numero
7
KAINOS
2007
sommario : redazione : in calendario : mailing list
Fame e desiderio ne L'Essere e il nulla di Sartre di Tonino Bucci
Introduzione: non si mangia solo per fame Mangiamo per soddisfare un bisogno. Messa così questa affermazione lapidaria lascia poco spazio alla filosofia. Soltanto la fisiologia avrebbe il diritto di esprimersi sui meccanismi di assimilazione e digestione delle sostanze nutritive che consentono al nostro organismo di riprodursi nella propria esistenza fisica. La pulsione alimentare è transitiva, diretta al suo scopo, risolta nell’atto del mangiare verso cui è proiettata. Non ha altra consistenza all’infuori del suo rinviare all’oggetto del nutrimento. E quando subentra lo stato di sazietà della fame non c’è più traccia alcuna della soggettività desiderante. Tutto qui? Ma allora come spiegarsi le deviazioni della pulsione alimentare verso forme patologiche come l’anoressia e la bulimia? Perché l’attrazione – o la repulsione – per il cibo si trasforma in oggetto di un desiderio misterioso, autonomo, ingiustificabile, che pretende abitudini alimentari a malapena sopportabili dal nostro corpo? Come possiamo parlare di una naturalità dell’appetito di fronte all’evoluzione dei gusti, alla storicità delle abitudini alimentari, alla varietà dei cibi e agli innumerevoli modi con i quali vengono preparate le pietanze nelle diverse culture umane? Di fronte al cibo l’essere umano dimostra una imprevedibilità di atteggiamenti che difficilmente possono essere incasellati all’interno di una presunta cornice di istinti immodificabili. Tanto poco le scelte dei gusti e la creatività gastronomica possono essere ricondotti alla nostra costituzione biologica che siamo costretti ad ammettere che la pulsione alimentare riveli piuttosto l'inquietudine di quel particolare animale culturale che l'uomo è. La persona bulimica è l’esempio più illuminante. La richiesta incessante di cibo è una domanda eccedente che nessuna consumazione dell’oggetto può soddisfare poiché è animata da un vuoto d’amore e affettività di fronte al quale l’altro oggettuale è sempre insufficiente1. E dimostra anche che nell’alimentazione c’è un resto pulsionale, la ricerca di un godimento orale che è del tutto indipendente dal cibo e che la coscienza è destinata a sperimentare come un vuoto attraverso tutti i tentativi reiterati di riempirsi. Il soddisfacimento pulsionale non coincide con il soddisfacimento del bisogno, anzi la domanda si scopre e si potenzia come domanda di godimento impossibile a ogni atto di consumo effettivo dell’oggetto. Non c’è sostanza che possa suturare la mancanza che abita il soggetto. Nel caso dell’anoressia, invece, è come se questa impossibilità divenisse consapevolezza, come se con il rifiuto a mangiare si prendesse atto che nessun oggetto sia capace di riempire la mancanza a essere che il desiderio esprime. Nel rifiutare lo scambio tra desiderio e soddisfacimento del bisogno l’anoressica dimostra di non confondere la domanda d’essere con la domanda d’avere, di avere ben presente lo scarto ontologico che corre tra la domanda d’amore della figlia nei confronti dei genitori e l’offerta, da parte di questi ultimi, di cure, oggetti e ninnoli. Bastano questi pochi cenni per intravedere quanto poco la pulsione alimentare dell’uomo sia riducibile a un semplice automatismo definito una volta per tutte dalla nostra costituzione biologica. Quello che a prima vista ci appare come il più semplice atto di sostentamento fisico ci rivela, invece, l’attitudine simbolica, culturale e sociale dell’essere umano. A differenza degli altri animali l’uomo inventa la Cucina, la culture gastronomiche, un sapere alimentare, elabora modi di preparare, cucinare, condire e guarnire le pietanze, così che il cibo, da oggetto del bisogno, venga trasformato, manipolato, artefatto, staccato dalla natura e trasfigurato in oggetto della pulsione orale. Non si mangia solo per sfamarsi. Si mangia anche per godere – sia pure per un godimento che Lacan definisce impossibile come quello della pulsione orale che rincorre un oggetto fantasmatico, vuoto, l’oggetto perduto del primo soddisfacimento, il seno. Ma il mangiare è anche una domanda rivolta all’altro, è permeato di socialità e relazione, di convivialità e regole comuni, di saperi e tradizioni culturali. È ancora una formula lacaniana – “non si mangia mai da soli”, “mangiamo alla tavola dell’Altro” – a sintetizzare il lavoro culturale comune che si cela dietro la preparazione dei cibi. Per Lévi-Strauss il passaggio dal “crudo” al “cotto” è il segnale del prevalere nell’organizzazione umana della cultura sulla natura2. L’alimento perde la sua naturalità, trasformato in artefatto, in sembiante, in ornamento, in prodotto culturale – motivo che spingeva Sartre a professare la propria preferenza per quei cibi che più di altri esibiscono l’intervento e la creatività umane. I gusti, se li sappiamo interrogare – suggerisce non a caso Sartre nelle pagine finali de L’essere e il nulla – non rimangono «dati irriducibili», ma «ci rivelano i progetti fondamentali della persona. Non v’è nulla, persino nelle preferenze alimentari che non abbia un senso»3. Contrariamente a quel che pensavano i dotti medievali che hanno tramandato il classico adagio latino de gustibus non est disputandum, i gusti non sono un datum assurdo, ma una assimilazione che rivela un certo modo dell’essere dell’alimento che accettiamo o rifiutiamo, che ci apprestiamo o meno a trasformare in carne del nostro essere. L’oggetto di questo articolo è ricostruire l’analisi fenomenologica che in vari passaggi dislocati ne L’essere e il nulla Sartre conduce sul tema della fame e, più in generale, del desiderio. Ma per iniziare siamo costretti a partire proprio dalla tesi finale sulla quale si ritornerà alla fine. «Mangiare significa appropriarsi per distruzione e nel medesimo tempo, turarsi con un certo essere… Allorché mangiamo, non ci limitiamo a conoscere, attraverso il gusto, certe qualità di questo essere; gustandole ce ne appropriamo. Il gusto è assimilazione: il dente rivela, con l’atto stesso di stritolare, la densità del corpo che trasforma in bolo alimentare. Così l’intuizione sintetica dell’alimento è, in se stessa, distruzione assimilatrice. Mi rivela l’essere col quale farò la mia carne. Allora, ciò che accetto o rifiuto con disgusto, è l’essere stesso di questo esistente, o, se si preferisce, la totalità dell’alimento mi propone un certo modo di essere dell’essere che accetto o che rifiuto»4. La prima osservazione intuitiva che si offre alla lettura di questo passo è il legame che Sartre istituisce tra il sapore e il sapere, tra il gusto che esprime la preferenza o l’avversione per un cibo e la rivelazione di una certa qualità d’essere dell’alimento. Secondo, il sapore è sapere in un senso specifico: non lo è secondo lo schema della coscienza teoretica che pone un oggetto di conoscenza a lei esterno. Qui si tratta di un sapere “esistenziale” che procede per assimilazione e rende la carne dell’essere la propria carne. Terzo, l’analisi della pulsione alimentare deve trovare posto a pieno diritto nell’ontologia, poiché l’atto del mangiare non è solo «distruzione», ma anche «assimilazione» e «intuizione sintetica» che rivela l’essere dell’alimento. Quarto, l’attitudine umana ad alimentarsi non può non essere in relazione con quelle prerogative che Sartre attribuisce alla coscienza: non un essere pieno, compatto, coincidente con sé ma sempre proiettata oltre la propria fattità contingente. Un essere che si coglie come carenza d’essere, che non è quel che è e che è quel che non è, una manifestazione del nulla e del vuoto nel mondo che si rivela desiderio d’essere e, precisamente, un desiderio votato allo scacco esattamente come la domanda della bulimica. Mangiare, dice Sartre, è «turarsi con certo essere»5, è fenomeno intenzionale di coscienza, è l’anelito dell’uomo dotato di trascendenza a colmare la carenza d’essere ch’egli stesso è, che non può fare altro che reiterare di continuo, in una sorta di coazione a ripetere, poiché ogni realizzazione inaugura ogni volta un nuovo orizzonte di possibilità. Di fallimento in fallimento. E non c’è automatismo fisiologico che tenga poiché qui non è di bisogno che si tratta. Qui è in gioco il desiderio. Serve una teoria della coscienza desiderante che faccia emergere lo scarto tra desiderio e bisogno. La parola, dunque, alla filosofia.
1. La coscienza
Il tema della fame compare per la prima volta nell’Essere e il nulla agli inizi della seconda parte dell’opera, quella dedicata all’essere-per-sé, e per la precisione nella sezione nella quale si analizzano le strutture immediate del per-sé, prima che compaia il rapporto costitutivo con l’altro. Per il momento Sartre sta approfondendo le strutture di quella regione ontologica definita per-sé che riguarda la coscienza, appena sbalzata dallo sfondo dell'in-sé. Daremo per presupposta l’analisi della prima parte de L’essere e il nulla, dove Sartre tiene ferma l’impossibilità di attribuire alla coscienza le medesime prerogative d’essere che riconosciamo alle cose. Se nel regno dell’in-sé vale la legge dell’adeguazione e non si dà essere che non sia pieno, coincidente con sé, infinitamente denso, per la coscienza si tratta di mettere a fuoco tutt’altro tipo di presenza, caratterizzata non dalla coincidenza, ma dalla mancanza e dalla trascendenza verso un ideale stato di completezza che non potrà mai darsi. La soggettività è sdoppiamento d’essere rispetto a se stessa. In qualunque cosa faccia la coscienza esiste, al medesimo tempo, come agente e testimone di se stessa, come osservatrice e osservantesi, come riflettente e riflessa. Quale sia l’oggetto o l’esperienza di cui essa è, appunto, coscienza, essa è contemporaneamente anche coscienza di sé. «La caratteristica della coscienza, al contrario, è di essere una decompressione d’essere. È impossibile, infatti, definirla come coincidenza con sé. Di questo tavolo, io posso dire puramente e semplicemente che è questo tavolo. Ma della mia fede non posso limitarmi a dire che è fede: la mia fede è coscienza (di) fede»6. Ma questi due momenti non sono separati, la coscienza non può mai porsi all’esterno di se stessa e considerarsi come oggetto del proprio sapere. La relazione è invece immanente, la coscienza è coscienza di sé non come sapere, non come posizionamento teoretico bensì come un modo d’esistere preriflessivo. Come mantenere aperta questa distinzione di sé da se medesima senza pregiudicare l’unità della stessa coscienza? «Che sarà questa coscienza di coscienza? Noi subiamo l’illusione del primato della conoscenza a un punto tale che siamo portati subito a fare della coscienza di coscienza una idea ideae al modo di Spinoza, cioè una conoscenza di conoscenza»7. Il ragionamento è chiaro: se operiamo un riduzionismo della coscienza a soggetto di conoscenza di sé poi sorge il problema di conoscere il soggetto conoscente e così via in una regressione all’infinito. «Questa interpretazione della coscienza di coscienza non sembra accettabile... se si accetta la legge della coppia conoscente-conosciuto, si rende necessario un terzo termine, affinché il conoscente divenga a sua volta conosciuto»8. Il dilemma non lascia scampo: o ci si arresta arbitrariamente a un termine della serie incappando nella contraddizione di una riflessione non-cosciente di sé. Oppure «si afferma la necessità di una regressione all’infinito (idea ideae ideae ecc.), il che è assurdo»9. La coscienza non è un problema gnoseologico – almeno in prima istanza. La questione, piuttosto, è fenomenologica e riguarda il modo di manifestarsi dell’essere della coscienza. L’ipotesi che qui avanziamo è che l’essere della coscienza sia fondamentalmente un essere desiderante, un essere che è mancanza d’essere e si proietta verso la possibilità d’essere che sceglie – l’oggetto del desiderio. Ma perché questa tesi risulti soddisfacente bisogna che il desiderio – a partire dalla sfera più bassa della coscienza desiderante, come la pulsione alimentare, appunto – non sia considerato un semplice istinto biologico. La coscienza non ha desideri. La coscienza è desiderio. E nel desiderio dovremo quindi ritrovare tutte le strutture ontologiche della coscienza: la trascendenza oltre gli oggetti presenti, la carenza d’essere, la progettualità. Non c’è una coscienza-sostanza che esista prima e indipendentemente dalle esperienze in cui essa è coscienza di qualche cosa o di un’esperienza interna, di un sentimento, di un piacere ecc. Se fosse sostanza la coscienza finirebbe per assomigliare all’essere in-sé, per esistere al modo d’una cosa. È l’errore sostanzialistico che ha commesso Cartesio. Il cogito cartesiano finisce per ridurre la coscienza a conoscenza di sé e a isolare questo fenomeno come un nucleo di identità-con-sé invariante – un essere che è quel che è e basta, come un tavolo, appunto – demarcato dal resto della vita reale. La coscienza di Sartre, invece, è un essere unico, indivisibile: è immersa nelle sue esperienze, non è esterna ad esse, eppure lo è sempre al modo di coscienza. È nel piacere e, al contempo, coscienza di piacere. È affamata e coscienza di fame. È preriflessiva. Non è riflessione su di sé dall’esterno, isolata e sostanzializzata.
2. La fattità: il corpo biologico della coscienza
Per tutta la prima parte de L’essere e il nulla Sartre approfondisce lo scarto ontologico tra le due grandi regioni dell’essere, quella opaca e contingente dell’in-sé e quella del per-sé segnata dalla negazione, dalla libertà e dalla trascendenza. Se ci si fermasse qui la filosofia sartriana non si discosterebbe poi tanto dall'antitesi fondamentale della tradizione occidentale fra materia e spirito, tra res extensa e res cogitans, tra corpo e anima. È vero che la demarcazione ontologica fra la coscienza e il mondo non potrebbe essere in Sartre più netta e che non c’è modo di poterle confondere tanto contrapposte sono le due dimensioni. Tuttavia l’uomo di Sartre è esistenza incarnata, è nel mondo, anzi, è corpo che dischiude un mondo, è un fascio di emozioni, affetti e desideri che aprono le cose in un orizzonte possibile di sensi e significati. Le sue sensazioni infrangono la neutralità affettiva del mondo e colorano le cose di significati sentimentali, ce le rendono gioiose o tristi, irritanti o piacevoli, non più insensata opacità. Libero e trascendente, certo. «Tuttavia il per-sé è»10, dice Sartre. È un evento nel mondo, è coscienza che deve pur fare i conti con la fattità della propria esistenza. L'essere umano «è buttato lì in un mondo, abbandonato in una situazione»11, fatto di carne e corpo, hic et nunc. La sua libertà consiste “soltanto” nel manifestarsi del nulla, nella potenza del negativo che nega lo stato di cose presenti. È «il fondamento del nulla in quanto annullamento del suo essere», supera il presente e la sua particolarità per adeguare la propria esistenza al proprio progetto e alla trama delle possibilità di realizzazione di sé. Però, precisa Sartre, «ciò non vuol dire che esso sia il fondamento del suo essere»12, nel per sé «vi è qualche cosa di cui non è fondamento: la sua presenza al mondo»13. Questo significa che l’uomo costruisce un senso a partire sempre dal suo essere-in-situazione e gettato tra le cose. Significa che non esiste un'essenza umana in astratto, valida per tutti gli individui in ogni tempo e luogo. Significa che l'essere umano è un orizzonte di possibilità che non è dato a priori ma è scoperto sempre a partire dalla «fattità» del suo esistere. L’essenza dell’uomo è una costruzione che non può essere demandata a leggi oggettive, è un progetto radicale di libertà consegnato alla responsabilità dell’individuo14. Però che l’uomo non sia fondamento del suo essere significa anche che non può mai realizzarsi una coincidenza perfetta tra la sua esistenza e la sua essenza, tra ciò che è e ciò che ha da essere. Se così non fosse, l’essere umano esisterebbe al modo d’una cosa, come questo tavolo e questa sedia che semplicemente sono quel che sono, senza alcuna distanza tra sé, annegate in una stupida pienezza. Il contraltare della libertà è la condanna dell’uomo a una carenza incolmabile d’essere, a non poter mai coincidere con quel che egli stesso è, a cogliersi costantemente inadeguato rispetto alla trascendenza delle cose che incarna – a meno che non sfugga alla percezione di questa inadeguatezza rifugiandosi nella malafede, nell’illusione di essere la parte che ciascuno di noi recita nei ruoli e nelle convenzioni reificate del mondo inautentico borghese. Libertà e destino qui coincidono nell’ineluttabile conquista di sé in un mondo opaco e privo di senso. L’esistenza umana non si gioca sul piano del reale e delle cose, ma nel registro dell’immaginario, della possibilità, della trascendenza rispetto alla pienezza senza senso degli oggetti. La possibilità «appartiene a certi esseri come loro possibilità, è la possibilità che essi sono, che devono essere»15. L'uomo si possibilizza, si immagina come possibilità, coglie la sua carenza d'essere perché la sua stessa vita è un «evento assoluto» e «contingente». Gli manca – il bisticcio di parole è inevitabile – l’essere che ha da essere come propria possibilità. In una parola, l’uomo desidera. «Il per-sé è sostenuto da una continua contingenza, che assume a suo carico e che assimila senza mai poterla sopprimere. Questa contingenza perpetuamente evanescente dell’in-sé, che aderisce al per-sé e lo ricollega all’in-sé senza mai lasciarsi percepire, la chiameremo fattità del per-sé. È proprio questa fattità che permette di dire che esso è, esiste, benché non la si possa mai realizzare e la si percepisca solo attraverso il per-sé»16. La coscienza è libertà e trascendenza, d’accordo, ma questa libertà deve comunque manifestarsi sullo sfondo di una fattività contingente, come possibilità di un suo oltrepassamento. Senza mai realizzarsi però come un fatto, come cosa tra le cose. Tra l’esistenza possibile e l’esistenza di fatto rimane sempre uno scarto ontologico, una non-coincidenza che suscita nella coscienza una coazione a superare quel che è. L’uomo è insoddisfatto per natura. E desidera. Ma che dire di quella fattità che il soggetto scopre quando considera il proprio corpo, la propria costituzione biologica, la sfera istintuale dei bisogni? È una dimensione indipendente dalla coscienza? Dobbiamo ammettere che nel nostro corpo agiscono forze autonome e automatismi biologici che tendono a oggetti preformati per il loro soddisfacimento? Sartre è netto al riguardo. Anche le pulsioni e i desideri sono fenomeni-di-coscienza, anche i fenomeni fisiologici sono manifestazioni della trascendenza del per-sé. Non esistono la fame-in-sé, la sete-in-sé, la sessualità-in-sé. La coscienza non incontra mai istinti biologici allo stato puro, al contrario sperimenta sempre un montaggio tra il soddisfacimento dei bisogni e, in controluce, la ricerca di un soddisfacimento speciale, di tipo simbolico, da non confondere assolutamente con il determinismo biologico. Nell’uomo gli istinti naturali sono deformati, trasfigurati, rielaborati in una dimensione culturale, ricompresi all'interno di pulsioni che non si esauriscono con gli oggetti che soddisfano i bisogni. Nei Tre saggi sulla teoria sessuale Freud sostiene che la domanda della pulsione si inserisce come una perversione degli istinti biologici e chiede, oltre al soddisfacimento istintuale, un soddisfacimento libidico, un plus di godimento che può indirizzarsi verso oggetti-surrogato e che mette in gioco anche la relazione del soggetto con l’Altro – nel caso del mangiare la pulsione investe la zona erogena dell’oralità17. Anche per Sartre – se si vuole ragionare su questo parallelismo – c’è la sovrapposizione di un processo simbolico sugli automatismi biologici. Come nella teoria freudiana delle pulsioni anche nella filosofia sartriana della coscienza il ruolo primario è giocato dai desideri che smontano e ricompongono i soddisfacimenti istintuali in vista di una diversa finalità. «Un particolare uomo si definisce per mezzo dei suoi desideri»18. Ma a differenza della psicoanalisi – e questo sarà il motivo di una critica puntualizzata nell’ultima parte de L’essere e il nulla – Sartre pensa che sia sbagliato ridurre le pulsioni a contenuti, a «sostanze», a entità psichiche impiantate nell’uomo che contendono all’Io lo spazio della coscienza. «Lo psicologo empirico, definendo l’uomo mediante i suoi desideri, resta vittima dell’illusione sostanzialista. Vede il desiderio come se fosse nell’uomo a titolo di “contenuto” della sua coscienza e crede che il senso del desiderio si trovi inerente al desiderio stesso. Così evita tutto ciò che potrebbe evocare l’idea di una trascendenza. Ma se desidero una casa, un bicchiere di acqua, un corpo di donna, come potrebbero questo corpo, questo bicchiere, questo immobile risiedere nel mio desiderio e come potrebbe il mio desiderio essere una cosa diversa della coscienza di questi oggetti come desiderabili? Stiamo dunque attenti a non considerare questi desideri come piccole entità psichiche abitanti nella coscienza»19. Soprattutto l’immagine freudiana della coscienza come di un territorio estraneo all’Io, sopraffatto da potenze psichiche preponderanti (Es e Super-io) è quanto di più possa irritare la sensibilità filosofica di Sartre, avverso a qualunque concezione che possa de-responsabilizzare l’uomo nella determinazione della sua vita. Nel vocabolario sartriano la pulsione come entità psichica viene sostituita dal «desiderio» che non è solo qualcosa di più degli istinti. I desideri vanno anche oltre la relazione tra uomo e mondo, non si rivolgono solo agli oggetti in diverse modalità, come vedremo. «Essi sono la coscienza stessa nella sua struttura originale, pro-iettiva e trascendente, in quanto essa è per principio coscienza di qualche cosa»20. Il desiderio è in stretta connessione con l’intenzionalità della coscienza, anzi si può affermare che è la stessa apertura di un orizzonte di possibilità oltre la contingenza delle cose così come sono. Torniamo al rapporto tra desiderio e bisogno istintuale. Se si considerassero gli istinti biologici come una dimensione autonoma – isolata dalla protensione del desiderare – non avremmo più le parole per dire la nostra condizione corporea, la nostra fattezza biologica. Il corpo sarebbe “solo” corpo, un aggregato di automatismi istintuali senza relazione con il Sé e con l’Altro, pura ripetizione di soddisfacimenti. In questa sua dimensione puramente biologica non avrebbe accesso alla sfera simbolica che solo il desiderio gli garantisce. Il corpo si tramuterebbe in un oggetto evanescente, ineffabile. Anche la fame e la sete non sono istinti allo stato puro ma esistono sempre nelle forme di coscienza-di-fame e coscienza-di-sete. «Il per-sé rimanda a sé. Qualsiasi cosa sia, esso lo è nel modo della coscienza di essere. La sete rimanda alla coscienza di sete, che essa è, come a suo fondamento - ed inversamente»21. La fame e la sete, come la collera, l’amore e qualunque altro stato immaginabile, sono modificazioni della coscienza. Ma non sono riducibili a dati, cioè non esistono come leggi reificate. La coscienza è fame, la coscienza è sete, la coscienza è collera e così via. Proviamo a forzare il testo sartriano. Si può affermare che la coscienza, gettata al mondo, si imbatta nella propria costituzione biologica senza poter simbolizzare del tutto quanto appartiene alla sfera dei suoi bisogni. Come se fosse un residuo preumano, animale di cui essa non è fondamento – e non potrebbe esserlo dato che la nostra costituzione biologica è una fattità che non scegliamo e che non possiamo quindi giustificare. Non possiamo neppure farne un oggetto esterno della conoscenza perché la coscienza non se ne può separare, è sempre immanente nella propria dimensione pulsionale. Le pulsioni – da quelle alimentari a quelle sessuali – sono presenti come cause attive, come moventi delle azioni dell’uomo e tuttavia sono evanescenti appena proviamo a isolarle come bisogni e istinti, e a considerarle forze autonome. Ci sfuggono non appena tentiamo di sostanzializzarle (che poi è il senso della critica sartriana alla psicoanalisi freudiana) e di farne oggetti di conoscenza. La coscienza teoretica presuppone una distanza, una posizione esterna rispetto al proprio oggetto che qui non è possibile. Non esiste la fame – la fame-in-sé – senza la coscienza-di-fame e viceversa. Noi siamo le pulsioni e non possiamo parlarne astraendo dal carattere di coscienzialità e intenzionalità con le quali esse ci si presentano. Fame, sete, sessualità sono più che bisogni, in esse è presente un'intenzionalità, un resto pulsionale che ne fa dei desideri.
3. Senza mancanza d’essere non c’è desiderio
Certo, il mangiare come ogni altro desiderio presuppone un rapporto con la corporeità – e più avanti cercheremo di determinare meglio questo rapporto. Ma intanto resta acquisito che il corpo in gioco nel soggetto che desidera è irriducibile al meccanismo biologico. La nozione di automa con il quale la tradizione cartesiana ha pensato tutto ciò che considerava estraneo al cogito riflessivo sarebbe qui del tutto fuori luogo. Il corpo della coscienza desiderante non consiste solo della sequenza di stati fisiologici e dei processi biochimici che pure in esso sono osservabili come una catena di cause ed effetti, quando si presenta lo stimolo della fame o della sete o della sessualità. C’è dell’altro. Il corpo si proietta verso il mondo perché si aspetta il soddisfacimento, perché il suo rapporto con le cose si gioca su una scommessa, sulla possibilità che esse, così come sono ora disposte, possano anche non corrispondere alle sue aspettative. L’uomo non desidera sotto la costrizione di forze psicobiologiche indipendenti di cui subirebbe l’effetto. Il suo desiderio è una domanda d’essere, è l’esperienza vissuta attivamente di un soggetto che si coglie come mancante e si proietta oltre il proprio stato corporeo. L’uomo affamato si supera verso una possibile condizione futura di sazietà. Quando diciamo d’avere desiderio di cibo non descriviamo uno stato fisiologico, uno stato colmo d’essere, ma, appunto, un desiderio, una carenza d’essere che vogliamo “turare”, una completezza che ci manca e che tuttavia è presente come possibilità. La fame è fenomeno di coscienza, è trascendenza che l’uomo stesso è, in quanto “essere mancante d’essere” che si progetta e si proietta verso il mondo nella dimensione del futuro. Bisogna ricorrere a un tortuoso giro di parole. Il corpo dell’uomo desidera perché l’uomo è l’unico essere che nel proprio essere si sente come mancanza di essere per poter essere l’essere che è. La carenza ontologica può appartenere solo alla realtà umana, a lei è concesso di negare e superare lo stato presente. Quello che lo distingue dalla pienezza ottusa delle cose che non mancano mai di nulla è che la coscienza è esperienza vissuta del nulla. Torniamo al testo sartriano. È la coscienza stessa che si determina attivamente nel proprio intimo a non essere l’in sé e andare oltre ciò che è 22. Il soggetto non è un dato naturale, è un’attività e il suo agire consiste perlopiù in un agire negativo – a differenza appunto delle cose che hanno un'esistenza esclusivamente conservativo-affermativa. Fare esperienza del nulla significa negare. Ma cosa potrebbe negare la coscienza se non ci fossero le cose sullo sfondo? «Il per-sé non può fondare se stesso che partendo dall'in-sé, e contro l’in-sé. [...] L’in-sé concreto e reale è presente, tutto intiero, nell’intimo della coscienza come ciò che essa si determina a non essere. [...] E, senza dubbio, il fatto di questa presenza costituisce la trascendenza del per-sé»23. Mentre le cose si determinano continuando semplicemente a essere quello che sono, l'uomo «si fa determinare nel suo essere da un essere che non è», deve negare quello che è in vista di qualcos’altro che non è ancora. L’uomo si scopre come «carenza d’essere». Si scopre «desiderio». Vediamo meglio questa negazione. Fra tutte le negazioni, scrive Sartre, «quella che penetra più profondamente nell’essere, quella che costituisce nel suo essere l’essere di cui (= in relazione a cui) essa nega insieme con l’essere che nega, è la mancanza»24. In un certo senso, anche le cose si negano a vicenda: nella misura in cui differiscono reciprocamente ciascuna cosa non è le altre. Ma è «una relazione esterna» che può essere stabilita solo da un testimone umano. La negazione che invece la coscienza esercita su stessa non è l’opera di un altro, è l’attività sua propria che nasce dal suo cogliersi come mancanza. Questo non può accadere nelle cose perché l’inseità è una condizione di ottuso rapporto positivo con sé, è coincidenza. È solo nel mondo dischiuso dall’uomo che le cose possono rivelarsi mancanti. Non perché lo siano in se stesse, ma perché c’è un soggetto che supera il dato dell’intuizione nell’immagine di una totalità possibile e ritorna al dato per scoprirlo come mancante. Se diciamo che la luna non è piena e le manca un quarto è perché proiettiamo questa intuizione nell’avvenire di una totalità realizzata e interpretiamo lo stato presente della luna sullo sfondo dell’immagine della luna piena. In se stessa una luna di tre quarti non manca di nulla, è una luna di tre quarti e basta. L’essere-in-sé non ha mancanza. È quel che è . È la coscienza che riproduce questa «totalità che è stata disgregata dalla mancanza», è lei che collega «l’esistente» al suo « mancante» per ricostituire la «totalità sintetica». Bisogna che esista un mancante, un esistente a cui manca il mancante ed una totalità disgregata dalla mancanza, la quale sarebbe ristabilita dalla sintesi del mancante e dell’esistente, che Sartre chiama il mancato. Ma la sintesi, appunto, è proiezione della coscienza che fa apparire le cose sullo sfondo di una mancanza. È solo in un mondo umano, nell’orizzonte dischiuso dal soggetto che il «mancato» dà senso «all’essere incompleto che si offre all’intuizione come mancante». La trascendenza umana ha come proprio «correlativo» un mondo nel quale tutto ciò che esiste conduce fuori di sé, «all'essere che non è, come al suo senso». Altrimenti le cose persisterebbero in un eterno presente parmenideo, nell’inconscio di un mondo opaco dove altro non ci sarebbe all'infuori dell’essere che è. Il superamento dello stato delle cose può avvenire solo se c’è un essere che «si costituisca come la propria mancanza». Ecco la struttura ontologica che fa dell’uomo un corpo desiderante. Se la coscienza non fosse “la propria mancanza” non potremmo spiegare il fatto che essa desidera. Come si potrebbe, infatti, spiegare il desiderio – dice Sartre – sostenendo che si tratti semplicemente di «uno stato psichico, cioè un essere la cui natura è d’essere ciò che è»? «Un essere che è ciò che è, nella misura in cui è considerato come ciò che è, non richiama niente a sé per completarsi. Un cerchio incompiuto non richiede il completamento, se non in quanto è superato dalla trascendenza umana. In sé è completamente e perfettamente positivo come curva aperta. Uno stato psichico, che esista con la sufficienza di questa curva, non può possedere, in aggiunta, il minimo “richiamo verso” altra cosa: è se stesso, senza alcuna relazione con altro da sé: per costituirlo come fame o sete, è necessaria una trascendenza esteriore che lo superi verso la totalità “fame placata”, come supera la luna crescente verso la luna piena»25. L’individuo è concretamente un diritto a essere la totalità singolare di cui manca e che è a titolo di possibilità futura. L’uomo affamato è incompleto, si proietta nella dimensione dell’avvenire, è coscienza d’essere possibilità-di-saziarsi. Io ho fame, mangio e mi sazio. Oppure ho sete, bevo e mi disseto. Cosa è accaduto? Si è verificato, con il soddisfacimento del bisogno, un passaggio da uno stato all’altro. Ma lo stato iniziale – precisa Sartre – anche se gli si concede l’efficienza di una causa, «non può possedere in sé i caratteri di un appetito verso un altro stato», non è per se stesso una possibilità che possa dischiudere la dimensione dell’avvenire. «La sete, come fenomeno organico, come bisogno “fisiologico” d’acqua, non esiste. L’organismo privato d’acqua presenta certi fenomeni positivi, per esempio una specie di condensamento coagulescente del liquido sanguigno, che provoca a sua volta altri fenomeni. L’insieme è uno stato positivo dell’organismo, che rimanda solo a se stesso, proprio come il condensamento di una soluzione, dalla quale l’acqua evapora, non può essere considerato in sé come un desiderio d’acqua della soluzione»26. Il desiderio non è un fenomeno biochimico. Il superamento dello stato iniziale nello stato successivo del dissetamento o della sazietà deve avvenire per un processo d’altro tipo, per una trascendenza che appartiene all’uomo e non per un meccanismo oggettivo, per fatti ch’egli subirebbe passivamente. Il desiderio è fenomeno di coscienza. Qualunque passaggio dell’uomo dal suo stato particolare a un altro stato è l’effetto non di forze indipendenti, ma della sua propria trascendenza. «Perché il desiderio sia desiderio a se stesso, bisogna che sia la trascendenza stessa, cioè che sia per natura fuga da sé, verso l'oggetto desiderato. In altre parole, bisogna che sia mancanza, ma non una mancanza-oggetto, una mancanza subita, creata dal superamento diverso da sé, bisogna che sia la sua propria mancanza di… Il desiderio è mancanza d’essere, è sollecitato nel suo più intimo essere dall’essere di cui è desiderio. Così testimonia l’esistenza di una mancanza nell’essere della realtà umana»27. Se così stanno le cose, allora anche per l’uomo deve valere la triade che segnala la mancanza, quella dell’esistente, del mancante e del mancato. Questa struttura deve ritrovarsi all’interno del processo del desiderio. L’esistente è «il desiderio nella sua immediatezza», l’individuo nel suo stato presente. Il mancante è l’oggetto del desiderio. Ma che cosa può essere il mancato, si chiede Sartre? È l’uomo integrale, l’individuo singolare che è realizzato come una totalità alla quale non manca nulla, è l’io che per essere Sé non ha da diventare altro da ciò che è. È una sintesi perfetta tra il Sé interiore e la sua esistenza esteriore, un interno che è esterno, un ideale che è diventato fatto. È rispetto a questo tipo umano integrale che l’individuo esistente si coglie come mancanza. «Ciò che solo importa, è che il mancante e l’esistente esistano o siano percepiti come qualcosa che deve annullarsi nell’unità della totalità mancata»28. Però l’uomo integrale è impossibile, ché se per ipotesi si realizzasse ridurrebbe l’individualità all’esistenza d’una cosa, d’un fatto senza più traccia di trascendenza. Eppure questa proiezione impossibile è il senso in vista del quale l’uomo progetta le proprie azioni e la propria vita. Sartre la chiama «il sé-come-essere-in-sé mancato che dà un senso alla realtà umana». Perché, se da un lato è impossibile, dall’altro è un desiderio di sintesi che fa da sfondo al progettarsi dell’uomo, ne costituisce il senso verso il quale l’io nega e trascende la propria situazione particolare. «L’in-sé mancato è pura assenza», è desiderio votato alla sconfitta che si concretizza in una trascendenza senza fine. «Questa è l’origine della trascendenza; la realtà umana è il proprio superamento verso ciò che le manca, si supera verso l’essere particolare che sarebbe se fosse ciò che è. La realtà umana non è qualcosa che esista subito, per mancare poi di questo o di quello: esiste subito come mancanza, ed in unione sintetica immediata con ciò di cui manca»29. L’uomo si percepisce come mancanza fin dal primo momento in cui esiste, desidera essere la totalità singolare di cui manca e che tuttavia è a lui presente come assenza, come possibilità sua propria. «La realtà umana è superamento continuo verso una coincidenza con se stessa che non è mai data»30. È il desiderio a rivelare il mancato dell’uomo, la possibilità d’essere che questo è, il senso che ne guida le scelte di vita. Di più: l’uomo è desiderio perché esiste come possibilità, come un oltre e un non-ancora in fuga da quel che egli è verso «un per-sé assente che esso è e di cui manca»31. Ma che il desiderio abbia per oggetto il possibile dell’uomo, la possibilità umana che ogni individuo è, non significa affatto farne un fenomeno d’irrealtà, un processo di produzione di identificazioni fantastiche del soggetto che non abbiano alcun diritto all’essere in quanto arbitrarie. Sartre, al contrario, attribuisce al possibile valore di realtà. «Grande è la difficoltà di comprendere il suo essere, perché si presenta come anteriore all’essere di cui è la pura possibilità, e purtuttavia, almeno in quanto possibile, bisogna che abbia dell’essere»32. Il possibile non è l’irreale, prova ne è che non è sufficiente pensare un essere fantastico per attribuirgli un grado di possibilità. L’ircocervo è sicuramente un prodotto di fantasia, una rappresentazione soggettiva ma non per questo potremmo definirlo possibile. La possibilità non è un «puro pensiero», è una proprietà dell’essere, allo stesso modo in cui, ad esempio, consideriamo la pioggia come una minaccia e un superamento di un cielo denso di nubi. Il che non significa dare per certo che la possibilità si realizzi, «ma solamente che la struttura d’essere della nube è trascendenza verso la pioggia», quantunque il rapporto della nube con la pioggia possa essere stabilito solo dal suo esterno e dall’uomo. Perciò nel desiderio «io sono sospinto fuori da esso [dal mio essere immediato] verso un senso che è inafferrabile, e che non può in nessun modo essere confuso con una rappresentazione soggettiva immanente»33. L’uomo che desidera è in rapporto col proprio possibile, si “rilassa”, allenta il legame col presente. Ed è un rilassamento che «giunge fino alla trascendenza» e che nessun soddisfacimento di alcun desiderio può mai arrestare. La coscienza desiderante attraversa il suo desiderio e ne fa qualcosa che non viene soppresso con la soddisfazione del bisogno. La sete soddisfatta non è soppressione della sete. È, al contrario, una sete che passa come desiderio a «pienezza d’essere», «s’incorpora la soddisfazione come la forma aristotelica s’impadronisce e trasforma la materia». L’alcolizzato non beve per estinguere la sete e l’uomo che «va nelle case pubbliche» non ha certo l’intenzione di sbarazzarsi del desiderio sessuale. E la bulimica, potremmo aggiungere, mangia ben oltre il soddisfacimento perché è dominata da un resto pulsionale, dall’oralità che nessun cibo potrà mai colmare. «La sete, il desiderio sessuale, al loro stadio irriflesso e naturale, vogliono godere di sé, cercano questa coincidenza con sé che è la soddisfazione, ove la sete si conosce come sete nel tempo stesso in cui il bere la soddisfa, ove per il fatto stesso della soddisfazione, perde il suo carattere di mancanza, pur sempre “facendosi” essere sete nella soddisfazione e per essa»34. Epicuro avrebbe così ragione e torto al tempo stesso, argomenta Sartre. Avrebbe visto giusto nel dire che il desiderio è un vuoto, allo stesso modo in cui la bulimica non mangia il pieno del cibo, ma rincorre il vuoto dell’altro, l’assenza di segni d’amore35. Ma avrebbe sbagliato nel presupporre una tendenza irriflessa a sopprimere questo vuoto. «Il desiderio, per se stesso, tende a perpetuarsi, l’uomo è ferocemente attaccato ai suoi desideri. Ciò che il desiderio vuol essere è un vuoto riempito, ma che dà forma a ciò che lo riempie come uno stampo dà forma al bronzo che gli cola dentro»36. È una possibilità che si possibilizza a ogni soddisfacimento senza potersi però mai realizzare al modo dell’in-sé, ogni volta scoprendosi come domanda e mancanza incolmabile. Ogni volta che un desiderio è soddisfatto si realizza, è vero, una possibilità, ma il risultato è un determinato farsi del soggetto, una nuova condizione soggettiva che a sua volta apre un nuovo orizzonte di possibilità. Per questo ogni soddisfazione, scrive Sartre, è accompagnata da un senso di disillusione, dalla frustrazione che si esprime nel detto “non è che questo?” e che testimonia l’evanescenza della coincidenza con sé che il desiderio soddisfatto dovrebbe portare con sé. Se è insopprimibile la mancanza – il per-sé è una presenza che manca di una certa presenza – allora insopprimibile sarà anche il desiderio, destinato a riaffermarsi e riprodursi come fuga dal presente verso il possibile. Un desiderio soppresso sarebbe il segno di un’individualità totale, di un sé singolare coincidente con la somma realizzata di tutti i suoi possibili, di un individuo, però, esistente al modo di un fatto. Il tipo umano che meglio corrisponde alla struttura del desiderio è il Don Giovanni, la figura del seduttore spinto da una compulsione interiore a vagare da una conquista amorosa all’altra. Non c’è nulla di gratificante nella seduzione ossessiva di una donna dietro l’altra, anzi a ogni successo sentimentale segue uno stato depressivo di insoddisfazione. Casanova, a sua volta, è una coscienza infelice votata allo scacco perché non appena conquista l’oggetto desiderato coglie piuttosto l’impossibilità del godimento – per dirla con Lacan – la distanza incolmabile tra il rapporto sessuale reale e quello immaginario. Il desiderio dell’amante non si acquieta nel corpo femminile amato, ma si scopre anzi irriducibilmente desiderio proiettato verso un possibile che è sempre oltre. Ma se queste che abbiamo analizzato – trascendenza, mancanza, possibilità – sono le strutture generali del desiderio, cosa distingue la pulsione alimentare dagli altri desideri? Sarte affronta la questione più avanti, nella terza parte de L’essere e il nulla, dedicata al “per-altri”. Le prime due sezioni hanno per titolo, rispettivamente, “L’esistenza d’altri” e “Il corpo”. L’ultima, nella quale compare, appunto, la distinzione tra desiderio alimentare e desiderio sessuale, ha per tema “Le relazioni concrete con gli altri”. Sartre passa in rassegna, da un lato, l’amore, il linguaggio e il masochismo e, dall’altro, l’indifferenza, l’odio, il sadismo. Tra quest’ultimi atteggiamenti fa di nuovo la sua comparsa il “desiderio”, questa volta nella forma di un desiderio del corpo per il corpo dell’altro. In che rapporto sta col proprio corpo che desidera l’altro? L’uomo che desidera si proietta ovviamente verso un oggetto, ma al tempo stesso vive la propria corporeità, «esiste il suo corpo in modo particolare. È nel rapporto con il corpo che Sartre coglie una differenza del desiderio sessuale dal desiderio di mangiare e, quindi, indirettamente aggiunge una definizione a quanto già sappiamo della pulsione alimentare. La differenza fondamentale è che mentre nel desiderio sessuale l’uomo si lascia prendere dai turbamenti del proprio corpo, ne è come sommerso, paralizzato, nella fame, invece, lo stato corporeo è sì presente, ma per essere superato nel soddisfacimento – il corpo viene sorpassato, ma non il desiderio di cibo che è insopprimibile, come s’è visto. «La fame, come il desiderio sessuale presuppone un certo stato del corpo». L’impoverimento del sangue, la maggiore secrezione di saliva, la contrazione dello stomaco e così via «si manifestano, per il per-sé come pura fattità» che non lo coinvolge. Non è come nel desiderio sessuale dove il corpo assoggetta imperiosamente l’individuo, lo domina e lo fa scivolare in un «languore». Nella fame il soggetto sfugge al proprio corpo verso i suoi possibili, verso uno stato di fame-soddisfatta. Il corpo è il «passato», il «superato», è semplicemente una contingenza da oltrepassare nel suo stato di essere-affamato verso la possibilità di soddisfacimento del bisogno37. Nella sessualità, invece, il per-sé «subisce la vertigine del suo corpo», «si abbandona al corpo, vuole essere il corpo e solo il corpo». Il desiderio sessuale ha senza dubbio il proprio oggetto, il corpo dell’altro, ma ciò non toglie che sia vissuto come abbandono al proprio corpo. «Nel desiderio, il corpo, invece di essere solamente la contingenza che il per-sé fugge verso dei possibili che gli sono propri, diventa, allo stesso tempo, il possibile più immediato del per-sé». È il corpo stesso a essere vissuto come propria possibilità di affermazione38. In queste stesse pagine apprendiamo però anche un’altra caratteristica del desiderio, una nota generale che vale tanto per la pulsione sessuale quanto per quella alimentare. Si trova qui uno dei passi più chiari, forse, nei quali Sartre spiega quale sia la struttura fondamentale del desiderio. Bisogna uscire dall’idea che il fine sia la ricerca di un piacere o la cessazione di un dolore da raggiungere con la soppressione-soddisfazione del desiderio. Il limite di questa concezione è di non uscire dal soggettivismo e di ridurre il desiderio a un meccanismo di autoreferenzialità attraverso il quale il soggetto non avrebbe altro obiettivo che il proprio piacere o la fine del dolore. Che cosa questa opinione non coglie di fondamentale nel desiderio? Il fatto – sostiene Sartre – che un desiderio esce dall’Io, lo trascende e si lega a un oggetto, al suo oggetto, a questo determinato oggetto. Per quanto nel desiderare sia sempre in gioco una domanda d’essere, un progetto complessivo di se stessi che avrà sempre delle possibilità ulteriore da realizzare, nondimeno ha bisogno di fissarsi su un contenuto specifico, deve investire un certo oggetto o un’altra persona. Non ci sono desideri astratti, ma abbiamo sempre il desiderio di quella donna, il gusto alimentare per determinati cibi e così via. «Ogni teoria soggettivistica o immanentista non riuscirà a spiegare perché noi desideriamo una donna e non semplicemente il nostro soddisfacimento. Conviene quindi definire il desiderio per mezzo del suo oggetto trascendente»39.
4. A tavola si trascende. Oltre l’indifferenza delle cose, verso un mondo
È a questo punto che possiamo compiere un salto di qualità nell’analisi. Sinora abbiamo preso in considerazione l’intreccio tra uomo e desiderio sulla base della domanda d’essere che il soggetto esprime senza mai poterla colmare. L’uomo è desiderio e il desiderare gli è connaturato perché è mancanza d’essere, s’è visto, non coincide mai con se stesso ed è sempre oltre ciò che è al presente, come fattività esposta allo sguardo altrui. L’uomo esiste in maniera eccentrica, è erratico esattamente come il desiderio, non c’è misura che possa colmarlo, non c’è oggetto, soddisfacimento, stato di fatto che possa sopprimerne la trascendenza. Finché sarà, l’uomo sarà essere desiderante, essere mancante d’essere, superamento della propria contingenza e fuga verso le proprie possibilità di realizzazione, compreso l’ideale estremo, la totalità che comprende tutte le possibilità e che è destinato a rimanere irraggiungibile: l’Uomo-Dio, l’umano che abolisce la contingenza del proprio esistere e che è causa sui, come la sostanza divina spinoziana. Il desiderio è lo sforzo dell’uomo per essere Dio. Ma ora abbiamo introdotto l’altro versante della trascendenza del desiderio, quella attraverso cui l’uomo si pone in rapporto con l’oggetto, con l’altro, con il mondo. Il desiderio, qui, non è più soltanto la domanda d’essere, ma è anche rapporto d’appropriazione con le cose. È domanda d’avere che si proietta sul mondo, porta la propria attenzione alla materialità degli oggetti, si sente attratto da alcuni di essi e disgustato da altri, nonostante le cose debbano per principio restare non-significanti. Gli oggetti parlano al nostro corpo, rivelano certe qualità ai nostri gusti. Stabiliamo una mappa del mondo, un «immenso simbolismo»40 che ci fa venire all’esistenza in una geografia familiare di attrazioni e repulsioni, di odi e simpatie. Il corpo si fa intenzionalità attraverso il desiderio, si lega a certi oggetti, dischiude un rapporto con il mondo, ne abolisce l’indifferenza. La presenza insensata delle cose viene meno nella misura in cui l’uomo investe gli oggetti di significati affettivi in relazione, appunto, ai propri desideri41. Dove quel che conta non è l’ordine dei fatti ma quello delle possibilità che la coscienza riconosce davanti a sé, nella dimensione dell’avvenire, come potere di modificare la disposizione presente delle cose. Certo, il mondo può anche essere inquietante, una minaccia che viene da fuori, eppure l’uomo impara a muoversi tra le cose, il suo corpo risponde alle sollecitazioni esterne, abita il mondo e costruisce con esso un rapporto di familiarità. Il bambino apprende a camminare e a parlare perché è incalzato dai bisogni, perché con la motilità e il linguaggio spera di raggiungere il soddisfacimento delle sue pulsioni e di neutralizzare la presenza minacciosa del mondo grande e terribile. Deve esserci un rapporto originario tra l’uno e l’altro, «il mio corpo è ovunque nel mondo, è coestensivo al mondo, esteso attraverso tutte le cose e, insieme, raccolto in questo solo punto che esse tutte indicano e che io sono senza poterlo conoscere»42. Senza un corpo che desidera e che impara a muoversi verso le cose, che dà loro un nome e le inscrive in una mappa soggettiva di abitudini e significati affettivi non ci sarebbe neppure l’apertura di un mondo. Le cose persisterebbero nella loro indifferente neutralità, nel loro insensato riposare in se stesse. I desideri e gli appetiti colorano le cose di «significati affettivi»43, trasfigurano un paesaggio di natura in un’impressione lieta o triste, un volto in una presenza simpatica o antipatica. E, allo stesso tempo, senza un mondo non ci sarebbe quell’orizzonte di sollecitazioni che indica al nostro corpo le sue possibilità – camminare, parlare, mangiare, desiderare. Il più elementare dei gesti corporei non può prescindere dal suo attuarsi nel mondo. Sarebbe come pretendere di imparare a nuotare senza immergersi in acqua. Non c’è movimento del corpo che possa prescindere dal suo attuarsi nel mondo e dallo stabilirsi di un rapporto di familiarità tra l'uomo e il suo esterno.
5. L’assimilazione dei cibi: l’essere rivela le sue qualità
Dovrebbe ormai essere chiaro che il mangiare con la sua struttura di desiderio rinvia al leit motiv principale de L’essere e il nulla, quello del per-sé come libero progetto. Ora si tratta di articolare il fine generale dell’uomo che è la libertà attraverso i fini particolari. Nell’ultima parte dell’opera Sartre tenta, in altre parole, di passare dal desiderio in generale ai desideri particolari, dall’ontologia alla psicanalisi esistenzialista, dalle strutture del per-sé al modo in cui ogni uomo particolare «si definisce per mezzo dei suoi desideri». Ma così si entra nel territorio della psicologia. Abbiamo già accennato alla polemica sartriana contro la teoria freudiana delle pulsioni. In questa sede sarebbe troppo lungo rendere conto della critica di Sartre nel dettaglio. È sufficiente rimarcare che il motivo di scontro con la psicanalisi freudiana sta nel fatto che questa interpreta i desideri come contenuti della coscienza, come entità psichiche presenti nell’uomo sul modello della libido e che agirebbero alla stregua di leggi oggettive. La psicologia empirista sarebbe responsabile agli occhi di Sartre dell’errore di voler spiegare la personalità individuale scomponendola in una combinazione di schemi astratti. Lo psicologo retrocede dall’individuo all’osservazione di tendenze generali, di «desideri tipici» e si arresta a questi ultimi come «dati primi inesplicabili». Lo psicologo ci dice che “Flaubert era ambizioso”, ma se domandiamo perché, risponderà che “era così e basta”, che è una domanda inutile come voler cercare di sapere perché era grande e biondo. La posizione di Sartre, che è rilevante per cogliere l’ultimo tassello che ancora manca nel nostro itinerario sul mangiare, è invece che in ogni desiderio particolare, in ogni tendenza, in ogni inclinazione la persona si esprime interamente, «benché sotto un angolo diverso», «un po’ come – aggiunge – la sostanza spinoziana si esprime interamente in ognuno dei suoi attributi. Se è così, dobbiamo scoprire in ogni tendenza, in ogni modo di agire del soggetto, un significato che lo trascende»44. Anche a tavola, anche nei gusti alimentari, nelle preferenze e nelle repulsioni, in ogni scelta che l’individuo compie in situazioni concrete deve potersi manifestare il progetto fondamentale dell’uomo. Deve esserci un passaggio tra i due diversi piani, l’uno descritto dalla fenomenologia ontologica che ha per tema l’uomo come mancanza e desiderio d’essere, come libera scelta che crea le proprie possibilità e anela a diventare Dio; l’altro costituisce tradizionalmente il territorio della psicologia che studia invece le scelte concrete, i desideri particolari, i comportamenti dell’individuo in circostanze empiriche. La psicanalisi esistenziale deve muoversi su questa soglia ma per abolire la distanza. Non c’è un’ontologia che tratta le categorie universali dell’essere umano come se queste venissero prima dell’esistenza empirica. Così come è un’astrazione quella della psicologia quando considera la persona una somma di mille sentimenti particolari e si arresta alla «nomenclatura dei desideri empirici», irriducibili a ulteriori significati. L’esperienza ci mostra invece che ogni singolo uomo costruisce la propria identità, se stesso, proprio nelle scelte particolari che compie nelle circostanze date, mai al di fuori di esse. Il filo della nostra identità si dipana nelle scelte empiriche, è attaccato a queste ma come loro «significato trascendente», come un loro «al di là». Ogni progetto esprime la «totalità del mio essere» sotto l’angolatura di una certa situazione, «non è altro che la scelta di me stesso [in circostanze particolari]»45. L’uomo che l’ontologia ha descritto come valore, progetto, mancanza e desiderio d’essere non esiste in astratto, ma deve manifestarsi come un certo uomo, una persona singola. «Non è che il desiderio d’essere sia dapprima per farsi esprimere in seguito dai desideri a posteriori: ma non è nulla al di fuori dell’espressione simbolica, che trova nei desideri concreti. Non c’è dapprima un desiderio di essere, poi mille sentimenti particolari, ma il desiderio di essere non esiste e non si manifesta che con la gelosia, l’avarizia, l’amore dell’arte, la vigliaccheria, il coraggio, le mille espressioni contingenti ed empiriche che fanno sì che la realtà umana non ci appaia mai che manifestata da un certo uomo, da una persona singola»46. Il problema del desiderio non può dirsi risolto con la teoria generale dell’essere umano. L’ontologia può fissarne i contorni, può rintracciare il senso dell’inquietudine umana che è quello di fuggire la propria contingenza, di diventare il proprio fondamento. Il senso del desiderio dell’uomo è quello essenzialmente di essere come Dio, ma con ciò abbiamo raggiunto solo l’orizzonte dentro il quale possono verificarsi una miriade di scelte empiriche e desideri individuali. Se l’uomo-dio fosse una definizione dell’essenza umana non ci sarebbero più margini di libertà e il destino dell’uomo sarebbe già inscritto nella sua natura. «Risponderemo a ciò dicendo che se il senso del desiderio è in ultima analisi il progetto di essere Dio, il desiderio non è mai costituito da questo senso, ma invece rappresenta sempre un’invenzione particolare dei suoi fini»47. Il senso dell’esistenza umana non è data a priori, ma deve inventarsi in una miriade di desideri che sorreggono la complessa architettura simbolica del quotidiano. Anche nelle inclinazioni più comuni, nelle preferenze e nelle avversioni, persino nelle abitudini alimentari l’individuo sceglie il proprio modo d’essere. Ognuno di questi singoli atti è un artificio, un’operazione simbolica – anche i cibi che arrivano sulla nostra tavola sono il risultato di una cultura – un gesto di libertà con cui l’uomo ha snaturato gli oggetti dei propri bisogni e li ha inglobati all’interno del proprio modo d’essere. Non c’è prevedibilità nel libero gioco dell’invenzione che produce nelle circostanze date il senso dell’esistenza umana. Non c’è un esito scontato perché l’uomo non può appoggiarsi a un istinto biologico predeterminato. Il soggetto non può sfuggire al tratto fondamentale della sua esistenza, quello di essere libertà che «precede l’essenza», «scelta che si crea le proprie possibilità». Né la filosofia può chiamarsi fuori per snobismo aristocratico dal decifrare i geroglifici del quotidiano, non può permettersi di disdegnare quello sterminato campo di comportamenti individuali, tendenze e inclinazioni nel quale persino il tic più comune rivela un simbolismo. Il principio della psicanalisi esistenziale è che «l’uomo è una totalità e non una collezione: che di conseguenza si esprime integralmente, nel più superficiale ed insignificante dei comportamenti, in altre parole, che non c’è un gusto, un tic, un atto umano che non sia rivelatore»48. Preferenze e avversioni per le cose concorrono a formare il significato del mondo nel quale veniamo all’esistenza, sono indicative del nostro rapporto con l’essere e di come questo affiora alla sua superficie. È per effetto della trascendenza dell’uomo che appaiono delle qualità dell’essere, come effetto di «uno sforzo metafisico per sfuggire alla nostra condizione, per oltrepassare l’involucro di nulla del “c’è” e per penetrare fino all’in-sé puro». Questo avviene nel mangiare: la consistenza del cibo, il sapore che rivela al nostro gusto, il suo coefficiente di resistenza sotto i denti, ci manifesta «la qualità come simbolo di un essere che ci sfugge totalmente, ancorché sia totalmente lì, davanti a noi». Non abbiamo che l’essere rivelato come simbolo dell’essere-in-sé. Ogni «rivelazione intuitiva dell’essere» – il giallo, il vischioso, il rugoso, il liscio – costituisce un problema metafisico. «Sono tutti problemi che la psicanalisi dovrà risolvere, se vorrà un giorno comprendere perché Pietro ama le arance ed ha orrore dell’acqua, perché mangia volentieri il pomodoro e rifiuta invece le fave, perché vomita se lo si costringe a inghiottire delle ostriche o delle uova crude»49. Ma sarebbe riduttivo pensare che le qualità siano soltanto le nostre proiezioni affettive sulle cose. Il vischioso, ad esempio, può funzionare come simbolo di relazioni umane negative perché si dà «come una certa qualità materiale», perché è «originariamente carico di un senso affettivo». Per poter stabilire, come avviene, una relazione simbolica tra la vischiosità e la «bassezza appiccicosa di certi individui» bisogna che il vischioso sia già nella sua materialità propenso a simbolizzare un certo significato negativo, che riveli una certa tendenza a riassorbire il per-sé nella condizione dell’inseità. Per lo stesso motivo i gusti alimentari non vanno confusi per dati irriducibili, come fossero inclinazioni individuali che non avrebbero nessun’altra giustificazione all’infuori dell’essere quel che sono. Accettare o rifiutare un alimento significa prendere una posizione rispetto a un certo modo di essere dell’oggetto-cibo, «mi rivela l’essere col quale farò la mia carne», mangiandolo, attraverso una distruzione assimilatrice50. Non è indifferente che piacciano le ostriche o le peloridi, le lumache o i granchiolini, per quanto poco siamo in grado di districarci nei significati esistenziali di questi alimenti. Ma «l’ontologia qui ci abbandona». Note con rimando automatico al testo
1 Nessun oggetto-cibo può riempire il vuoto del soggetto. Questa consapevolezza anima anche la protesta dell’anoressica. «nessun oggetto vale l’amore, nessun oggetto può trattenere ciò che non è dell’ordine dell’avere, nessun oggetto può riempire il vuoto d’essere del soggetto, nessun oggetto è mai abbastanza. È questa la funzione del niente nell’anoressia: niente vale se non è segno dell’amore. Di questa verità svolge la prova – come si dice in matematica – la bulimica che in ogni crisi esibisce la vanità e l’inconsistenza di fondo della sostanza. Niente, infatti, nemmeno l’oggetto-cibo può suturare la mancanza che abita il soggetto» (M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, Bruno Mondadori, nuova edizione, Milano 2007, p. 20). 2 C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, il Saggiatore, Milano 1990. 3 Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 1991, p. 737. 4 Ibidem. 5 Ibidem. 6 Ivi, p. 118. 7 Ivi, p. 17. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ivi, p. 123. 11 Ivi, p. 124. 12 Ivi, p. 125. 13 Ivi, p. 124. 14 Sulla matrice fenomenologica della libertà in Sartre si veda V. Costa, E.o Franzini, P. Spinicci, La fenomenologia, Einaudi, Torino 2002, p. 284 e sg. 15Jean-Paul Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 126. 16Ivi, p. 127. 17 Per la psicoanalisi c’è una differenza di fondo tra l’organismo vivente governato da leggi biologiche inscritte nel suo patrimonio genetico e il corpo umano che passa attraverso una rielaborazione culturale e simbolica. (cfr. M. Recalcati, op. cit., p. 32). La stessa pulsione – che potremmo considerare un analogo del desiderio se non fosse che agli occhi di Sartre essa viene ridotta dalla psicoanalisi, dopo averla scoperta, di nuovo a residuo biofisico – è un montaggio di due distinti soddisfacimenti. Uno, appunto, di tipo biologico-naturale che coincide con l’esplicarsi di una funzione istintuale e il soddisfacimento di un bisogno specifico (ho fame e soddisfo l’appetito mangiando). L’altro, invece, è un soddisfacimento pulsionale che si accavalla sul primo ed è irriducibile al bisogno (che nel mangiare chiede il soddisfacimento libidico dell’oralità) ma che si struttura come una domanda incolmabile, almeno secondo il pensiero lacaniano (su questo si veda ancora lo studio citato di M. Recalcati, pp. 36-37). 18L’essere e il nulla, cit., p. 669. 19Ibidem. 20Ibidem. 21Ivi, p. 127. 22 Ivi, p. 131. 23Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ivi, pp. 132-33. 26 Ivi, p. 133. 27 Ibidem. 28 Ivi, p. 134. 29 Ivi, p. 135. 30 Ibidem. 31 Ivi, p. 143. 32 Ibidem. In queste pagine Sartre deve sostenere un confronto con le posizioni di Leibniz e Spinoza per dimostrare che il possibile ha una propria consistenza ontologica. Per riuscire nell'impresa deve respingere tanto la tesi spinoziana che il possibile sia l’illusione di un pensiero finito come quello umano che non comprende la necessità di tutto ciò che accade nel mondo; quanto quella leibniziana che al possibile attribuisce come unica realtà quella di un pensiero di un essere anteriore al mondo reale o anteriore alla conoscenza pura del mondo quale esso è. «In entrambi i casi il possibile perde la sua natura di possibile e si riassorbe nell'essere soggettivo della rappresentazione». 33Ivi, p. 147. 34Ivi, p. 149. 35 Cfr. M. Recalcati, L’ultima cena: anoressia e bulimia, cit., p. 40. 36L’essere e il nulla, cit., p. 149. 37 In questo superamento del corpo è come se si dissolvesse ogni distinzione tra interiorità ed esteriorità. Non c’è esteriorità che possa agire dall’esterno su di me, perché il corpo – come si vede in queste pagine sartiane – è da subito fuori, presso le cose, aperto al mondo. Il corpo – anche quando ha fame – dimora nella protensione dei suoi atti, non è una cosa davanti alle cose, ma è “fuga”, come dice Sartre (su ciò cfr. U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 2006, p. 152). 38 Per la lettura delle pagine sartriane sul desiderio sessuale si può fare riferimento all’interpretazione di Galimberti nel saggio citato sul corpo (pp. 244-49): «Il desiderio sessuale non implica necessariamente un’attività sessuale», non è un desiderio di fare, ma di un oggetto trascendente. Ma, di nuovo, non un oggetto consueto, bensì di un altro corpo che «fa la sua apparizione sullo sfondo di una situazione in cui si allude alla seduzione e al turbamento». «Complice del mio desiderio di trascendermi, scivolo progressivamente verso quel consenso passivo al desiderio dell’altro in cui è la passione, la cui cecità è nell’incapacità di discernere se l’altro desidera trascendersi nel mio corpo o semplicemente farsi gioco di me. Gli inganni d’amore sono possibili perché il mio corpo non si distingue dal suo desiderio, non può distanziarlo come fa il pensiero con i suoi oggetti, perché non ci sarebbe desiderio se a questo il corpo non prestasse la sua carne». 39 L’essere e il nulla, cit., pp. 470-71. 40 Ivi, p.726. 41 «Nell’attesa c’è la possibilità che le cose non siano come si attendono. Dalla possibilità negativa nasce per il corpo il suo impegno nel mondo, il suo intervento per modificare la disposizione della cose che, così come sono, non rispondono immediatamente alle sue aspettative. Le cose, infatti, come dice Sartre, sono solo promesse, diventano realtà quando il corpo le raggiunge, e raggiungendolo verifica quel che Bachelard chiama il coefficiente di avversità degli oggetti, la loro resistenza, la loro minaccia, la loro malleabilità» (U. Galimberti, op. cit., pp. 131-32). 42 L’essere e il nulla, pp. 395-96. 43 U. Galimberti, op. cit., p. 307. 44L’essere e il nulla, p. 676. 45 Ivi, p. 677. 46 Ivi, p. 679. 47 Ivi, p. 680. 48 Ivi, p. 682. 49 Ivi, pp. 724-25. 50 C’è un testo che dimostra una singolare consonanza con la chiusa de L’essere e il nulla che Deleuze ha eliminato dalla stesura finale del saggio La piega (a cura di D. Tarizzo, Torino, Einaudi 2004). Il testo si può rintracciare in un corso preparatorio dedicato a Leibniz: «Come fa l’animale a sapere di cosa ha bisogno? L’animale vede delle qualità sensibili, ci si getta sopra e le mangia, tutti mangiamo delle qualità sensibili. La mucca mangia del verde. Essa non mangia dell’erba, e tuttavia non mangia un verde qualsiasi poiché riconosce il verde dell’erba e non mangia soltanto il verde dell’erba. Il carnivoro non mangia delle proteine, mangia la cosa che ha visto, non vede delle proteine. Il problema dell’istinto, al livello più semplice, è: come si spiega il fatto che le bestie mangiano pressappoco ciò che gli conviene? In effetti, le bestie per il loro pasto mangiano la quantità di grassi, la quantità di sale, la quantità di proteine necessaria all’equilibrio del loro “ambiente” (milieu) interiore. E il loro ambiente interiore che cos’è? L’ambiente interiore è il luogo di tutte le piccole percezioni e le piccole appetizioni» (Lezione del 29/04/1980, disponibile su www.webdeleuze.com ). |