Il mondo per l’uomo
di Emilio Baccarini
(cfr. il
testo originale francese
e la
traduzione italiana)
Nel breve testo levinasiano, con un gioco di rimandi
tipico della scrittura del filosofo ebreo franco-lituano, risuonano
molteplici voci. È opportuno, in via preliminare, notare che
si tratta di un testo ‘confessionale’, pubblicato originariamente sull’Information
Juive, nel 1961. Ciò significa che l’autore guarda al problema
a partire da una prospettiva religiosa ove tuttavia convergono argomenti
di carattere più rigorosamente filosofico.
L’impresa del volo del primo uomo nello spazio,
l’astronauta russo Y. Gagarin, è l’occasione per delle riflessioni
più generali, ma anche più fondamentali in altre direzioni.
Proviamo a penetrare la pagina levinasiana servendoci, per commentarla,
anche di altri scritti di tempi diversi. Il tema centrale ci sembra
essere la modalità con cui l’uomo abita il mondo che risulterà
diversa a seconda dei paradigmi descrittivi utilizzati. In secondo piano,
anche se nel caso specifico potrebbe essere considerato il problema
centrale, abbiamo il rapporto dell’uomo con la tecnica. Infine, come
filigrana inverante tutto il discorso, abbiamo la questione del rapporto
tra paganesimo e ottica della rivelazione.
Come si può notare dalla semplice elencazione
delle questioni che ci sembrano a tema nel breve testo d’occasione levinasiano,
abbiamo l’indicazione di molteplici percorsi che potrebbero o, meglio,
dovrebbero essere seguiti singolarmente. Limitiamoci qui a un approccio
che permetta poi un approfondimento personale.
L’approccio fenomenologico di Levinas considera
di necessità il mondo come l’orizzonte elementare e primario
di riflessione. Se su questa prospettiva si innesta il confronto con
Heidegger, allora il discorso si allarga all’ontologia e il mondo diventa
immediatamente l’Essere. Quest’ultima prospettiva è quella che
si annuncia nella pagina levinasiana che qui consideriamo.
Fin dalla sua prima opera, La teoria dell’intuizione
nella fenomenologia di Husserl, Levinas ha posto l’accento sulla
dimensione dell’intenzionalità della coscienza che trasforma
il modo di essere del soggetto di fronte al mondo. Scrive il Nostro:
"Dalle nostre precedente analisi è emerso chiaramente che
noi non abbiamo a che fare con un idealismo, in cui l’affermazione dell’esistenza
del mondo esterno significherebbe una svalutazione di questo. Il mondo
esterno esiste, esso è ciò che è, ma vedere in
esso solo un fenomeno, significa chiarire il senso della sua esistenza,
dopo aver gettato uno sguardo sulla vita in cui è dato, qual
è il suo modo di incontrarsi nella vita".
Molti anni più tardi, nel 1975, in
un denso saggio di notevole complessità, Tre note sulla positività
e la trascendenza, nel primo paragrafo che porta il significativo
titolo Positività e mondo, il filosofo scriveva: "Nella
nostra tradizione filosofica che esprime la nostra umanità o
il nostro spirito, il pensiero sensato si intende in relazione alla
presenza dell’essere. Noi pensiamo, per così dire, al
cospetto dell’essere e, come presenza, l’essere si pone nella maniera
più forte del suo essere. Poiché l’essere si pone: la
sua presenza è mondo. La sua presenza come mondo – la sua positività
– il suo riposare, è ‘la gesta’ del suo essere, e il pensiero
sensato è pensiero positivo. In questo riposo, le realtà,
malgrado la loro agitazione, malgrado il loro movimento e divenire,
restano le stesse. Il loro movimento non è il contrario
della positività – movimento e arresti presuppongono il riposo
da pensare enfaticamente: la positività del mondo. L’immanenza
a questa positività assicura la possibilità stessa dell’identico.
Ogni determinazione di realtà, parte, come negazione, da questo
riposo; e ogni avventura del pensiero di cui non si vedrebbe il nesso
con la presenza del mondo, sarà accusata dai filosofi di ingenuità
non filosofica.
In questo riposare del mondo, la presenza
si intende come ‘essere dinanzi…’, essere di riposo indisturbabile,
essere di presenza che non passa. La struttura dell’essere-al-mondo
non gli è già più fedele. E, tuttavia, tutto il
discorso filosofico dei nostri giorni – sorto dal concetto dell’essere-al-mondo
– presuppone tacitamente la presenza dell’essere inintaccabile. Quando
esso tende a riabilitare il ‘pensiero dell’essere’ contro gli ‘smarrimenti’
del soggettivismo empiristico o trascendentale o esistenziale, quando
esso decide di pensare il soggettivo in funzione dell’essere, tutto
accade come se l’io non fosse abbastanza. E, in verità,
l’io non è positivamente, la positività coincidendo
col riposo del mondo che nulla potrebbe turbare".
Il mondo appare a Levinas come il fondamento
"che non si muove", come direbbe Husserl, l’immobile condizione
di ogni movimento, l’identità che ‘giustifica’ le differenze;
non ci sarebbero, infatti, differenze se non ci fosse l’unità
della totalità. Affermare, quindi, che l’io non è ‘positivo’
equivale ad affermare che l’io si colloca immediatamente in una trascendenza,
in uno scarto, che lo mantiene fuori dalla totalità. Se la positività
del mondo è l’origine dell’identità, l’io occupa lo spazio
dell’esteriorità. E, tuttavia, l’esteriorità dell’io,
che non si può cogliere soltanto nel legame all’oggetto ‘mondo’,
nell’in(pre)scindibilità della relazione soggetto-oggetto che
struttura una dipendenza necessaria, appare come il vero grande problema
che Levinas ha posto.
La relazione soggetto-oggetto dice già
la relazione tra un’interiorità e un’esteriorità attraverso
il pensiero. "Il pensiero stabilisce un rapporto con un’esteriorità
non assunta. Come pensante l’uomo è colui per il quale il mondo
esterno esiste", così scriveva il filosofo nel 1954 nel
saggio L’io e la totalità, un testo preparatorio della
grande opera Totalità e Infinito. Ma l’uomo prima di essere
pensante è un ‘vivente’ che assume il mondo, o l’essere, ma non
come mondo, bensì come alimento. Se ne nutre. "L’essere
assunto dal vivente, l’assimilabile – sono i nutrimenti. Così
l’essere vivente in quanto tale ignora il mondo esteriore, non per un’ignoranza
che confina con la conoscenza, ma per un’ignoranza assoluta, per assenza
di pensiero". Nella sua immediatezza l’uomo è un vivente
che ‘vive-di’ e qui inizia la sua ‘separazione’. Scriveva ancora Levinas
nel saggio del 1954: "L’interiorità, che, per il pensante,
si oppone all’esteriorità, nel vivente si effettua come assenza
di esteriorità. L’identità del vivente attraverso la sua
storia non ha niente di misterioso: il vivente è essenzialmente
il Medesimo che determina ogni Altro, senza che l’Altro determini mai
il Medesimo".
Tutta la seconda sezione di Totalità
e Infinito, intitolata Interiorità ed economia, sarà
un approfondimento e una radicalizzazione di questo ‘egoismo originario’
in cui il vivente immediatamente vive-del-mondo, ne gode e, come scrive
in Totalità e Infinito: "Nel godimento freme l’essere
egoistico. Il godimento separa impegnando nei contenuti di cui esso
vive. La separazione si esplica come l’opera positiva di questo impegno.
Essa non deriva da una mera frattura, come un allontanamento spaziale.
Essere separato significa essere a casa propria. Ma essere a casa propria
significa vivere-di…, godere dell’elementale". Qui il rapporto
con il mondo va letto nell’ottica della Genesi e non della Geworfenheit
heideggeriana. Ma qui si aprirebbe un altro discorso.
Come mostra bene Totalità e Infinito,
il rapporto con il mondo muta con l’ingresso del volto dell’altro che
scompiglia l’egoismo soddisfatto dell’io. Tuttavia, in filigrana, si
può leggere nell’opera anche il racconto di un vivente che gradualmente,
anche grazie alla tecnica, si libera della dipendenza dal mondo e crea
le condizioni della socialità. Le stupende pagine sulla dimora,
a mio avviso, vanno lette in questa direzione. Il mondo diventa allora
la scena dell’apparizione del volto dell’altro e il luogo dell’esercizio
della responsabilità.
Se torniamo ora al saggio che presentiamo,
ci rendiamo conto che il mondo non può in nessun modo essere
inteso come quella neutra, immutabile scaturigine di ogni sensatezza,
e neppure soltanto come l’orizzonte della rappresentazione. Il mondo
è per l’uomo. Ciò significa che non può
esserci nessuna confusione tra i due, ma anche che non si può
pensare il mondo come substrato ontologico, la scena dell’apparizione
dell’essente che rivela attraverso la situazionalità l’Essere.
In controluce si può leggere nella pagina levinasiana la negazione
della dimensione ‘situazionale’ dell’uomo, tanto cara al pensiero dell’esistenza,
che definisce questo particolare essente come un Da un esserci.
L’uomo è un’ipseità originaria, un’esteriorità,
che immediatamente ‘vive’ del mondo. La narrazione della filogenesi
dell’uomo che troviamo in Totalità e Infinito manifesta
un graduale allontanamento dalla dipendenza dal mondo, un’epifania della
libertà soddisfatta che, tuttavia soltanto attraverso l’investitura
da parte dell’altro, diventerà vera libertà.
In questa prospettiva la tecnica è
valutata positivamente come ‘modalità umana’ di abitare il mondo
e non come manipolazione che trasfigura e rinnega l’originarietà
dell’essere. Non c’è in Levinas il rimpianto del mondo delle
origini, non esiste il primato della naturalità. Il mondo non
può essere la manifestazione del sacro originario. Dio non abita
il mondo, ne è il creatore, ma l’uomo ne sarà il responsabile.
La sua trascendenza, considerata nella sua profondità, colloca
il mondo in uno spazio di totale autonomia, nella plasticità
che attende di diventare forma attraverso l’opera, non la manipolazione,
dell’uomo. Quest’ultimo è il grande messaggio di Franz Rosenzweig
in La Stella della redenzione.
A seconda dell’ottica, quindi, la tecnica
può diventare o l’occultamento dell’autenticità dell’originario
o l’opera della libertà. Abitare il mondo tecnicamente significherebbe
liberarsi dalla schiavitù della sedentarietà. La prospettiva
levinasiana che siamo andati delineando è certamente molto provocatoria,
ma non va confusa con ciò che la tecnica oggi significa. Non
permette di confondere la sfera dei valori antropologici e religiosi,
più genericamente metafisici, con il ‘funzionamento’ a cui si
riduce oggi la dimensione della tecnica. Se il valore consiste nella
funzionalità non si è dentro la prospettiva levinasiana,
bensì in quella del nichilismo. Al contrario, Levinas invita
ad abitare il mondo senza lasciarsi incantare dalla seduzione dell’istallazione,
termine in cui si può ritrovare tutto il peso dello ‘stallo’,
sinonimo della dimensione pagana incapace di guardare verso un aldilà
che incombe come comandamento di rendere il mondo il luogo dove l’incontro
di Dio è possibile attraverso l’esercizio della giustizia. Soltanto
allora il mondo manifesterà la sua ‘santità’.