale, fra uomo e pianta, e fra uomo e uomo, dal punto di vista del potere, per cogliere l’equivalenza di ogni corpo – umano, animale o vegetale – come cibo, cioè come oggetto di potere. La connessione fra identità e nutrimento viene così ad assumere un nuovo significato, muovendo da uno stadio in cui non c’era e non c’è distinzione tra uomo e animale, tra corpo e corpo, perché è solo in seguito a questa distinzione, che il cannibalismo può diventare, com’è diventato, un tabù ed un crimine per la maggior parte delle civiltà.

Lo stadio in cui non c’era, o non c’è una netta distinzione fra uomo e animale, è quello del totemismo. La parola totem è stata introdotta nel vocabolario scientifico occidentale nel secolo XIX; viene dall’algonchino degli indiani Ojibura ‘ototeman’, “egli è della mia parentela”. ‘Egli’ è sia l’uomo membro del clan, che l’animale con cui il clan si identifica. Entrambi sono ‘fratelli’, consanguinei di colui che fa parte del clan. Per l’animale totem vige quindi in forma ristretta il principio indù del “tu sei questo”. L’identità non è qualcosa di assolutamente individuale, ma solo un’apparenza, al di sotto della quale l’uomo partecipa alla stessa essenza di altri esseri. Non esiste un essere individuale separato, anche dal punto di vista temporale, dal Tutto: l’essere singolo è soltanto forma esteriore e manifestazione fuggevole, “ombra” del Tutto. Nel totemismo, però, il Tutto non è Atman, l’anima dell’universo, il suo spirito universale, ma si restringe al clan totemico: nel clan si gioca la possibilità dell’identificazione dell’individuo con il Tutto.(12)

L’antropologo Reinach raccolse, intorno al 1900, alcune regole dell’organizzazione totemica, di cui si sarebbe servito Freud per formulare la sua celebre ipotesi sul significato del pasto totemico. Secondo le regole osservate da Reinach, è proibito sia uccidere che cibarsi di determinati animali, di cui gli uomini si prendono cura; se uno di essi muore, o dev’essere necessariamente ucciso, riceve una sepoltura del tutto simile a quella di un membro del clan e gli si chiede perdono. Il divieto di cibarsi dell’animale o di una sua parte (poiché la parte vale per il tutto: metonimia cannibalica), può essere infranto solo in alcune occasioni rituali, durante le quali esso viene pianto solennemente.(13)

Com’è noto, Freud vide nel totemismo un’organizzazione sociale e parentale derivante da, e fondante la, interdizione edipica: la proibizione relativa all’animale totem sarebbe il frutto di una rimozione del pasto originario, durante il quale l’orda dei fratelli, dopo averlo abbattuto, mangiò il Padre, che vietava loro di avere rapporti sessuali con le donne dell’orda. Il senso di colpa generato da questo remoto assassinio è per Freud all’origine della divinizzazione dell’Antenato-Padre; lo spirito di costui si trasferisce nell’animale totem, che viene conseguentemente proibito come cibo, ma col quale i membri dell’orda – divenuta clan, gruppo, tribù – si identificano.(14)

L’uccisione e l’assunzione rituale dell’animale totem rinnova l’assassinio del Padre: è perciò fatta oggetto di un tabù, che nasconde un antico desiderio di distruzione, alimentato dall’odio contro il Padre; il lamento sull’animale ucciso equivale al tentativo di alleviare il senso di colpa, e, più concretamente, la collera dello spirito offeso dell’Antenato-Padre. Nutrirsi dell’Antenato è stata infatti la condizione preliminare per guadagnare la propria identità umana e sociale. Incorporando il Padre, l’orda dei fratelli ne ha incorporato la superiorità e la forza (endocannibalismo, ma anche, in quanto il Padre era un nemico, esocannibalismo): ha ottenuto la propria identità sulla base di un nutrimento che è, allo stesso tempo, una metamorfosi.

I membri del clan, eredi dei fratelli assassini, hanno regolato i rapporti sessuali all’interno del gruppo ristabilendo una serie di divieti, il più forte dei quali è quello dell’incesto. Non possono unirsi a consanguinei, così come non possono cibarsi di un animale che è insieme loro padre e loro fratello. L’identità è guadagnata in virtù di un senso di colpa legato al nutrimento. E in quest’idea di nutrimento rientra anche il contatto sessuale tra madre e figlio, o tra fratello e sorella. L’atto cannibalico originario, col quale i fratelli dell’orda hanno abbattuto il Padre e si sono uniti alla madre, è al contempo un atto sessuale ed un’affermazione di identità, un’introiezione identificante; per mantenere nel tempo questa identità, essi sono però costretti a vietarsi il contatto con la madre. Tale contatto rappresenta infatti, paradossalmente, una minaccia di perdita dell’identità autonoma, la tentazione di un ritorno all’indistinto, senza contorni netti e definiti tra ‘io’ e ‘altro’, fra umano e non-umano, fra me e non-me: nella mentalità primitiva, la copula è una vera e propria metamorfosi.


3.2 L’organizzazione che abbiamo descritto corrisponde complessivamente ad una fase del totemismo, che ha già superato ciò che Canetti definisce “cannibalismo totemico”. In questa fase più antica, registrata ad esempio in alcuni miti degli Aranda (Australia centrale)(15), vigono tre principi apparentemente lontani dall’ipotesi freudiana, in quanto non vi compare alcuna figura femminile. Essi sono viceversa completamente dominati dal cibo.

Il primo mito è quello degli opossum.


In principio tutto giaceva nelle tenebre eterne.... L’antenato – si chiamava Karora – giaceva in sonno nella notte continua... La terra sopra di lui era rossa di fiori e ricoperta di mille erbe, e un grande palo oscillava sopra di lui, in alto... Alla sua radice stava il capo di Karora. Di là il palo saliva verso il cielo come se dovesse forarne la volta. Era una creatura viva, ricoperta di pelle liscia simile alla pelle dell’uomo... Karora pensava: desideri e voglie attraversavano la sua testa. D’improvviso, dal suo ombelico e dalle ascelle vennero fuori gli opossum... E allora incominciò ad albeggiare. L’antenato si alzò e provò fame giacché le forze magiche erano defluite dal suo corpo. Nel suo stordimento, egli tasta intorno a sé e si sente circondato da una massa di opossum che si muovono. Molto affamato, afferra due giovani opossum. Li cuoce un po’ più lontano... Dopo aver quietato la fame... l’antenato cade in sonno... mentre egli dorme, dalle sue ascelle affiora qualcosa che ha la forma di un legno ronzante (Schwirrholz). La cosa assume poi aspetto umano e in una sola notte cresce tanto da diventare un adolescente: è il figlio primogenito di Karora... Ora il padre manda il figlio ad uccidere qualche altro opossum. Gli animali giocano tranquillamente là vicino, nell’ombra. Il figlio li porta al padre che li cuoce nella terra arroventata dal sole; poi, padre e figlio se ne spartiscono le carni. Scende la sera, e ambedue si addormentano. Quella notte, altri due figli nascono dall’ascella del padre... Questa vicenda si ripete per molti giorni e notti... ben presto il padre e i figli, ormai molto numerosi, hanno consumato tutti gli opossum nati originariamente dal corpo di Karora... Sono affamati, e allora il padre manda i figli ad una caccia destinata a durare tre giorni... Ma nella selva non c’è nessun opossum, ed essi devono tornare indietro.(16)


Il secondo mito è quello delle larve di Witchetty:


Al tempo dei primordi un vecchio giaceva in profondo sonno, ai piedi di un cespuglio colmo di larve di Witchetty... Mentre egli si cullava nel suo eterno sopore, le larve bianche strisciavano sopra di lui... si infilavano dentro il suo corpo. Egli non si risvegliava. Poi, una notte, mentre il vecchio dormiva appoggiato al braccio destro, qualcosa spuntò fuori dalla sua ascella destra: qualcosa che aveva la forma di una larva. Cadde al suolo, assunse aspetto umano, e crebbe rapidamente. Al mattino il vecchio aprì gli occhi e, pieno di stupore, vide il suo figlio primogenito(17).


Tanto gli opossum quanto le larve sono massa. Sono una massa metamorfica di cibo che, come tale, si confonde con il corpo dell’antenato-padre. Canetti, che riporta il mito di Witchetty raccolto da Strehlow, osserva che in tal modo nacquero “un nugolo di uomini. Il loro padre non si muoveva... Egli rifiutava anche ogni cibo che i figli gli porgevano. I figli però si davano da fare per estrarre dalle radici del cespuglio le larve di Witchetty, le arrostivano e le mangiavano. Talvolta sentivano essi stessi il desiderio di tornare ad essere larve. Allora cantavano una formula magica, si trasformavano in larve e si annidavano di nuovo tra le radici del cespuglio. Di là risalivano poi alla superficie e riassumevano forma umana”(18). Secondo Strehlow, “l’antenato rappresenta la somma complessiva dell’essenza vitale delle larve di Witchetty, dell’essenza animale e di quella umana considerate come un tutto unico”.(19)

L’antenato-padre, nel mito degli opossum, genera in modo asessuato, indifferentemente, uomini e animali-totem, suoi figli; questo processo è governato da un principio che Canetti definisce “accrescimento di sé”. Ma, poiché i figli generati dall’antenato si nutrono esclusivamente degli animali, anch’essi da lui generati in quantità limitata, e quindi loro fratelli, Canetti chiama il processo che porta alla sparizione del cibo totemico “consumo di sé”. Si tratta di un’economia alimentare chiusa, nella quale il corpo dell’antenato si moltiplica in figli, uomini e animali, e si autodistrugge attraverso la nutrizione reciproca dei fratelli, che sono parti di lui: “l’antenato sembra da questo punto di vista nutrirsi di se stesso”. L’identità non è singolare, e non è limitata alla forma umana: uomini e animali sono la medesima cosa e partecipano della medesima essenza vitale, che è costituita dal nutrimento. L’atto della nutrizione non è un atto di distruzione, ma di identificazione psichica tra sé e ciò che si mangia. Non vi è nessun senso di colpa, ma solo l’esaurimento progressivo di sé attraverso il consumo del cibo.

Il terzo, e più importante principio del cannibalismo totemico è quello della metamorfosi: gli uomini possono trasformarsi nell’animale totem e questi può assumere forma umana, senza che ciò sia regolato da alcuna Legge, ma solo dal fatto che ognuno è cibo per l’altro. Questa “ben determinata metamorfosi” non suscita orrore e non determina confusione, perché è profondamente connessa all’accrescimento di sé e della comunità di cui si fa parte, e nel contempo impedisce che si stabilizzino i confini tra corpo e corpo, fra uomo e animale: qui l’idea di “cambiare forma” non genera angoscia e non respinge, ma addirittura rafforza il principio dell’identità. La reciprocità e la parentela dunque non proibiscono, ma anzi sono all’origine del cannibalismo totemico, sulla base di un’indistinzione metamorfica fra uomo e animale: si diventa ciò che si mangia, ci si trasforma nel proprio cibo.

In una variante del mito delle larve di Witchetty, si racconta di un padre che va a caccia di figli dall’aspetto umano. Dopo essere stati divorati essi si trasformano in larve, “le quali divorano dall’interno il loro stesso padre”(20). In questo caso la metamorfosi è ancora più chiaramente la chiave della reciprocità, perché implica l’impossibilità di cancellare definitivamente, con il corpo, l’identità di ciò che viene mangiato. La trasformazione in larve, “la quale serve a provar piacere della carne del padre”, diviene un paradossale mezzo di conservazione dell’identità, che permette inoltre l’atto del nutrirsi sia come amore che come vendetta. L’indistinzione tra l’uomo e l’animale, che comporta una cancellazione dei confini fra corpo e corpo, giunge persino a negare la differenza tra la morte e la vita, differenza sulla quale si dovrebbe fondare, secondo il nostro (occidentale) modo di pensare, l’identità di ogni individuo. L’individuo non può mai definitivamente morire, ma solo trasformarsi attraverso la coercizione del nutrimento.

Nello Shatapatha Brahmana (21), nota Canetti, si legge: “Nell’altro mondo l’uomo verrà mangiato da ciò che mangia in questo mondo”; il principio del “capovolgimento” è reso possibile dal ‘ricordo’ della violenza subita dal corpo, quale si trova espresso nella parola sanscrita mamsa, carne. La prima sillaba, mam, significa ‘me’; la seconda, sa, ‘egli’: “nell’aldilà egli, di cui ho mangiato la carne, mangerà me(22). La morte, dunque, non è una distruzione definitiva, perché l’identità possiede i caratteri della molteplicità corporea, contraddicendo i nostri abituali schemi logici. La distinzione fra vivo e morto, fra umano e non-umano, resta così al di qua della distinzione, assolutamente originaria, fra cibo e non-cibo.


3.3 L’organizzazione sociale, i divieti osservati dagli studiosi (e interpretati da Freud in chiave psicoanalitica) nel corso degli ultimi due secoli, corrispondono secondo Canetti ad una fase recente del totemismo, in cui il principio del “riguardo” verso l’animale totem e verso i membri del clan, ha sostituito quello del “consumo di sé”, più che per rimuovere la colpa originaria nei confronti dell’Antenato, per garantire l’accrescimento del gruppo. L’interno del clan si delimita nella nuova fase come corpo sociale, sulla base dell’esclusione del totem come cibo; allo stesso modo si esclude il membro del clan come cibo, ma non il nemico appartenente ad un clan estraneo (esocannibalismo). L’atto violento viene cioè trasferito all’esterno, e ciò favorisce la coesione interna, la potenza del gruppo. La distinzione fra superiore ed inferiore, fra me ed altro, si ripresenta perciò nell’organizzazione totemica con un intento gerarchico e dominatore nei confronti del clan nemico.

In questa più recente fase del totemismo, l’affettività verso l’animale con cui ci s’identifica si esprime finalmente con il riguardo – Freud direbbe: con la rimozione – , e non più con l’impulso immediato ad incorporare, perché si finisce col legare l’accrescimento e la prosperità degli uomini all’accrescimento dell’animale totem, secondo i nostri schemi logici e secondo la nostra idea di convivenza sociale. L’economia alimentare diviene quindi aperta, si consumano cibi non totemici, e il significato della metamorfosi si conserva solo in forma rituale, come prova della ‘parentela’ che unisce l’uomo all’animale sacro. Quando ad esempio lo sciamano si trasforma nell’animale totem o lo invoca durante una cerimonia, mangiandone una parte, egli testimonia della possibilità di ritornare ad uno stadio in cui non vi è differenza tra uomo, animale totem e cibo. Si tratta di una pericolosa regressione, che perciò dev’essere limitata e iscritta in una forma cerimoniale segreta.



4. Il corpo di Cristo e la lingua dell’uomo


4.1 Come l’incesto, l’antropofagia rappresenta un ostacolo che è necessario rimuovere, respingere nell’inconscio, per entrare nella cultura, per guadagnare un’identità collettiva, ed infine un’autonomia individuale. Oggi il tabù è esteso dal membro dello stesso clan ad ogni membro della nostra specie: la carne umana, ormai, ci fa schifo. Siamo come gli dei della mitologia greca, che, divenuti ‘civili’, disdegnano la carne dei mortali umani, simbolo di un’età di orrori, priva di leggi, e preferiscono nutrirsi di dolce nettare e delicata ambrosia. Non esigono sacrifici umani, non sono assetati del sangue di giovani vittime. Dioniso, il dio della vite, viene invece fatto a pezzi e sbranato dalle Baccanti. Dioniso simboleggia un tempo, o meglio una dimensione dell’esperienza occidentale della carne, che scorre al di sotto della civiltà e della sua storia, sempre pronta a riemergere o a metamorfosarsi. La pratica rituale di mangiare un dio giunge infatti, profondamente trasformata, fino ai giorni nostri: è la chiave del cristianesimo sacerdotale e, insieme al lamento(23), della sua regressiva sopravvivenza postmoderna.

Nelle fasi arcaiche del loro sviluppo culturale e nelle forme più elementari di organizzazione sociale, gli uomini desiderano istintivamente accrescere se stessi e il loro cibo. Nel pasto collettivo dei primitivi (compiuto a seguito di azioni di caccia o come rito sacrificale volto alla fecondità), attraverso lo smembramento di un corpo, l’animale o l’uomo che fungono da cibo vengono messi in relazione con gli dei. Anche quando l’organizzazione totemica viene superata da altre forme di organizzazione sociale, le superiori qualità del cibo sono fonte, e simbolo, della compattezza e della forza del gruppo: “il rito dell’incorporarsi collettivo è la comunione”(24), una forma di accrescimento il cui scopo consiste nel procurare al gruppo un bene, reale o simbolico. Nutrirsi di ciò ch’è divino significa infatti propiziare il benessere del gruppo, e soprattutto divinizzarsi.

Il concetto di transustanziazione equivale dunque ad una specifica, estrema metamorfosi alimentare. La divinità assume le sembianze di un alimento, di una forma di pane(25): l’ostia consacrata è il corpo di un Dio che si è fatto uomo. Questo corpo si moltiplica, si trasforma a sua volta nel corpo del fedele, che partecipa così della grazia divina. Essa è l’ultimo, sublimato residuo dell’antico potere connesso all’incorporare, e della sensazione di piacere che ciò provoca, molto simile al piacere sessuale; l’amore verso il dio sacrificato resta così un elemento essenziale della comunione. Il principio che regola il totemismo arcaico e le religioni superiori sembra, in fondo, il medesimo. Tutto può diventare cibo, se ci si vuole appropriare delle sue qualità, corporee o spirituali: l’identità corporea e psichica si conserva solo grazie a questa violenza, più o meno sublimata, commessa verso chi è, sotto qualche punto di vista, desiderabile, sia esso animale, uomo o dio.

Ma nelle religioni monoteistiche si assiste ad un estremo processo di sublimazione del principio del cannibalismo. I fedeli mangiano il corpo di una divinità antropomorfa in forma rituale, in quanto desiderano ottenere l’immortalità, ossia la liberazione definitiva dal nesso corpo-cibo. Sono cioè in grado di considerare l’intera catena distruttiva della nutrizione come una serie di colpe, da cui l’individuo cerca di uscire attraverso il ricongiungimento alla propria ‘origine’ divina, a Dio. Tale origine sarebbe la vera identità, l’identità spirituale e universale (la massa energetica), a cui la catena, il cerchio infernale del nutrimento, sembra sbarrare l’accesso.

Nel cristianesimo questa tendenza alla scorporeizzazione è l’ultima tappa di un lungo cammino, che parte dall’idea di sacrificare un giovane deificato dalla comunità per rendere fertile la terra e accrescere il cibo, ma giunge infine ad attribuire al sacrificio dell’uomo-dio un significato completamente opposto a quello della fecondità, e definitivamente liberatorio. Nutrirsi dell’uomo-dio significa, in quest’ultima e raffinata fase della religione, liberarsi del nutrimento stesso, di ogni nutrimento materiale, e salvare così la propria identità individuale, l’‘anima’. La vittima sacrificale libera l’uomo dalla catena delle colpe legate al cibo, cioè lo redime da ogni forma di cannibalismo.

Cristo compie certo miracoli che rappresentano il desiderio di accrescimento e di prosperità del popolo(26), ma si offre anche, in un rito sacrificale, come nutrimento ai fedeli: ciò permette il rovesciamento completo dei riti legati alla fertilità, in un’anticipazione del regno dei cieli. L’eucaristia cristiana elabora insomma l’idea di una purificazione totale rispetto alla coazione legata all’atto del mangiare, all’ossessione del cibo e del corpo(27). Se tale elemento coattivo rappresenta il ‘peccato’ per eccellenza, ciò che perpetua il cerchio dei crimini e delle vendette, mangiando Cristo si interrompe invece la catena del mamsa, del ‘me-egli’, implicita nella carne. Mentre Dioniso o altre divinità pagane venivano divorate durante riti dedicati alla fecondità, il cristianesimo, proprio nel suo essere una religione della morte (del lamento su un morto che non smette mai di morire), ha cercato di purificare la corporeità da ogni violenza connessa alla conservazione della vita. Dell’idea primitiva che il sacrificio di un uomo giovane e robusto possa rendere fertile la terra e preservare il popolo dall’indebolimento, resta solo, nella religione cristiana, l’immagine vigorosa di Gesù e del suo sangue – un simbolo di vita eterna dello spirito, non del corpo.(28)

Se l’identificazione col Cristo moribondo passa per il cibo, il rischio è quello di cannibalizzare il divino. Sia l’accrescimento che lo smembramento della vittima comportano una sorta di moltiplicazione e di parcellizzazione del corpo del dio, che, entrando nel corpo dei fedeli, si trasforma in ‘altro’ pur conservando le sue qualità originarie – di carattere spirituale. La gioia che il fedele prova per aver mangiato il corpo del redentore indica che l’elemento erotico del cannibalismo tenta di rimuovere, di redimersi a sua volta dalla sua componente distruttiva, come anche il senso di colpa per aver smembrato, fatto a pezzi il corpo di Dio. La conseguenza dell’incorporamento è però la sparizione dell’‘altro’, la sua negazione definitiva. Non diversamente che nel totemismo, nel pasto sacro viene divinizzato aposteriori ciò che si è mangiato, in preda ad un inestinguibile senso di colpa; la sensazione di avere dentro di sé la divinità può trasformarsi nell’angoscia e nel terrore per aver contaminato – e quindi distrutto – ciò di cui non si è degni, oppure può dar luogo alla proiezione-introiezione dell’‘altro’ come negatività assoluta – come satana: la metamorfosi diventa possessione.


4.2 Nel libro del profeta Ezechiele, Dio comanda all’uomo di ingoiare i rotoli della Legge; mangiando la scrittura Ezechiele, che si rifiutava di obbedire al Signore, acquista la forza di profetizzare:

Mi disse: ‘Figlio dell’uomo, mangia ciò che hai davanti, mangia questo rotolo, poi va’ e parla alla casa d’Israele’. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo, dicendomi: ‘Figlio dell’uomo, tu nutri il ventre e riempi le viscere con questo che ti porgo’. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele.(29)


Qui l’atto del mangiare non è violento, anche se Dio lo impone quasi con violenza ad Ezechiele, che si è chiuso caparbiamente nel silenzio e si rifiuta di obbedirgli. Il rotolo non è un cibo come gli altri: nutrendosi del linguaggio divino, della sua forza e del suo potere, il profeta scopre che le parole che ha incorporato sono nettare per lo spirito, e la sua lingua finalmente si scioglie: egli comunica agli altri uomini la parola di Dio.

In altri termini, solo in virtù del linguaggio l’uomo può mettere a distanza il cannibalismo in tutte le sue sfumature, capovolgendo la violenza connessa all’incorporare in un atto di liberazione delle proprie forze psichiche: l’impulso viene rovesciato in ‘cultura’ e se ne trasferisce la voracità in una dimensione liberatoria. Il linguaggio è, proprio in quanto ‘cibo’ e strumento dello spirito, l’unica possibile salvezza dal cannibalismo. Solo con il linguaggio è infatti possibile aggirare la minaccia del solipsismo e valorizzare il principio della metamorfosi.

La lingua che dice ‘sì’ alla metamorfosi del nutrimento, vive attraverso la metamorfosi. Se l’impulso ad incorporare viene vissuto intensamente nella sfera del linguaggio, questa si trasforma in una sfera erotica. L’amante può incorporare con la parola l’oggetto del desiderio, senza distruggerlo e senza negarlo, a patto però che accetti la trasformazione di sé che ciò comporta a livello psichico, rinunciando quindi alla propria identità unitaria. Solo in questo caso, la lingua (come organo del corpo e manifestazione dello spirito) rispecchia la libertà dell’essere umano, e nutrirsi dell’altro acquista il senso di amare l’altro. Solo in questa dimensione, conferendo al corpo un carattere spirituale, ed allo spirito una forma corporea, la propria identità coincide pacificamente col nutrimento dell’altro. L’‘altro’ può darsi come nutrimento, e nutrirsi di noi, senza alimentare un meccanismo distruttivo.

Ciò comporta il capovolgimento dell’aspetto demoniaco dell’oralità, così evidente, ad esempio, nel vampirismo(30), ma anche il rovesciamento completo del solipsismo (cioè del cannibalismo filosofico). Grazie a tale rovesciamento l’identità viene lasciata intatta dal punto di vista dell’individuo, ma va incontro ad una trasformazione radicale e straordinaria dal punto di vista del potere. L’individuo deve in sostanza rendere compatibile con se stesso, deve sopportare, attraverso la parola, la corporeità e la diversità dell’altro. Solo in questo caso il linguaggio – primo fra tutti, quello letterario – appare radicalmente opposto al potere.

La scrittura è la più nobile forma di metamorfosi(31). Colui che trasforma il contatto fra corpi in un fatto linguistico, nega infatti il meccanismo dell’esclusione che regola il potere; egli è cioè in grado di trasformarsi, di rimando, in ciò di cui si nutre linguisticamente, senza negare se stesso e l’oggetto. In questo modo si possono inghiottire ‘eroticamente’ non solo persone, ma anche paesi, culture, eventi. Il linguaggio diventa la chiave d’accesso alle metamorfosi che arricchiscono la nostra identità. Solo se non si ha paura di ‘diventare altro’, si rinuncia a possedere l’‘altro’. Ma, come può accadere che l’altro possieda noi, vi è sempre il rischio del rigetto, dell’espulsione di ciò che prima era stato introiettato, sia esso un individuo, un popolo, un pensiero. Si può ritornare indietro in qualsiasi momento: usando la lingua come costruzione paranoica, l’uomo può erigere una fortezza intorno alla propria soggettività, che tenderà ad incorporare, questa volta distruttivamente, tutto ciò che è diverso e minaccioso, e ad espellere le presenze estranee. In questo caso la metamorfosi è bloccata, e rovesciata in appropriazione dell’altro. Il discorso del cannibale smette di essere quello dell’amante e dello scrittore per ridiventare discorso dell’Uno, monologo ossessivo e delirante, simile a quello del tiranno.





1 Ho qui ripreso, riducendolo e rielaborandolo, un mio saggio di dieci anni fa, Nutrirsi dell’altro. Viaggio antropologico nell’inconscio alimentare, contenuto nel volume di divulgazione scientifica L’albero della cuccagna. Il cibo e la mente, Cuen, Napoli 1997, pp. 93-166.

2 Cfr. E. Canetti, Massa e potere, in Id., Opere, a cura di G. Cusatelli, Bompiani, Milano 1990, vol. I, p. 1231.

3 L’uomo primitivo era un animale onnivoro, ma soprattutto predatore; la sua evoluzione fisica e cerebrale è stata possibile solo attraverso i vantaggi biologici di una dieta carnea. Cfr. M. Harris, Buono da mangiare, Einaudi, Torino 1992.

4 Vi è inoltre un meccanismo psicologico costante, che sta dietro l’impulso a nutrirsi del corpo umano: sia che si tratti di un membro esterno al gruppo, sia che si tratti di un suo membro, o di un condannato a morte, il fatto di essere ‘morti’ viene valutato ancora oggi dalla mentalità primitiva come un essere ‘nemici’, come un essere passati dall’altra parte: si diviene pertanto portatori di un pericolo da esorcizzare attraverso una pratica rituale.

5 I crimini relativi a tali tabù minano infatti alla radice la struttura sociale che si regge sulla distinzione tra me e altro, oppure tra parente (consanguineo) ed estraneo. Cfr. C. Levi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 1969. Per quanto riguarda invece la storia ‘politica’ del cannibalismo cfr., sempre di M. Harris, Cannibali e re, Milano, Feltrinelli 1988.

6 Da Cartesio in poi il soggetto razionale tende a ‘mangiare’ il suo corpo, a sottometterlo come qualcosa di inferiore rispetto alla mente, ad asservirlo come una macchina alla propria identità cosciente. Il corpo, spesso, si vendica. Una delle conseguenze estreme e più rilevanti del rafforzamento paranoico del soggetto è il solipsismo, il rischio cioè di escludere completamente gli altri corpi, considerandoli irreali. L’io degrada gli altri esseri umani ad oggetti inanimati, a macchine, a semplici cose, e infine a immagini di cose che vivono solo nella sua coscienza. Essi, sia come corpi che come menti, si riducono ad essere “ombre”: l’io resta come unica realtà ‘vera’, escludendo prima i corpi, e poi le menti degli altri individui, escludendo insomma la loro realtà di esseri viventi. Questo processo, che si vorrebbe al riparo dalla tirannide del nutrimento, in realtà la riproduce completamente nella sfera della logica, e all’interno del sé: invece di ‘mangiare’ il cibo – gli altri esseri – con la bocca, li si mangia – negandoli – con la ragione. Sul rischio solipsistico del soggettivismo idealistico-trascendentale rimando a Jean Paul, Clavis fichtiana seu leibgeberiana, Cronopio, Napoli 2003, e alla mia postfazione al testo, Fichte e il suo doppio: Jean Paul critico del solipsismo, pp. 105-135.

7 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1228.

8 Ivi, p. 1230.

9 Prescindendo da ciò che sappiamo sui banchetti della Roma antica, sulle corti medioevali e sulle gozzoviglie dell’ancièn règime, il resoconto più affascinante della distruzione di beni in forma rituale ci è stato lasciato da Franz Boas (The Social Organization and the Secret Societies of the Kwakiutl Indians, Washington 1897; Race, Language and Culture, New York 1920, pp.356-359; Kwakiutl Ethnography, a cura di H. Codere, Chicago 1967). Si tratta del potlatch, cerimonia durante la quale i capi kwakiutl (isola di Vancouver, America nord-occidentale) riuniti insieme al popolo, laceravano stoffe, bruciavano olio di pesce, gettavano in mare schiavi. Ruth Benedict vide in questo comportamento economicamente inspiegabile una sorta di ‘megalomania’ degli indiani (cfr. Patterns of culture, 1934, trad. it. Modelli di cultura, Feltrinelli, Milano, 1960): i capi usavano la donazione di beni per umiliare i rivali, e la loro distruzione per affermare la propria potenza. L’intepretazione batagliana, via Mauss, del potlach e l’elaborazione del concetto di dépense derivano da questa diseconomia radicale rilevata dalla Benedict. Gli antropologi di scuola marxista vedono invece nel potlatch originario (prima del contatto con i bianchi), scevro da ogni forma distruttiva, un metodo di ridistribuzione delle risorse abbondanti, ma occasionali, del territorio (soprattutto salmoni); essi interpretano la componente distruttiva del potlatch osservato da Boas tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, come una reazione alla riduzione allo spopolamento seguito al contatto con i bianchi, presenti nella zona dalla fine del Settecento (come tutti gli Amerindi, anche i kwakiutl non avevano difese organiche contro le malattie degli occidentali, e dovettero abbandonare l’attività bellica pur ricevendo armi da loro).

10 La borghesia occidentale ha ulteriormente sublimato il rapporto fra cibo e potere nell’immagine del pasto familiare e del pranzo in società. Qui domina, nonostante le apparenze, il principio dell’esclusione. Il rispetto reciproco fra coloro che mangiano insieme non significa solo “che essi non si mangeranno l’un l’altro” (E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1244), ma anche che mettono radicalmente fuori dalla mensa e dal loro privilegio tutti quelli che non vengono riconosciuti come aventi diritto al cibo – simbolo della loro forza e della loro unione. Essi possono così accogliere od espellere gli estranei attraverso il linguaggio del cibo, con una crudeltà ed un’efficacia quasi pari a quelle della distruzione fisica: “La famiglia diviene rigida e dura nell’escludere gli altri dal suo pasto; le persone di cui ci si deve preoccupare sono il più naturale pretesto per escludere gli altri [...] l’uomo sazio si imbatte senza alcuna emozione negli affamati” (E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 1246-47). Egli, spesso inconsciamente, gode della loro fame, nascondendo nella sua indifferenza un estremo potere sugli altri. Cfr. anche M. Douglas, Antropologia e simbolismo: religione, cibo e denaro nella vita sociale, Il Mulino, Bologna 1985.

11 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1248.

12 Sul totemismo cfr. il classico E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Ed. Comunità. Milano 1963.

13 Cfr. S. Reinach, Code du totèmisme, in Cultes, mythes et religions, Parigi 1905-1912, citato da Freud in Totem e tabù (1913), Boringhieri, Torino 1991.

14 Quest’assassinio non viene considerato da Freud un evento storico reale, ma un’ipotesi di spiegazione della struttura psichica dei primitivi, dei bambini, e dei fedeli appartenenti a religioni monoteistiche - segnatamente all’ebraismo. L’organizzazione psichica dei primitivi viene paragonata a quella dei bambini e dei nevrotici nella misura in cui il problema di Freud è comprendere i meccanismi di rimozione del desiderio incestuoso e della colpa nei confronti di un padre divinizzato. Sulla correlazione tra primitivismo e infanzia cfr. però M. Foucault, Il potere psichiatrico. Corso al Collège de France 1973-74, Feltrinelli, Milano 2004.

15 Cfr. T.H.G. Strehlow, Aranda Traditions, Melbourne, 1947, citato da Canetti in Massa e potere, cit., pp. 1410-1415. Tutte le citazioni che seguono sono tratte da queste pagine. Laddove è sembrato opportuno, viene indicato in nota il riferimento al testo di Strehlow utilizzato da Canetti.

16 Strehlow, op. cit., pp. 7-10.

17 Ivi, pp. 15-16.

18 Ibidem.

19 Strehlow, op. cit., p. 17.

20 Strehlow, op. cit., p.12.

21 Lo Shatapatha Brahmana è un antico trattato sacrificale indiano, che contiene anche il racconto del viaggio del veggente Bhrigu nell’aldilà. Lì egli vede animali, erbe e corsi d’acqua, tramutati in uomini, divorare gli uomini che nella vita se ne sono cibati. Queste leggende sono state raccolte da H. Lommel in Bhrigu in Jenseits, in “Paideuma”, vol. IV e V, Bamberg 1950-52, e utilizzate da Canetti in Massa e potere.

22 E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 1374-1376.

23 Per Canetti il cristianesimo, è, prima di tutto, una religione del lamento. Cfr. sprt. lo straordinario Epilogo di Massa e potere, cit. pp. 1532-1549.

24 E. Canetti, Massa e potere, cit., p. 1111.

25 Cfr. J. Frazer, Il ramo d’oro, Boringhieri, Torino 1973, p. 766: “La dottrina della transustanziazione, o trasformazione magica del pane in carne, era familiare [non solo agli Aztechi prima della conquista spagnola, ma] anche agli antichi Ariani dell’India, molto prima che fosse, non solo diffuso, ma persino apparso il Cristianesimo. I Bramini insegnavano che le focacce di riso offerte in sacrificio sostituivano esseri umani, e che si trasformavano di fatto in veri corpi umani per mezzo delle manipolazioni del sacerdote”.

26 La moltiplicazione dei pani è in Matteo, 14, 13-21, e 15, 32-39, e negli altri due sinottici; più suggestiva in Giovanni, 6, 1-15. Le nozze di Cana sono in Giovanni, 2, 1-12. Sul digiuno secondo Cristo, vedi Matteo, 9, 14-16, Luca, 5, 33-39, e Marco, 2, 18-22; per le parabole legate al cibo, Matteo 13, Marco 4, Luca, 8.

27 Sia i cristiani che i fedeli di altre religioni, quando mangiano simbolicamente il corpo della divinità non devono toccare altro cibo o bere, per non contaminarlo con sostanze impure. Sul rito della comunione presso gli Aztechi, cfr. ad es. J. Frazer, Il ramo d'oro, cit., vol. II, pp. 764 e sg.

28 Simile ad un giovane re-sacerdote, secondo la ben nota interpretazione di Frazer, egli viene rappresentato come un uomo sui trent’anni, alto, dai lineamenti nobili e decisi, nel pieno delle forze, o, nell’iconografia bizantina, addirittura adolescente e imberbe. Il suo sacrificio giunge cioè quando egli è al massimo della sua forza vitale, che rimane intatta e incontaminata, senza venir dispersa, fino alla morte, e siprattutto durante la morte – nella iconografica, reiterabile eternità della Passione.

29 Ezechiele, 3, 1-3.

30 Il mito del vampiro, che esce dalla tomba per nutrisi del sangue delle sue vittime, è presente in quasi tutte le culture e fin dall’antichità: documenti che attestano la credenza nei vampiri sono stati trovati presso i cinesi, i babilonesi, i caldei, gli assiri, gli egiziani, su su fino alle leggende dell’Europa centrale. Il vampirismo s’impone come la rappresentazione più ricorrente della compresenza di sessualità e distruttività, di affettività e aggressività, nella pulsione orale: il sangue, che il vampiro beve, è segno di morte e di vita allo stesso tempo. Mentre nel rapporto madre-neonato, altrettanto diffuso nelle nostre immagini ricorrenti, predomina l’aspetto rassicurante, fusionale, dell’affettività (si tratta di una reciprocità perfetta: la madre si fa nutrimento per il figlio, che la ‘mangia’ attraverso il seno; il bambino viene mangiato dalla madre, che lo sente parte di sé, non si stanca di stringerlo a sé, di baciarlo, di mordicchiarlo), nel contatto violento fra il vampiro e la sua vittima questa si offre inconsapevolmente come nutrimento, e il vampiro, che morde la carne viva, usa la sessualità per mascherare il suo potere mortifero. Si tratta di introiettare, di incorporare, distruggendolo, il corpo di cui si desidera l’essenza, e poiché il piacere dell’incorporare è di natura sessuale, accade anche l’inverso: che l’atto sessuale, rovesciando la sua valenza metamorfica, si trasformi in un atto di distruzione.

31 Su ciò cfr. E. Canetti, Massa e potere, cit., pp. 1316-1318.


   






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