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Heidegger, Gagarin e noi

di Emmanuel Levinas

(cfr. il testo originale francese )

Sarebbe urgente difendere l’uomo contro la tecnologia del nostro secolo. L’uomo vi avrebbe persa la sua identità per entrare come un ingranaggio in un’immensa macchina dove ruotano cose ed esseri. Ormai esistere equivarrebbe a sfruttare la natura. Ma nel turbine di questa impresa che divora se stessa non resterebbe alcun punto fisso. Il viandante solitario che passeggia per la campagna con la certezza di appartenersi, di fatto, non sarebbe altro che il cliente di un’industria alberghiera e turistica, consegnato a sua insaputa, ai calcoli, alle statistiche, alle pianificazioni. Nessuno esisterebbe per sé.

In questa declamazione c’è del vero. La tecnica è pericolosa. Essa non minaccia soltanto l’identità delle persone. Essa rischia di far saltare il pianeta. Ma i nemici della società industriale, per lo più, sono dei reazionari. Essi dimenticano o detestano le grandi speranze della nostra epoca. Infatti, mai è stata più forte negli animi la fede nella liberazione dell’uomo. Essa non dipende dalle agevolazioni che le macchine e le nuove fonti di energia offrono all’istinto infantile della velocità; essa non dipende dai bei giocattoli meccanici che tentano l’eterna puerilità degli adulti. Essa fa tutt’uno con lo scuotimento delle civiltà sedentarie, con lo sfaldamento delle gravose stratificazioni del passato, con lo scolorimento dei colori locali, con le incrinature che producono crepe in tutte queste cose ingombranti e ottuse a cui si appoggiano i particolarismi umani. Bisogna essere sottosviluppato per rivendicare tutte queste cose come ragioni d’essere e lottare in loro nome per un posto nel mondo moderno. Lo sviluppo della tecnica non è la causa – esso è già l’effetto di questo alleggerimento della sostanza umana che si svuota delle sue pesantezze notturne.

Penso a una prestigiosa corrente del pensiero moderno proveniente dalla Germania e che inonda i recessi pagani della nostra anima occidentale. Penso a Heidegger e agli heideggeriani. Si vorrebbe che l’uomo ritrovi il mondo. Gli uomini avrebbero perso il mondo. Essi non conoscerebbero più altro che la materia posta davanti a loro, opposta (objectée) in qualche modo alla loro libertà, essi non conoscerebbero altro che oggetti.

Ritrovare il mondo significa ritrovare un’infanzia misteriosamente rannicchiata nel Luogo, significa aprirsi alla luce dei grandi paesaggi, al fascino della natura, al maestoso accampamento delle montagne; significa correre per un sentiero che serpeggia nei campi; significa sentire l’unità che istituisce il ponte che collega le sponde del fiume e l’architettura degli edifici, la presenza dell’albero, il chiaroscuro delle foreste, il mistero delle cose, di una brocca, delle scarpe logore di una contadina, la lucentezza di una caraffa di vino posta su una tovaglia bianca. L’Essere stesso del reale si manifesterebbe dietro queste esperienze privilegiate, concedendosi e affidandosi alla guardia dell’uomo. E l’uomo, guardiano dell’Essere, trarrebbe da questa grazia la sua esistenza e la sua verità.

La dottrina è acuta e nuova. Tutto ciò che da secoli ci appariva come aggiunto dall’uomo alla natura, rilucerebbe già nello splendore del mondo. L’opera d’arte – luminosità dell’Essere e non invenzione umana – fa risplendere questo splendore pre-umano. Il mito si parla nella natura stessa. La natura è installata in questo linguaggio primo che, interpellandoci, fonda il linguaggio umano. Bisogna che l’uomo possa ascoltare e intendere e rispondere. Ma intendere questo linguaggio e rispondergli non consiste nell’abbandonarsi a pensieri logici eretti a sistema di conoscenze, bensì nell’abitare il luogo, nell’esserci. Radicamento. Si vorrebbe riprendere questo termine, ma la pianta non è abbastanza pianta per definire l’intimità con il mondo. Un po’ d’umanità ci allontanerebbe dalla natura, molta umanità ci ricondurrebbe là. L’uomo abiterebbe la terra in maniera più radicale della pianta che ne ricava soltanto i succhi nutritivi. La favola che dice il primo linguaggio del mondo suppone legami più sottili, più numerosi e più profondi.

Eccola quindi l’eterna seduzione del paganesimo, al di là dell’infantilismo dell’idolatria da molto tempo superato. Il sacro che filtra attraverso il mondo – il giudaismo forse non è altro che la negazione di tutto ciò. Distruggere i boschetti sacri – ora comprendiamo la purezza di questo preteso vandalismo. Il mistero delle cose è la sorgente di ogni crudeltà nei confronti degli uomini.

L’insediamento in un paesaggio, l’attaccamento al Luogo, senza il quale l’universo diverrebbe insignificante ed esisterebbe appena, significa la scissione in autoctoni e stranieri. E in questa prospettiva la tecnica è meno pericolosa dei geni del Luogo.

La tecnica sopprime il privilegio di questo radicamento e dell’esilio che vi si riferisce. Essa affranca da questa alternativa. Non si tratta di tornare al nomadismo, altrettanto incapace quanto l’esistenza sedentaria, di uscire da un paesaggio e da un clima. La tecnica ci strappa al mondo heideggeriano e alle superstizioni del Luogo. Appare quindi una chance: vedere gli uomini al di fuori della situazione in cui sono istallati, lasciar brillare il volto umano nella sua nudità. Socrate preferiva, alla campagna e agli alberi, la città dove si incontrano gli uomini. Il giudaismo è fratello del messaggio socratico.

Ciò che è ammirevole nell’impresa di Gagarin, non è certamente il suo magnifico numero da luna-park che impressiona le folle; non è l’impresa sportiva realizzata andando più lontano degli altri, battendo tutti i record di altezza e di velocità. Ciò che conta di più è la probabile apertura su nuove conoscenze e nuove possibilità tecniche, è il coraggio e le virtù personali di Gagarin, è la scienza che ha reso possibile l’impresa e tutto ciò che, a sua volta, ciò suppone di spirito di abnegazione e di sacrificio. Ma forse, ciò che conta sopra tutto, è aver abbandonato il Luogo. Per un’ora un uomo è esistito al di fuori di ogni orizzonte – intorno a lui tutto era cielo, o, più esattamente, tutto era spazio geometrico. Un uomo esisteva nell’assoluto dello spazio omogeneo.

Il giudaismo è sempre stato libero nei confronti dei luoghi. Così esso è rimasto fedele al valore più alto. La Bibbia conosce soltanto una Terra Santa. Terra fantastica che vomita gli ingiusti, terra dove non ci si radica senza condizioni. Quanto è misurato il Libro dei Libri nelle sue descrizioni della natura! - "Paese in cui scorrono il miele e il latte". - Il paesaggio si dice in termini alimentari. In una frase incidentale: "Era allora la stagione della prima uva" (Num. 13,20) brilla per un istante un grappolo che matura alla calura di un sole generoso.

Oh tamerice che piantò Abraham a Bersabea! Uno dei rari alberi ‘individuali’ della Bibbia e che sorge nella sua freschezza e nel suo colore per sedurre l’immaginazione in mezzo a tante peregrinazioni, attraverso tanti deserti. Ma attenzione! Il Talmud forse teme che noi ci lasciamo prendere dal suo canto sotto il vento del sud e che vi cerchiamo il senso dell’Essere. Esso ci strappa ai nostri sogni: Tamerice è un (una) sigla; le tre lettere che sono necessarie per scrivere il suo nome in ebraico sono le iniziali di Nutrimento, Bevanda e Casa, tre cose necessarie all’uomo e che l’uomo offre all’uomo. La terra è per questo. L’uomo è il suo padrone per servire gli uomini. Restiamo padroni del mistero che essa respira. Forse è su questo punto che il giudaismo si allontana maggiormente dal cristianesimo. La cattolicità del cristianesimo integra i piccoli e toccanti dèi familiari nel culto dei santi, nei culti locali. Sublimandola, il cristianesimo conserva la pietà radicata che si nutre dei paesaggi e dei ricordi familiari, tribali, nazionali. Per questo conquista l’umanità. Il giudaismo non ha sublimato gli idoli, ha richiesto la loro distruzione. Come la tecnica, esso ha demistificato l’universo. Esso ha sfatato la Natura. Attraverso la sua universalità astratta esso urta immaginazioni e passioni. Ma esso ha scoperto l’uomo nella nudità del suo volto.