numero
7
KAINOS
2007
sommario : redazione : in calendario : mailing list
La
fame come condizione della mente
di Roberto Caracci
1. Fenomenologia della percezione dell’affamato
Per Knut Hamsun la fame è uno stato allucinatorio. Una condizione che muta la percezione del mondo. La realtà agli occhi dell’affamato risulta al tempo stesso più caotica e più limpida. La fame è come una febbre, uno stato alterato della coscienza. La realtà attorno a te non è più quella di prima, è un po’ di meno e un po’ di più di quella che è: è una ipo-realtà e una iper-realtà. É una realtà a macchia di leopardo, ma che colpisce i tuoi sensi come la tavolozza di un pittore impressionista, e nel contempo è una realtà al quadrato, duplicata, marcata, dai contorni ipertrofici, come quella che emergerebbe da una rappresentazione espressionistica. Il protagonista di Fame vaga per le strade della sua città con una libertà claunesca ed ebbra. Le cose attorno vengono sfiorate, carezzate, trasvolate, come in una dimensione onirica. La fame lo porta a ipo-vedere e a iper-vedere la realtà: a sorvolare su aspetti evidenti e madornali, e a concentrarsi su aspetti marginali, che vengono amplificati come da una lente di ingrandimento. L’esperienza si atrofizza e si ipertrofizza, insieme a una realtà che si sgonfia e si gonfia con il respiro di un mantice. Una sorta di febbrile volontà di potenza, come quella che spesso attraversa i sogni, fa della realtà qualcosa di plasmabile, di trasformabile, di utilizzabile magicamente. Gli oggetti, come le persone, vengono vissuti o come troppo vicini – con caratteristiche dunque ipertrofico-espressionistiche –, o troppo lontani, con caratteristiche al contrario di nebuloso impressionismo, se non di velato surrealismo. Il protagonista, spinto dalla grande Fame, più che vedere, intra-vede e stravede, entra nelle fibre del reale con lo sguardo di un bambino inquisitorio, e insieme fuoriesce a piacimento dalla realtà stessa, con la libertà del volo, del disincanto e della distanza. Uno sguardo che dunque non mantiene mai il reale davanti a sé alla distanza giusta, nella corretta oggettiva forma di rappresentazione. Tutto è osservato con la lente della miopia e con quella opposta della presbiopia: il vicino appare lontano e viceversa. É la Fame a operare questo miracolo visivo e generalmente percettivo. Il mondo visto da questa ottica miope-presbite si avvicina e si allontana, ma senza più alcuna oggettività solidità e autonomia, nessuna sicurezza e indipendenza: è un mondo che, come nell’esse est percipi di Berkeley, dipende dallo sguardo.
2. Il luminoso nitore dell’intelligenza
Alla base di questo sguardo deformante, che fa del mondo qualcosa di dipendente, di consequenziale, e di allucinatorio, vi è ovviamente il corpo e il suo desiderio: vi è la Fame. La percezione dipende dal Bisogno. Il corpo detta i tempi della visione e della rappresentazione. In fondo non è la coscienza che stravede e reinterpreta a suo modo- estraniante e deformante- il mondo, ma l’Appetito, quel Conatus primordiale che vincola la coscienza e le impedisce di rapportarsi al modo in termini di soggetto rappresentante. E c’è una gioia in tutto questo, una sorta di disperata allegria che fa del protagonista del romanzo un nomade, uno zingaro, un eterno peregrinante alla ricerca di una fonte di soddisfazione, ma con la consapevolezza disincantata che la Sazietà è di là da venire, un miraggio divenuto già troppo banale per nascondere qualcosa di vero. Anche la ‘luminosa nitidezza’ con cui vengono osservate le cose, ha qualcosa di eccessivo, di totalitario, di inquietante. “Nulla sfuggiva alla mia attenzione, avevo chiarezza e presenza di spirito, ogni cosa si imprimeva in me con luminosa nitidezza come se improvvisamente una gran luce si fosse fatta intorno a me”.(1)
3. Il mondo in trasparenza: delirio e veggenza
La Fame come bisogno primordiale, come ricerca radicale e spasmodica della soddisfazione, diventa Apertura: apre a una visione del mondo che è ultra-visione, sguardo in trasparenza, veggenza. In questo universo alterato, vicino e lontano, espressionista-impressionista, torbido e luminoso, vacillante come un paesaggio riflesso nell’acqua tremolante di un lago, anche gli altri, soprattutto gli Altri, appaiono figure leggere, ariose, fatte di una libertà tanto felice quanto improbabile. “Gli uomini che incontravo dondolavano allegramente e con naturalezza le loro teste bionde e si muovevano nella vita come in una sala da ballo!…”.(2) Non è felicitas, è allegria: quella ilarità che ti spinge fuori di te, ti fa sentire altro da te, alacre (allos), ti fa percepire ‘te stesso come un altro’, nell’accezione metaforica di Ricoeur. É una proiezione della allucinata leggerezza dell’io narrante, ovviamente, giunto a un punto tale di bisogno di cibo, da raffinare paradossalmente tutti i propri strumenti percettivi e vedere ciò che altrimenti – nella sazietà – sarebbe difficile notare. “Per quanto in quel momento fossi estraneo a me stesso, completamente in preda a invisibili influenze, pure non avveniva nulla intorno a me senza che io me ne accorgessi”.(3)
4. La trasfigurazione dell’altro
Qui il protagonista vive e passeggia alla riscoperta del Margine, dei contorni delle cose, delle tracce dimenticate, e su questi aspetti secondari investe il suo disperato bisogno di felicità. La trasfigurazione del Prossimo, mediante la proiezione della propria in-soddisfazione su lui, non è però solo violenza, trasgressione, abuso dell’altro e suo fagocitamento: è anche legata alla singolare e sotterranea ricerca di una sorta di comunità ideale, di una utopica cristiana solidarietà universale, dove chi è affamato scopre la fame degli altri, e la fame di cibo subisce un salto di qualità reinventandosi come fame di comunicazione, fame d’amore. Lo dimostra l’incontro grottesco con il primo passante: uno storpio che chiede l’elemosina e in cui si imbatte l'affamato protagonista, che non solo non evita colui che potrebbe essere il suo doppio caricaturale, ma addirittura comincia a pedinarlo. La componente aggressiva e per così dire scopofila – il piacere di scrutare anche fuori da ogni libido qualcuno che sta peggio di te –, viene di colpo sublimata in volontà di aiuto, di sostegno, quasi una capricciosa sindrome di San Martino. Allo storpio verrà data una buona parte del ricavato di un panciotto pignorato, anche se il gesto assurdo di una elemosina fatta da un accattone a un accattone, anziché provocare il ringraziamento dello storpio, produrrà solo diffidenza e un simmetrico impulso aggressivo-scopofilo: “L’uomo prese il denaro e cominciò a squadrarmi con gli occhi. Che cosa stava a guardare? Ebbi l’impressione che esaminasse i miei pantaloni…”.(4) L’universo della Fame di Hamsun è un universo iperbolico: tutto appare esagerato, gonfio fino a esplodere, quando non rivela invece il risvolto della medaglia, ossia il suo aspetto frastagliato e scheggiato.
5. La fame come appetito e appello
Il pedinamento dell’affamato, ai danni di persone sconosciute, è uno dei leit motiv del libro. La fame apre non solo alla strada, come avviene ai cani randagi delle città, ma anche al prossimo. La fame è appello, richiesta, invocazione, e non solo di cibo, ma di altro, di Altri. Dunque di comunicazione. Da una parte l’altro è in qualche modo il terminale della propria Appetitio, l’oggetto da divorare, in partenza; dall’altro è semplicemente il soggetto inoggettivabile da inseguire, aiutare, amare. Tipica è la dinamica dell’offerta di aiuto proprio da parte di chi ne ha bisogno. Non è solo l’orgoglio aristocratico del protagonista hamsuniano a cambiare la carte in tavola e a fare atteggiare lui, divorato dalla fame, a generoso signore di altri tempi: è anche il sottile rapporto che la psicanalisi postfreudiana ha studiato tra fame e amore, e soprattutto il conflitto amore-odio con colui di cui abbiamo bisogno – di scuola kleiniana – a giustificare l’ambivalenza dell’affamato. Le persone che nella prima parte il protagonista incontra e pedina, lo zoppo accattone e le due signore davanti alla vetrina di una libreria, appartengono a due categorie diversa: lo zoppo a quella del bisogno, come lui, le signore a quella della autosufficienza e della soddisfazione ostentata. Se nel primo caso avviene il camuffamento o la dissimulazione di cui si è parlato (il bisognoso che assume le parti del generoso dinanzi all’altro bisognoso), nel secondo scatta la paranoica dinamica dell’offerta di aiuto laddove non ce n’è necessità: una delle due signore viene avvertita con gentilezza che sta per perdere un libro, quando lei non ha in quel momento nessun libro con sé. In questo ultimo caso, a partire da uno stato di bisogno-fame, si offre un aiuto immotivato, assurdo, non richiesto, quasi a scardinare l’imperturbabile autosufficienza da quel bisogno stesso nel prossimo: come un bambino lasciato solo che spinga la mamma a fare cadere le cose a terra per poterle raccogliere ed essere ringraziato. Hamsun sviluppa una fenomenologia del bisogno, della Fame, in tutti i suoi risvolti, anche quelli più paradossalmente contraddittori: come l’odio e l’amore, l’avarizia e la generosità, l’invidia e la gratitudine, la dipendenza e l’esibizione dell’autosufficienza.
6. La sindrome di Giobbe
Il protagonista si sente ‘vissuto’ dalla Fame e deambula per le strade della città in un permanente delirio. La lucidità maniacale e paranoide è compagna di questo stato di radicale bisogno, soprattutto quando la vocazione sostanzialmente aristocratica del protagonista lo porta non solo a nascondere la sua miseria di affamato, ma addirittura a rovesciarla in una orgogliosa messinscena ascetica: il bisogno si rivela come esibizione di non-bisogno. In termini strettamente psicanalitici, l’oscillazione maniacale-depressiva dell’io narrante lo porta a passare senza soluzione di continuità dal delirio alla disperazione. Quest’ultima si manifesta nella prima parte del libro sotto forma di una sorta di sindrome di Giobbe, allorché la richiesta di senso, di giustizia e di giustificazione di tanta miseria coinvolge nientemeno che la responsabilità di Dio. “Mi aveva segnato il dito di Dio? Ma perché proprio me?…Il pensiero di Dio cominciò a occuparmi di nuovo. Mi sembrava che egli commettesse un’azione assolutamente imperdonabile ad ostacolarmi ogni volta che cercavo un posto e rovinare tutto mentre io non chiedevo altro che il pane quotidiano”.(5) Questo chiamare in causa la volontà di Dio si associa a un diffuso istinto persecutorio, che è un altro risvolto della Fame pervicacemente sviluppato da Hamsun: il mondo si divide in due grandi semplicistiche categorie, in coloro che ti aiutano e ti permettono di arrivare al pane, e coloro che te lo negano o ti ostacolano su quella strada. Ma se Colui che dovrebbe garantire o favorire il Pane quotidiano è Dio, proprio su di lui cade come una bestemmia l’accusa di non assolvere il suo compito, forse anche perché le preghiere che lo invocano non sono da lui gradite. La chiamata in causa di Dio, lungi dall’essere un salto nel buio della fede, scaturisce direttamente dalla disperazione del bisogno, che potrebbe a livelli estremi coinvolgere Dio come anche il diavolo, chiunque fosse in grado di garantire il soddisfacimento o esserne responsabile. E a questo proposito l’Autore varia con icastica ironia sull’andante evangelico del ‘non di solo pane vive l’uomo’ e della nota libertà dei passeri di nutrirsi di ciò che trovano senza lavorare, laddove l’uomo si preoccuperebbe del giorno dopo e dovrebbe invece imitare proprio gli uccelli del cielo, fiduciosi nella natura e in Dio .“Perché mi preoccupavo di ciò che dovevo mangiare, di ciò che dovevo bere e di ciò che dovevo introdurre in quell’orribile sacco di vermi, che si chiama il corpo terreno? Il mio padre celeste non si era preso cura di me come dei passeri sotto il firmamento e non mi aveva dimostrato la grazia, additandomi come un suo umile servo?”.(6)
7. Le bugie della fame: l’affabulazione paranoide
La deriva maniacale del protagonista di Fame conduce anche a un atteggiamento comportamentale, infantile e vagamente clownesco, che permea tutto il romanzo: la menzogna, ossia l’affabulazione come invenzione. L’io narrante si trova cioè a raccontare frottole e bugie senza averle assolutamente preparate a passanti e sconosciuti: come all’omino seduto sulla panchina del parco, nella prima parte, alla prese col suo povero cibo raccolto dentro un giornale, che viene inondato di un torrente di falsità, solo perché il protagonista intende presentarsi al suo prossimo assolutamente diverso da quel miserabile affamato che è. Come se volesse trincerarsi dietro un’altra identità, quella dell’uomo pieno e sazio di sé, spacciando al prossimo una immagine-copertura.“Sono menzogne, – dice Paul Auster nel suo saggio L’arte della fame – il cui significato va ben al di là della burla estemporanea. In ambito linguistico, la bugia ha lo stesso rapporto con la verità che in ambito morale ha il bene con il male”.(7) Siamo sempre ovviamente ad un livello di dissimulazione, che comunque consente- come in chi mastichi qualcosa che gli permetta di ingannare la fame – di sopportare il radicale Bisogno. Insomma una delle conseguenze più imprevedibili della fenomenologia della Fame è l’Invenzione, il crearsi una vita o una immagine altra da quella dell’io reale. L’affabulazione narrativa diventa nell’io narrante un inventare che porta avanti la fabula a partire da una cronica assenza di sazietà e di cibo. La parola, il racconto, l’affabulazione istrionica, diventano il surrogato del cibo che non c’è: come direbbero i postfreudiani, un surrogato ‘orale’ inganna la libido del cibo con quella della Parola.
8. La simulazione, la dissimulazione, il gioco: la pro-vocazione del mondo
Col procedere del romanzo, l’allegria disperata della prima parte diviene sempre meno allegra e sempre più disperata. La fame esige le sue istanze, divora proprio chi non può divorare l’oggetto esterno: si getta dunque sul soggetto, e lo rode dall’interno, rosicchiando a mo’ del conte Ugolino le parti di se stesso. I primi segni della follia, di una lucida follia paranoide e maniacale, fanno rassomigliare il protagonista a un infantile folletto che si diverte a mentire agli altri e a se stesso, ad usare una sempre più pervicace dissimulazione ai danni degli altri e di se stesso (ai limiti della lucida ‘malafede’). L’auto-dissimulazione è una delle modalità quasi più psico-fisiche che semplicemente psicologiche che la Fame sembra usare per auto-ingannarsi. É un po’ la tecnica di allucinazione per compenso ben conosciuta al mondo dei sogni. Il cibo non mangiato diventa altro da sé, metafora di se stesso e surrogato fantastico-onirico. Megalomani fantasie di ricchezza e potenza attraversano la mente obnubilata dell'affamato, che vede sale nobiliari e banchetti succulenti offertigli da una improbabile Principessa: amore, potenza, ricchezza, in un solo folle e febbrile balzo della fantasticheria. E, come si accennava, il protrarsi della Fame apre anche a un disperato bisogno di Gioco, di provocazione ludica del mondo, delle cose, delle persone: come gli stessi poliziotti che strappano ogni volta il protagonista dalla panchine su cui dorme e vengono poi scherniti in un modo silenzioso e bugiardo di cui solo lui è al corrente. Prendersi gioco del mondo, in una situazione di Penuria radicale, vuol dire vendicarsi di quello che il mondo non ti garantisce (come Dio del resto) per mezzo di una sorta di superiore intelligenza aristocratica, di una beffarda e sprezzante nobiltà tutta segreta.
9. Kuboaa: l’invenzione della parola e il potere sul significato
Letterariamente, è interessante che il protagonista di Hamsun dissimuli e giochi soprattutto con le parole e con i nomi: non solo tende a presentarsi con un nome sempre diverso dal suo (che il lettore non conosce, ma immagina sia quello stesso dell’autore), godendo beffardamente di questa distanza rispetto a se stesso che gli altri non colgono, ma vi è un momento particolarmente significativo in cui egli inventa con gran godimento una parola che non esiste in nessuna lingua –Kuboaa – e come un bambino o un mentecatto continua a ripeterla, quasi avesse fatto una scoperta epocale. Dietro questo delirante godimento della parola inventata e creata dal nulla, vi è da una parte la volontà di uscire in qualche modo del Codice degli Altri, e farsi lui stesso promotore di un Codice nuovo, anche se questo riguarda una sola assurda parola; dall’altra parte – e qui il rapporto è più con Dio che con gli Uomini, più con la potenza del Verbo divino che con il linguaggio umano – vi è come una libido di creazione in questa semplice invenzione, il piacere di creare ex nihilo qualcosa. E tutto ciò sempre a partire dallo Zero assoluto di una fame divorante, umiliante e bruciante. Al potere non solo di dire, ma di attribuire un significato a quanto detto, e mai detto prima, l’io narrante attribuisce un senso di massima forza, di totale controllo delle cose: è il potere di significare, di creare un codice interpretativo, all'interno del quale anche qualcosa come la mortale Fame viene Giustificato. “Mi sembrava di aver trovato una parola nuova. Mi sollevo sul letto e dico: nella lingua non esiste, l’ho trovata io, Kuboaa… La parola si presentava così nitida davanti a me”.(8) Per un protagonista che nell’intero corso del romanzo non ha nome, come sottolinea P. Auster, inventare un nome ex nihilo o rinominare le cose è un estremo modo di governare il caos in cui esse affondano, e lui con loro, di riappropriarsene, di marchiarle con la propria narcisistica impronta. Non importa che la parola kubooa non esista sul vocabolario (rinominare vuol dire ricodificare, uscire dalla rete del linguaggio per non sottostare alle sue regole) o che la ragazza a cui fa la corte abbia un nome diverso da quello che lui inventa per lei. “La realtà – scrive Auster – è diventata una ridda di nomi senza cose e di cose senza nome. Il legame fra il sé e il mondo è stato infranto”.(9) Ma proprio perché il legame fra sé e il mondo è stato infranto, ecco il tentativo ‘eroico’ o donchisciottesco del protagonista di recuperarlo attraverso un rovesciamento grottesco: la realtà non solo dipende – per ritrovare il legame con l’io – dal linguaggio, ma dal linguaggio stesso dell’io, anche se sregolato e solipsistico. E anche questo fa parte della sua ludica provocazione del mondo: pro-vocare è un chiamare il mondo davanti a sé, chiamarlo a giudizio, anche se il giudice è ubriaco o istupidito dalla fame.
10. Il tempo quotidiano della fame
Questo potere di significazione si imparenta all’altro bizzarro potere esibito più volte davanti agli altri: quello di decidere che ore sono, il potere sul tempo quotidiano.
Sono le dieci… [dice il protagonista a un poliziotto, all’improvviso] No, sono le due – rispose sbalordito. No, le dieci – dissi – Sono le dieci. E ansimando dall’ira feci ancora due passi avanti, serrai il pugno della mano e dissi: Ascolti, ha capito sono, le dieci…(10)
Difatti, esiste anche un Tempo legato alla
Fame, che non è il tempo di tutti, un tempo regolare e
normale. É un tempo soggettivo, fatto di accelerazione e
rallentamenti, un tempo sorgivo, puntiforme, eventuale, e per così
dire ‘quantico’. Le pagine più straordinarie del romanzo
sono quelle i
11. Gli angeli della potenza laica: l’amore
La condizione di indigenza estrema porta il personaggio
di Hamsun, come si diceva, a oscillare vertiginosamente fra uno stato
di esaltazione maniacale e delirante, una sorta di assurdo ottimismo
da barbone, che confida in una provvidenza benevola sempre disposta a
premiare la buona volontà, e una profonda depressione che non
si fonde tuttavia con la rinuncia, se mai con la bestemmia, l’accusa,
la ribellione al padrone stesso del Creato. Poi accade che il
miracolo avvenga proprio quando non è più atteso, come
in un episodio della terza parte in cui il protagonista acquista una
candela per poter scrivere i suoi articoli di sera e gli vi La svolta della vita disagiata e randagia di questo povero giornalista di provincia, potrebbe essere all’improvviso quella dell’Amore. La principessa dei suoi sogni si materializza d’un tratto sotto forma di una donna che egli trova apparentemente per caso sotto il suo portone, ma che in realtà era colei che lui un giorno aveva avvicinato in una condizione da ubriaco e che aveva fatto fuggire. Nasce un sentimento, burrascoso e quasi stupefatto da parte di lui, materno e compassionevole da parte di lei: momenti di dolcezza e di contatti febbrili che tuttavia culmineranno nella consapevolezza dichiarata, da parte della donna sempre più spaventata, di avere a che fare con un pazzo.
12. Il povero intelligente: l’eterno sfratto e la ripartenza
E sarà a questo punto che il protagonista, rassegnato a questa ennesima sconfitta, formulerà la sua definitiva teoria su se stesso e quelli come lui – viziati fin nelle fibre dell’anima, oltre che nel corpo da una Fame atavica, e questa volta non solo di cibo:
Il ‘povero intelligente’ è un osservatore assai più sottile del ‘ricco intelligente’. Il povero si guarda attorno ad ogni passo che fa, ascolta con diffidenza ogni parola che sente dire dalle persone che incontra; ogni passo che muove pone ai suoi pensieri e ai suoi sentimenti un problema, un lavoro. Egli è ipersensibile, è un uomo esperto, la sua anima ha bruciature…(11)
É l’autoritratto più lucido. La fame finisce con divorare, col ‘bruciare, l’anima oltre che il corpo. Lascia segni indelebili che stentano a estinguersi, ferite profonde che difficilmente si rimarginano. Scava dentro l’anima, muta la percezione delle cose, rende lucidi, attenti, esaltati, ipersensibili (come personaggi dostojevschiani, si direbbe) La fame di cui lucidamente soffre il protagonista di Hamsun, che non a caso è uno scrittore, ha a che fare non solo generalmente con il Bisogno ma anche con l’Espressione. Per questo, “l’arte della fame può essere definita un’arte esistenziale (…) Un’arte del bisogno della necessità, del desiderio”(12). Non si tratta di un digiuno solo subito, ma asceticamente assunto: il digiuno di chi rifiuta il cibo che si trova a disposizione per marciare lungo la sua libera strada e produrre un suo nuovo cibo di cui nutrirsi, immaginario e allucinatorio. La fame di cibo è legata a una fame di espressione, di affermazione originale fino alle soglie della follia nella rappresentazione e nel godimento del mondo. Nel celebre racconto Il digiunatore di Kafka, il macilento protagonista che nella sua gabbia esibisce davanti a un pubblico incuriosito, poi sempre più indifferente, la propria arte del digiuno e le proprie ossa, dichiarerà alla fine il vero motivo del suo lavoro, della sua ‘arte’. Finora tutti avevano pensato a un volontario mettere in scena la sua capacità di non mangiare per 40 ore e oltre, dunque a una libera rappresentazione della sua miracolosa astinenza. Invece il digiunatore confesserà, prima di essere licenziato, di non poter fare altro, di esservi costretto, “perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse”.(13) Kakfa, parallelamente ad Hamsun, ha creato un personaggio in cui la Fame o il Digiuno si autorappresentano nel momento stesso in cui soddisfano o tendono a soddisfare un bisogno di espressione: la fame è insieme oggetto e soggetto di rappresentazione, ossia è ciò che viene messo in scena e ciò che permette di allestire quella stessa scena, di rappresentare. Anche nel protagonista di Hamsun vi è una necessità della rappresentazione della fame, e viceversa la condizione di affamato genera ‘quella’ forma di rappresentazione. La fame diventa la condicio qua non della rappresentazione di se stessa e della fame-di-vivere. Alla fine, sfrattato dall’amore, il giornalista-barbone sarà sfrattato anche dall’ultima locanda in cui poteva ancora sentirsi protetto nel vivere, dormire, scrivere i suoi articoli: i soldi non gli basteranno più e sarà cacciato ancora una volta sulle panchine dei parchi o nei ricoveri di fortuna. La sua condizione di esule, di nomade, di ex-sistente vagabondo, sarà confermata. Per tutto il racconto egli avrà parlato a se stesso, rivolgendosi al proprio io come a un altro: si sarà sdoppiato ai limiti della schizofrenia. Ma questa volta, dinanzi all’ultima brutale sfida della vita, ricorrerà alle sue estreme risorse per decidere di Partire, salpare con una nave di fortuna, proiettandosi su quel mare del Nord che sempre ha potuto contemplare nelle sue peregrinazioni di clochard. La Fame, nell’eterno esule in partenza, non sarà domata. Ma in qualche modo si sarà trasformata, sarà diventata una Fame di vita, quella del marinaio che parte sulle rotte dell’oceano e non conosce il suo destino. Una luminosa leggerezza domina le ultime pagine, così come le prime, di questo romanzo, in cui si assiste a una tragica lotta tra claustrofobia e libertà, tra dolore e libertà, tra pesantezza e freschezza. Alla fine a vincere sarà l’amore per la vita, quella vita che è conatus, appetitio, volontà e slancio, ma che deve per tutti questi aspetti digerire la propria stessa penuria, la propria radicale indigenza. In Hamsun la fame, che ha origini corporee, finisce col diventare un aspetto della mente e con lo scavare solchi nell’anima. Ma poi sarà l’anima stessa ad attingere, dai pozzi infiniti delle sue risorse, l’energia sufficiente a rovesciare l’indigenza in motore di slancio vitale e a metabolizzare una volta per tutte il Cibo che non c’è in Desiderio spasmodico di vita. Una voracità che renderà l’esistenza infinitamente appetibile e proprio per questo disperatamente dotata di Senso.
Riferimenti bibliografici:
Note con rimando automatico al testo 1 Knut Hamsun, I capolavori, Roma 1961, p. 538. 2 K. Hamsun, I capolavori, cit., p. 541. 5 K. Hamsun, I capolavori, cit., p. 541. 6 K. Hamsun, I capolavori, cit., p. 542. 7 Cfr. Paul Auster, L’arte della fame, Torino 2007 8 K. Hamsun, I capolavori, cit., p. 577. 9 P. Auster, L’arte della fame, cit., p. 9. 10 K. Hamsun, I capolavori, cit., p. 573. 11 K.Hamsun, I capolavori, cit, p.639 12 P. Auster, L’arte della fame, cit., p. 12. 13 F. Kafka, Racconti, a cura di E. Pocar, Milano 1987, p. 576.
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