numero
7
KAINOS
2007
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Ramón
Turró, La fame. Origini della conoscenza
a cura di Vincenzo Cuomo
La sua opera più nota è, infatti, Origens del coneixement: la fam (Barcelona, Societat Catalana d’Edicions, 1912) – che, tuttavia, fu pubblicata dapprima in tedesco (Ursprünge der Erkenntnis. Die physiologische Psychologie des Hungers, Leipzig, Verlag von Johan Ambrosius Bath, 1911). L’opera ebbe traduzioni in francese e in italiano (La fame. Origini della conoscenza, prefazione di Miguel de Unamuno, trad. dallo spagnolo di Giulio Pacuvio, Milano, Valentino Bompiani, 1949). Accanto ad essa, è importante ricordare anche Filosofia critica (Barcelona, 1918), in cui sintetizza e specifica la sua posizione filosofica sia nei confronti della tradizione empirista che nei confronti del kantismo. Turró muore nel 1926. Le pagine che presentiamo sono tratte dalla traduzione italiana di La fame. Origini della conoscenza. In esse Turró elabora una originale teoria gnoseologica di orientamento pragmatista che si distacca, criticandole con buoni argomenti, sia dalla tradizionale impostazione empirista, sia da quella che egli chiama “speculativa”(e in cui fa rientrare tutte le posizioni non empiriste). Partendo dal processo trofico (nutritivo) che l’organismo animale stabilisce con l’ambiente, egli mostra come nasca la conoscenza aurorale (e animale) della realtà esterna e della causalità. Il problema fondamentale su cui riflette è il seguente: in che modo sappiamo (in che modo anche l’animale sa) che la sensazione è la “prova” di un’alterità oggettuale e non è un semplice (nostro) stato mentale? Per Turró l’esteriorità delle cose è provata fondamentalmente dalla percezione “tattile” (su cui cfr. il suo Orígen de la representacions de l’espai tàctil, Barcelona, 1913), che costituisce le relazioni spaziali elementari. La percezione tattile, a sua volta, si inscrive nei processi psicomotori attraverso cui l’individuo si adatta al suo ambiente di vita. Tuttavia, ciò che muove la percezione tattile e i processi psicomotori è l’istinto trofico. In tal modo Turró spiega l’origine delle strutture conoscitive superiori a partire da nessi che si dispiegano nella relazione tra il processo trofico e i processi senso-motori elementari. Il legame (completamente a posteriori) che l’interazione con l’ambiente produce tra il processo trofico, quello sensoriale e quello motorio, è, quindi, ciò che origina, a suo parere, sia la certezza “animale” che ci sia “qualcosa” fuori del proprio organismo, sia l’acquisizione della aurorale capacità di concepire la relazione di causa-effetto. Le tesi di Turró, per quanto svolte in un linguaggio filosofico che ora appare un po’ datato, forse oggi potrebbero essere accolte e ripensate in un contesto problematico più ampio. Per restare in ambito filosofico, senza voler per forza rincorrere le ultime proposte neuro-biologiche, sarebbe ad esempio interessante capire come le sue analisi possano contribuire ad un ampliamento-aggiornamento della fenomenologia genetico-costitutiva dell’esperienza. Ci sarebbe, poi, da indagare sulla paradossale vicinanza tra la descrizione che Turró fa dell’esperienza trofica e le tesi hegeliane sull’appetito “animale”. Infatti, è come se – al di là delle sue intenzioni esplicite – egli avesse ripreso il discorso sulla “appetizione”, sulla Begierde – intesa come relazione pragmatico-conoscitiva che la coscienza animale instaura con l’ambiente – là dove Hegel l’aveva lasciata (per dedicarsi alla descrizione della relazione-scontro tra le autocoscienze), e avesse mostrato come, in quella relazione appetitiva, in quella relazione trofica si nascondesse molto di più di quel che il grande pensatore tedesco aveva scorto. Questi sono i motivi che ci hanno convinti a riproporre, in un numero dedicato al tema della “fame-sazietà”, una scelta di pagine dell’autore catalano.
[Il soggetto che pensa è il soggetto che mangia] 1
[…] Le origini della conoscenza, sia che si interpretino con la teoria speculativa che con la teoria empirica, risultano sempre dal conflitto dei sensi con una causa esterna, fino a tal punto che se questo conflitto non si verificasse, l’intelligenza dormirebbe eternamente come forza latente. Una volta che si sia accertato questo punto di vista, sezioniamo, per così dire, le funzioni della sensibilità trofica dalle funzioni della sensibilità esterna, come se le une nulla avessero da vedere con le altre. Il sensorium è diviso in due grandi segmenti: uno anteriore, che obbedisce all’azione del mondo esterno e crea le funzioni della vita di relazione, e un altro posteriore, che obbedisce all’azione del mondo interno o organico, creando le funzioni della vita vegetativa. Frammentata così l’unità strutturale e fisiologica del sistema nervoso, resta anche spezzata l’unità indivisibile della coscienza, poiché con questa strana ipotesi, si suppone che il soggetto che pensa, non abbia niente a che vedere con il soggetto che mangia. Se si separa in tale maniera il sensorio dal soggetto, non si può certamente pensare che la sensibilità trofica apporti elementi intellettivi di gran valore; si suppone, come un dogma assoluto, come un postulato indiscutibile, che quanto l’intelligenza scopre, proviene direttamente dai sensi o che l’intelligenza lo tragga da se stessa in virtù di forme o principi in essa preesistenti o immanenti. L’analisi, spoglia di ogni pregiudizio, ci dimostra ben chiaramente che il soggetto che mangia è lo stesso di quello che pensa, giacché, per sovvenire alle necessità dell’organismo, occorre sapere, prima di tutto, quali siano le sostanze del mondo esterno che possono soddisfarle. L’ingestione non è un atto che può effettuarsi come la secrezione renale o la glucogenesi; non è un atto meccanico, ma intellettivo. Alle sue origini, l’intelligenza proviene dagli strati inferiori, dai processi organici, da ciò che nella sensibilità trofica si preforma come sensazione della fame. […] Tra la sensazione trofica, la sensazione esterna e la sensazione gastrica si stabilisce per mezzo dell’esperienza un legame intimo e profondo; se la prima accusa la mancanza di qualcosa, la seconda, per mezzo di immagini, ne denuncia la presenza; mentre la terza denuncia chiaramente, con il sentimento della sua presenza, la realtà di quella cosa che le immagini avevano annunciato. L’intelligenza comincia di qui. […]. In questo modo si stratificano le esperienze nel sottosuolo dell’intelligenza e si formula il postulato, che serve da base e da dove si sviluppa, come da un punto di partenza iniziale, ogni ulteriore processo intellettivo: l’immagine sensoriale corrisponde a qualcosa di reale; se non vi corrisponde è illusoria; se vi corrisponde inesattamente, è falsa. Questa conoscenza fondamentale non è congenita, né ci è data per processo spontaneo da una facoltà o da un principio intellettivo irriducibili a fenomeno sperimentale, come fosse la fonte da cui i fenomeni provengono; ma risulta dall’esperienza trofica, fino a tal punto che se l’animale ignorasse di nutrirsi, la sua intelligenza non giungerebbe mai a sapere che la realtà esiste. […] Da che cosa l’intelligenza deduce che le immagini sensoriali corrispondono ad una cosa reale? Come sa che questa cosa esiste come la conditio sine qua non di ogni percezione possibile, se questa cosa non produce un effetto, se, come diceva Giovanni Müller, con frase incisiva ed espressiva, è vero che i sensi non trasmettono la qualità delle cose, ma i loro propri mutamenti di stato? Lo sa, perché prima che gli occorresse riferire un effetto alla sua causa, la reazione all’azione, fece una somma enorme di esperienze, per mezzo delle quali giunse a darsi esattamente conto che queste sensazioni non lo informavano della presenza della cosa reale, fino al bel momento in cui scoprì che quando la sua fame si calmava appariva sempre ai suoi sensi un certo quadro di sensazioni; e quando provò molte volte che così si svolgevano i fenomeni nella sensibilità esterna e nella sensibilità trofica, nonostante la loro natura diversa, ne dedusse necessariamente che poteva prendere i primi come segno di secondi: e quando la fame lo attanagliava, sperava che apparissero quei fenomeni esterni e quando apparivano poteva dirsi: ecco ciò che calma la fame. […] Noi attribuiamo le reazioni dei nostri sensi ad una realtà esterna. In virtù di che cosa? Non lo sappiamo. […] Dobbiamo confessare sinceramente che non sappiamo come lo sappiamo, nonostante che lo affermiamo decisamente. […] Helmholtz distingue il puro elemento sensoriale dalla sua proiezione esteriore. Secondo lui, la sensazione è un segno, che deve essere interpretato; finché non lo è, è come scritto per chi non sa leggere. […] Un elemento sensoriale, il colore, per esempio, è attribuito alla cosa che ha eccitato il senso. Ma in virtù di che cosa si giunge a sapere che l’impressione che il senso riceve corrisponde all’oggetto che l’ha determinata? In virtù dell’esperienza motoria. Non si tratta di un riferimento spontaneo, che si determina per virtù occulta, si chiami principio intellettivo o si chiami categoria: si tratta di una attribuzione basata su un dato preesistente, su un’azione fisiologica: il movimento.
[Ciò che ci manca è qualcosa] 2
Percorso già il difficile cammino, che, nelle pagine precedenti abbiamo fatto a passo a passo, sappiamo che per il puro fatto di verificarsi e ripetersi diverse volte tre sensazioni elementari, la trofica, l'esterna e la gastrica, l'animale acquista la coscienza della loro successione. Non occorre altro, perché gradualmente il secondo fattore diventi rappresentativo dell'effetto trofico e venga previsto prima che l'eccitamento cellulare lo accusi. Un tale fenomeno intellettivo è tanto naturale, che senza alcuno sforzo, una volta che si siano intesi i termini del problema, si comprende che le cose avvengono in tal modo perché non possono avvenire in altro: ed è allora che la successione dei fatti assume una forma logica all'occhio dell'osservatore che la esamina, poiché ciò che nella fase empirica del processo ci appare come una semplice successione di stati, nella fase logica ci appare come una successione necessaria. Quando davanti ad un cattivo effetto trofico si produce un'immagine, il soggetto ignora come mai si produca, ma il fatto è che essa si presenta sempre prima che la sensibilità trofica accusi il cattivo effetto; e poiché questo effetto cattivo lascia un'orma nel sensorio, giunge un momento in cui la riapparizione dell'immagine risveglia quel ricordo: e tanto basta per prevedere quello che avverrà, molto prima che realmente avvenga. Questa intuizione del futuro si affina e si perfeziona di giorno in giorno, fino al punto di poter giudicare in anticipo, per mezzo di un odore o di un sapore, o più comunemente per mezzo di un quadro speciale di impressioni, ciò che egualmente accuserebbe dopo un certo tempo l'eccitamento cellulare. Questa successione prevista è ciò che chiamiamo una successione logica o intellezione. Che cosa occorre perché possa essere formulata? Una successione empiricamente stabilita, che lasci un ricordo nel centro sensoriale e in quello psicotrofico. E che cosa occorre perché questo ricordo si imprima? Un eccitamento periferico ripetuto, che si verificherà sempre nelle stesse condizioni, e sempre lo stesso in ogni caso. Che occorre perché l'immagine evochi il ricordo trofico? Una via di comunicazione che prima non esisteva, una connessione centrale che li colleghi. Ecco lo schema dell'intellezione trofica. Perché questa intellezione si formuli non è necessario che precedentemente si siano formulate altre conoscenze, nemmeno le più fondamentali di realtà e di causa. Perché il soggetto ha bisogno di sapere che l'immagine è stata determinata da una causa e che ciò che ha determinato l'effetto trofico è qualcosa che è entrato nel suo organismo? Gli basta aver provato i suoi effetti, perché i ricordi simultanei di uno o dell'altro determinino l'intuizione o il ricordo complessivo di ciò che nuovamente avverrà; per sapere invece che l'immagine non è sorta spontaneamente, ma per mezzo di una causa, allora è necessario aver preformulata nella mente l'intuizione primitiva dell'effetto trofico, come 1'antecedente logico indispensabile per fare questo passo avanti. Le origini della conoscenza saranno eternamente impenetrabili, finché non si precisi il senso delle parole, modellandole sul fatto concreto che con esse si esprime. Si dice che la sensazione è già conoscenza, ma io dico che questa affermazione è assai arbitraria e che non sappiamo precisamente che cosa vogliamo dire con essa. Sentire la fame, così come isolatamente sorge dai centri psicotrofici, non è la stessa cosa che conoscere ciò che può soddisfarla; non so vedere come il soggetto attanagliato da questa prepotente sensazione possa comprendere qualcosa. Avvertire l'immagine, che l'eccitamento evoca agendo sul senso, non è lo stesso che sapere ciò che corrisponde a una cosa; è semplicemente avvertire un effetto di cui si ignora la causa, come abbiamo detto prima. Soltanto quando associamo al sentimento della fame la conoscenza che si acquisisce con l'esperienza trofica, o primitivamente concepiamo 1'immagine proiettata, erroneamente pensiamo che la conoscenza nasce dall'azione periferica, come un magico prodigio; ma quando ci accorgiamo che la sensazione non è che un effetto dell'eccitamento e che questa sensazione, anche quando è data come una somma latente o un ricordo, non è di per se stessa intellettiva, finché non lo sia anche di un altro fenomeno psichico, comprendiamo che intellezione vuol dire relazione e ammiriamo la sapienza di Kant che così affermò: ecco perché in questo primo vagito intellettivo, in cui l'immagine si fa rappresentativa dell'effetto trofico, non vediamo nulla di piú di quello che c'è: una relazione tra due dati interni. Tutte e due preesistono completi nei loro centri rispettivi; e tutte e due si risvegliano soltanto per l'azione congiunta dell'eccitamento periferico che li ha determinati; ma in quanto una seconda connessione li ha uniti sorgono simultaneamente nella coscienza se un'azione periferica li evoca, e questo ricordo complessivo è ciò che costituisce l'intuizione trofica, espressione di una fusione di stati, o di una sintesi, come direbbe Wundt. Senza dubbio in questa sintesi l'uno e l'altro di questi elementi componenti denuncia ciò che denunciava quando era isolato; e come davanti alla sensazione trofica accusava specificatamente la coscienza di una mancanza, che non si sapeva in che cosa consistesse, anche ora denuncia questa mancanza, ma rappresentata per mezzo di una immagine. Dunque, è sempre stato necessario che quando questa immagine appaia, la mancanza o la fame, scompaiano o si estinguano; ed essendo cosí praticamente successo innumerevoli volte si è rappresentato con essa quello che la sensibilità trofica accusava come mancante e al suo riapparire si credette che ciò che la sensibilità trofica accusa come mancante, l'immagine lo accusa come presente. Per mezzo di questa inversione di termini, l'intuizione trofica si fa intuitiva di ciò che soddisfa la fame, e ciò che soddisfa la fame è quello che empiricamente si giudica reale o come qualche cosa di esterno che l’organismo reclama. Si veda così come nell'esperienza trofica appaia sempre la previsione di qualcosa di esterno. Il cagnolino che si agita nel cesto comprendendo che cosa significa il suono di campanello, dà chiaro segno di capire che ciò che calma la sua fame è presente. Il bambino che incomincia a poppare macchinalmente, in quanto giunge a capire che le impressioni che prova in bocca sono rappresentative dell'effetto che ha provato altre volte, in virtù di un’inversione profondamente logica, pensa che il sapore e il tepido contatto sono i segni che gli annunciano ciò che gli manca. Nello spiegare in che cosa consiste la percezione dei cibi, abbiamo detto che è il desiderio vivo di ciò che reclama l’organismo e che noi ci rappresentiamo per mezzo di un odore, di un sapore o di un contatto, senza che in questa rappresentazione ci si sia minimamente preoccupati di appurare se queste immagini corrispondano solo ad un oggetto o a diversi. Abbiamo bisogno di rappresentarci l’effetto per mezzo di un segno, qualunque sia, e basta che sia stato molte volte coincidente con l’estinzione della fame, perché il ricordo di questa soddisfazione sia rappresentato per mezzo di quell’immagine. Per mezzo di essa, abbiamo detto, non conosciamo l’oggetto: conosciamo quello che nutre. Così l’assetato, in ciò che immagina sotto forma di acqua, non percepisce né la luce, né la fluidità, né la trasparenza, né la freschezza né il mormorio: percepisce, desiderandolo, quello che conosce soltanto perché accusa la sua mancanza nella coscienza; e che sa contenere in realtà ciò che in tal modo si rappresenta, poiché lo ha provato altre volte e conserva la memoria viva dei suoi effetti. L’esquimese, a cui un esagerato dispendio di calorie accentua la fame di grassi, non percepisce questi corpi con l’indifferenza di chi non ne sente la necessità: percepisce ciò che richiedono i suoi elementi cellulari attivati dalla combustione. Colui che fissa la razione di ingestione, con cui il mondo esterno deve somministrare al suo organismo la quantità di sali, di idrati di carbonio e proteine di cui ha bisogno, percepisce realtà esterne indipendenti dalla forma sensoriale con cui li riveste, in quanto che nella sua mente preesiste il ricordo trofico che gli insegna che sono quelle e non altre a saturare le sue deficienze. Appetire questo, che non ha colore, né odore, né temperatura, né sapore e che non è sonoro, è percepire qualcosa, che indiscutibilmente si determina nell'intelligenza come la realtà empirica. Tutti i vertebrati subiscono una somma enorme di esperienze, da cui nasce l'assoluta certezza che il mondo esterno somministra all'ambiente interno ciò che viene distrutto e consumato. Su ciò non vi è discussione, poiché non si può discutere l'esperienza. Mangi? Allora tu sai che in ciò che mangi vi è qualcosa che ti manca. Per acquistare la conoscenza della realtà non è necessario dare per supposta la realtà, come si fa comunemente credendo che sia un termine necessario della conoscenza. Facendo così si invertono i termini del problema. Noi non attribuiamo le nostre immagini alla cosa esterna, perché sappiamo che questa cosa è, come sostiene fondamentalmente la teoria speculativa. Al contrario, quando rappresentiamo l'effetto trofico per mezzo di un’immagine, acquistiamo la conoscenza che ciò che ci manca è qualcosa. Sappiamo che la realtà è esterna, precisamente perché abbiamo acquistato la conoscenza della realtà che manca al nostro organismo. In tal modo il problema si vede da un nuovo punto di vista. Come si acquista la coscienza di ciò che ci manca? Impostare il problema in questi termini è come chiederci come sappiamo che mangiamo e che introduciamo qualcosa dentro al nostro organismo; ed è anche lo stesso che chiederci come incominciamo a capire e pensare. Risalendo fino alle fonti della conoscenza, prendiamo il vertebrato nel momento in cui la intellezione non esiste come fenomeno, ed esaminiamo quando esiste e come esiste. La ricerca è ardua e molto difficile per chi non rinunci ad ogni pregiudizio, ispirandosi ad una santa ribellione contro tutto ciò che non si presenti come fenomeno passibile di osservazione. Ma una volta che ci mettiamo per questa strada con la decisione di giungere in fondo senza riguardi o pregiudizi, vediamo che nella ingestione meccanica si accusano sensazioni trofiche, sensazioni esterne e sensazioni gastriche, senza che con ciò il soggetto possa intendere nulla del mondo esterno. Questi fattori elementari, considerati isolatamente, non sono intellettivi per nulla; nel soggetto la fame si calma senza che si renda conto di quanto è successo. Giunge un momento senza dubbio in cui si rende conto di che cosa succede, e in questa fase puramente empirica del processo, si prepara alla nascita della conoscenza di ciò che avverrà; fase che è come la garanzia logica di questa previsione, giacché la certezza di ciò che avverrà nasce da ciò che tante volte è avvenuto. Che cosa è successo? Come mai il soggetto comprende ora ciò che prima non comprendeva? In che cosa consiste l'atto di intendere? È successo che questa immagine è stata messa in relazione colla sensazione trofica per mezzo di una connessione centrale ed è diventata rappresentativa di quella sensazione. Come colui che inciampa in una pietra prova un danno per non aver alzato a dovere il piede e un'altra volta non inciamperà più perché prevede di doverlo alzare, così il soggetto che soffre la fame e non sa che è ciò che lo tormenta, una volta che sia edotto empiricamente che quello che lo tormenta si può rappresentare per mezzo di una immagine, sa già che questo è ciò che gli appare sotto quella forma simbolica. Il simbolo è il meno, l'importante è ciò che esso rappresenta. Occorreva un mezzo per definire che cosa gli mancava e trovando formulata da un'azione esterna immagini di cui ignorava l'esistenza, agisce come se si dicesse : «ecco il mezzo di cui posso servirmi per conoscere ciò, la cui mancanza l'organismo accusa nella mia coscienza, quasi come un grido disperato». Ecco la prima intellezione; l'immagine si è trasformata in segno e già si sa che cosa significa questo segno. L'immagine si è ripetuta molte volte e la fame si è calmata, e, quando non riappariva la fame sussisteva persistente, esacerbandosi a tratti, e così in virtù della viva esperienza, le si conferì la qualità di segno; ed elevandola a questo significato, con tutta la circospezione con cui procede sempre l'esperienza empirica, questa esperienza ha subito un'inversione. E così fino ad ora la fame si calmava quando macchinalmente entrava nello stomaco qualcosa, che subito la sensibilità trofica accusava come ciò che gli occorreva, a partire da questo momento l'immagine si fa segno non di ciò che entra, ma di ciò che deve entrare, perché si riproduca lo stesso effetto. Si veda quindi, come per sapere che l'immagine è segno di qualcosa non occorra sapere che il mondo esterno esiste come un termine presupposto; occorre la condizione preliminare di questa relazione: nell'atto in cui questa immagine viene utilizzata come un segno di ciò che ci accade, diventa intuitiva di quella realtà che ci manca. Della realtà esteriore si è detto, in molte e svariate maniere e da diversi punti di vista, che è un termine inconoscibile, e con ciò, per lo meno, già si ammette che conosciamo la sua esistenza. Inoltre se ci chiediamo che cosa vogliamo significare con la parola conoscere, ci accorgiamo che conoscere è rappresentarci la realtà per mezzo di immagini. Se difettassimo di sensi e l’ingestione meccanica bastasse a mantenerci in vita, la realtà sarebbe come ora accusata alla coscienza, ma non giungeremo mai a sapere che esiste. D’altra parte, se le immagini sensoriali ci fossero date distaccate dal sentimento trofico della realtà, così come si pensa da tempo immemorabile, non giungeremmo mai a sapere che sono segni di qualcosa. Non si dica dunque che la realtà è inconoscibile, perché non può essere rappresentata per mezzo di immagini esterne, perché così come ai vertebrati è data una intelligenza, la realtà è data come il primo termine di ogni possibile giudizio, cioè come soggetto; l'atto di pensare non consiste in altro che in attribuirgli il predicato. Concepire una intelligenza, in cui la rappresentazione sia svincolata da ciò che si rappresenta, come un qualcosa di vago, è lo stesso che pretendere di formulare un giudizio, prescindendo dal soggetto; e questo sarebbe uno strano atto infinitamente distante da quello che nel mondo dei fenomeni si chiama intellezione. Gli elementi essenziali di ogni possibile atto intellettivo corrispondono sempre a ciò che nella coscienza è dato come realtà, come connessione o relazione e come rappresentazione, che in tutte le lingue, presenti o future, si esprimono con i termini di soggetto, verbo, predicato; rifiutare come un vano formalismo questa suprema espressione della funzione intellettiva, sotto il pretesto che il soggetto corrisponde sempre ad una entità metafisica irriducibile a fenomeno sperimentale, è lo stesso che supporre che il valore del segno sia indipendente dalla cosa che rappresenta, supposizione che nasce dall'errore fisiologico di considerare isolatamente come intellettivi i centri sensoriali, quando in realtà forniscono solo elementi di una possibile intellezione. La realtà è quindi un termine inconoscibile, quando arbitrariamente mutiliamo la funzione intellettiva; ma quando l’accettiamo così com’è, la realtà è ciò che conosciamo per mezzo della rappresentazione.
[Il problema della causalità esterna] 3
[…] È assai diverso proporsi di ricercare le origini della conoscenza della causalità o studiare che cosa sia questa causalità. Studiando le origini empiriche della realtà non ci siamo preoccupati di sapere se la realtà sia essere, io, idea, volontà, principio che ce lo ritroviamo sempre davanti. Si sa che il nostro problema era più modesto e si riduceva a questo: come sappiamo che vi è qualcosa? Così non ci preoccupa sapere se nel mondo esterno la causa è un principium fiendi generatore di tutte le possibili modificazioni generatore nell’intimo del legame logico; l’unica cosa che ci proponiamo di accertare è: come sappiamo per mezzo dell’esperienza che i nostri sensi non reagiscono spontaneamente? Vedremo che l’origine empirica della conoscenza della realtà e della causa nei nostri sensi non annulla né pregiudica il problema metafisico, come a tutta prima si potrebbe credere. Il problema metafisico esisterà eternamente, finché nella specie umana esisteranno uomini superiori. Torniamo sui nostri passi e riprendiamo il problema al punto stesso in cui lo abbiamo lasciato, dato che la conoscenza di cui l’immagine sensoriale è un effetto determinato, nasce insieme alla conoscenza della realtà. Abbiamo detto che quello che le immagini simbolizzano è ciò che l’esperienza trofica ha dimostrato che contiene quanto occorre, e che l’organismo reclama imperiosamente. Il bue, cui un’astinenza ha esacerbato la fame di sale, crede di riconoscerlo nel mondo esterno per mezzo di una certa impressione visiva, che rettifica o convalida subito dopo per mezzo di un’impressione gustativa che gli è ben nota. Supponiamo che mentre sta pascolando, l’aspetto di una roccia o di un sasso gli ricordi quello della zolla di sale, che di solito lambisce nella stalla; e questo lo induce a provare se quella cosa sia o no ciò che desidera. […] Supposta quindi la conoscenza di questo qualcosa, come sa che è questo qualcosa che impressiona il suo gusto? Come sa che questo sapore non è sorto spontaneamente nella sua coscienza? Lo sa per mezzo del movimento volontario, che gli fece muovere la testa e lo indusse ad applicare la lingua su un dato punto dello spazio, poiché nella sua intelligenza preesisteva la previsione che riapparirà il segno, con cui ciò che gli manca viene rappresentato. […] Finché manca l’immagine, resta nella coscienza la conoscenza di qualcosa che non è presente e che non riapparirà finché l’immagine non sorga e lo dimostri presente; ma quando l’immagine viene risvegliata dal movimento, il soggetto conclude per induzione: il qualcosa che diventa presente per mezzo dell’immagine è la stessa cosa che determina l’immagine. Se il bue (supponiamo il caso negativo) mette la lingua su quello che credeva sale e si accorge che non lo è, una volta disilluso non insiste e prosegue il suo cammino, come se questo fosse il suo ragionamento: dato che non riappare l’immagine di ciò che mi manca, qui non c’è ciò che la determina. In questo caso, che è lo stesso sia nel senso positivo che in quello negativo, il soggetto agisce come se, per mezzo di esperienze motorie, si fosse accertato che la realtà è fuori del suo organismo e dove è: ma perché queste esperienze siano veramente istruttive, è necessario che precedentemente abbia acquisito una conoscenza di ciò che gli manca, poiché è chiaro che se mancasse di questa conoscenza, anche quando si movesse e provocasse in un dato punto dello spazio la sensazione sensoriale, siccome essa non è segno di qualcosa di noto, non sarebbe intellettiva, non rappresentando nulla. Riflettendo bene si comprende che, logicamente, la conoscenza di ciò che calma la fame si presuppone alla conoscenza della realtà come il suo punto di partenza o come un dato anteriore necessario, poiché, pur supponendo tutte le esperienze motorie in virtù delle quali il soggetto è attualmente informato di quale direzione deve imprimere al movimento per raggiungere il punto dove l’immagine appare, da quale elemento logico sarebbe allora possibile indurre che in quel luogo esiste una causa capace di impressionare il senso? […] Se cerchiamo di renderci conto della natura della vita intellettiva nascente, comprendiamo che il soggetto non sa che la cosa che lo nutre esiste perché la tocca, ma sa che la tocca, e che cerca sempre di toccarla ogni volta che gli occorra, perché già sa che cosa è, e che contiene ciò che gli manca. L’odore e il sapore, come il colore, sono giudicati segni di ciò che nutre, prima che segni della cosa e siccome questi segni non riappariscono, fintanto che la cosa mancante non diviene presente, non può considerarli spontanei, neanche in questa fase puramente interna dell’esperienza trofica, in quanto che continuamente si ripete lo stesso fatto, che gli insegna che quando ciò che nutre non è presente non vi sono segni; vi sono invece quando è presente. A mano a mano che il soggetto acquista la capacità di provocare nei sensi queste immagini-segni, che denunciano la presenza di ciò che occorre, sempre più si conferma la certezza che non sono spontanee, ma determinate da quella stessa cosa che calma la sua fame: ed ecco perché ne viene la tendenza assoluta a giudicare le immagini come segno di quella cosa. […] In realtà l’animale mangiando, subisce tre distinti effetti [l’effetto trofico, l’effetto sensoriale, l’effetto motorio n.d.C.]; che per un processo logico prestabilito sono stati unificati, dimostrando la presenza di una cosa o di qualcosa di cui si accusava la mancanza. Da ciascuno di questi tre effetti non è possibile trarre la coscienza di ciò che manca; e se in queste condizioni il soggetto, per mezzo del movimento, avverte che ciò che manca diventa presente, allora saprà prevedere o potrà determinare ancora gli stessi effetti che già altre volte aveva provato senza saper come; ora, per il solo fatto di poterli ancora provocare, può prevedere quando li proverà, poiché ha la coscienza di come deve muoversi per ottenere lo scopo. Così nasce la conoscenza empirica della causalità.
Note 1 La scelta dei brani che seguono è stata fatta dalle pagine 137-213 della traduzione italiana del volume di Turrò. 2 Si ripropone qui, nella sua integralità, il capitolo settimo del volume intitolato Percezione della realtà empirica. 3 I brani che seguono sono una scelta dal capitolo ottavo, intitolato Problemi della causalità esterna (pp. 225-289). |