Qualcosa
di consistente: l'altro e l'io
di Aldo Meccariello
Ed infatti quest’uomo è il più legato
a me
per parentela ed abita dove abito io
(Platone, Ippia Maggiore, 304 d-e )
1. Sfogliando il dizionario, vorrei tentare
subito una definizione del problema: leggiamo nel Dizionario della
lingua italiana di Nicola Zingarelli che "il consistere [vc.
dotta, lat. consistere, comp. di cum ‘con’ e sistere ‘collocare’,
fermarsi] significa 1. avere il proprio fondamento in qualcosa; 2. essere
costituito, composto di qualcosa". Anche altre lingue tendono a
dare una dilatazione semantica al termine: l’inglese consistency
accentua il significato di impasto, mentre la lingua tedesca articola
una serie di sinonimi: die Dichtigkeit,
die Festigkeit, die Haltbarkeit, der Bestand, compattezza,
densità, solidità.
La consistenza evoca un’idea di spessore,
di ciò che tiene insieme (io,
tu e gli altri) ma evoca anche l’idea di molteplicità cioè
l’essere costituito di…, di tanti elementi, di tanti fili. E poi un
terzo significato può alludere all’idea dell’impasto, del mescolare
insieme cose diverse, della contaminazione tra elementi eterogenei.
Tali significati dicono già molto su una parola (1),
oggetto da qualche anno di studi di matrice sociologica, ma che è
tutt’ora esclusa dall’universo comunicativo e mediatico.
La consistenza è il contrario
dell’evanescenza. C’è una frase di Marx che riassume in modo
illuminante e profetico il senso di questa opposizione.
"Si volatilizza tutto ciò
che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa
sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio
disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti"
(2). Dunque tutto ciò
che è solido svanisce nell’aria nel senso che il tratto fondamentale
della modernità è l’evanescenza, l’inconsistenza delle
cose e degli uomini mutati in merce, è la dissoluzione di ogni
esperienza che costringe l’individuo a ruotare all’infinito senza più
mete e punti fissi, a compiere banali e omologanti traiettorie dove
trova ad attenderlo un vuoto assoluto di identità.
L’ idea di consistenza è dunque
un’idea di costruzione capace di far lievitare una nozione altra
e oltre rispetto a quella di individuo.
2. Chi è l’individuo consistente?
In questo breve saggio mi prefiggo di argomentare la tesi della consistenza
nella convinzione che da tale approfondimento sia possibile una ridefinizione
del problema dell’altro. Esaminiamo tre modalità di essere della
consistenza: l’orientamento, la composizione e la negoziazione.
Tali modalità focalizzano le molteplici dinamiche dell’identità
individuale, mettono in discussione una concezione monolitica e sostanzialistica
di soggettività che è stata dominante nella tradizione
filosofica moderna.
Prima di addentrarci nell’analisi di
queste proprietà, sarà opportuno richiamare un celebre
saggio di G. Simmel del 1908, Excursus sullo straniero, che riflette
sulla figura dello straniero all’interno di un capitolo sullo spazio
e gli ordinamenti spaziali della società:
"L’unità di vicinanza e
di distanza, che ogni rapporto tra uomini comporta, è qui pervenuta
a una costellazione che si può formulare nella maniera più
breve nei termini seguenti: la distanza nel rapporto significa che il
soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero significa
che il soggetto lontano è vicino. Infatti l’essere straniero
è naturalmente una relazione del tutto positiva, una particolare
forma di azione reciproca (3).
In questo passo simmeliano è
utile focalizzare alcuni passaggi teoreticamente rilevanti per il nostro
discorso al di là dell’oggetto e del contesto specifico: la prima
osservazione è che il rapporto tra persone è uno stare
in tensione tra lontananza e vicinanza, è abitare un campo di
relazione che vede l’io e l’altro coappartenersi nella distanza; la
seconda osservazione concettualizza l’idea di soggettività come
una particolare forma di azione reciproca tra soggetti. Simmel fa
propria l’affermazione kantiana contenuta nella terza analogia dell’esperienza,
secondo cui "tutte le sostanze, in quanto possono venir percepite
nello spazio come simultanee, agiscono sempre reciprocamente le une
sulle altre" (4). Il
rapporto tra le sostanze è un dunque un rapporto dell’influsso
per cui "la simultaneità – continua Kant – delle sostanze
nello spazio non può nell’esperienza esser conosciuta altrimenti
che a patto di presupporre una scambievole azione di esse fra di loro"
(5).
L’agire delle sostanze è in realtà
un interagire, una spaziatura per fare l’esperienza dell’altro; inoltre,
è dentro la dimensione dello spazio che si misura il movimento
interagente, inquieto, delle sostanze.
La lettura simmeliana di Kant lascia
intravedere la riformulazione del soggetto moderno contaminato di azione
reciproca, capace di tenere insieme gli influssi dell’altro da sé
dentro i quali esso si costruisce. L’azione reciproca che gli individui
esercitano gli uni sugli altri rimanda alla consistenza che possiamo
intendere, in prima approssimazione, come l’ininterrotta ricerca della
propria individualità nella multiformità degli spazi,
dei percorsi e delle possibilità in cui essa s’imbatte, nonché
nei suoi molteplici confini da cui si vede attraversata.
La consistenza è l’Erfahrung
dell’identità: l’Erfahrung proviene da erfahren,
"passare attraverso" cioè il modo in cui la coscienza
hegeliana fa esperienza di sé. Scrive Heidegger, che del termine
mostra tutte le valenze concettuali e linguistiche:
"Il procedere (fahren) proprio dell’esperire
(erfahren) ha il significato originario del condurre […] Il procedere
è uno studiar la strada da prendere " (6).
La consistenza è il modo di condurre
una vita, comporta l’idea che dare il senso alla propria vita sia "uno
studiar la strada da prendere".
3. La consistenza può, quindi,
essere predicata. Proviamo a descrivere le proprietà sopra richiamate.
Anzitutto, l’orientamento. Non
si dà consistenza senza orientamento.
Che cosa significa orientarsi nella
vita? Si orienta nella vita colui che sa realizzare una buona
identità.
L’orientamento può ritradursi
nella nostra accezione anche come la tensione romantica, novalisiana
a prendere possesso della propria interiorità, come l’affermazione
di un’identità ben riuscita, come la possibilità che io
trovi da solo il senso della mia vita. Come l’eroe romantico va alla
ricerca del senso del sé affrontando le peripezie della vita,
arrischiandosi in "quel formidabile deserto del mondo"(7),
così l’individuo moderno va alla ricerca del proprio consistere
- aprendosi a bisogni e a desideri - mettendosi in gioco rispetto a
se stesso, rispetto agli altri, rispetto al mondo.
Se l’eroe romantico orienta i suoi gesti
e il suo agire nel mondo esclusivamente per la sua auto-esplorazione,
per mettere alla prova il suo io, l’individuo moderno cerca il proprio
consistere attraverso il riconoscimento dell’altro, negoziando la sua
identità attraverso il dialogo con gli altri.
In termini più tradizionali potremmo
dire che orientare la propria vita significa fare scelte autentiche,
cioè optare per l’autenticità contro i conformismi assordanti
della modernità, significa guardare a noi stessi come ad esseri
dotati di profondità interne. Il filosofo americano Charles Taylor
spiega che l’ideale dell’autenticità è parte essenziale
della storia dell’individualismo moderno ancora tutta da raccontare.
"Se non sono fedele a me stesso, perdo la sostanza della mia vita,
perdo ciò che l’essere uomo è per me. […] Essere fedele
a me stesso significa essere fedele alla mia propria originalità,
la quale è qualcosa che io solo posso articolare e scoprire.
Nell’articolarla, io definisco altresì me stesso, realizzando
una potenzialità ch’è propriamente ed esclusivamente mia"(8).
Ciascuno, quindi, è chiamato ad essere fedele a se stesso, ha
un suo proprio compito e non può scambiarlo con nessuno, pena
la perdita di sé. L’elemento costitutivo di questa etica dell’autenticità
- secondo Ch. Taylor - è l’originalità, vale a dire sono
chiamato a vivere la mia vita in questo modo e non ad imitazione di
modi altrui.
Su questa linea si muovono i lavori
del sociologo italiano Alessandro Ferrara (9)
che sviluppa un complesso discorso sulla tesi dell’autenticità
presupposta ad ogni paradigma intersoggettivo. "Possiamo individuare
tre diversi modi in cui la tesi dell’autenticità presuppone
una prospettiva genuinamente intersoggettiva. In primo luogo, la categoria
centrale di identità non può che essere intesa in chiave
intersoggettiva. In secondo luogo, la categoria di autorealizzazione
presuppone la nozione, centrale in alcune versioni del paradigma intersoggettivo,
di riconoscimento"(10).
L’autore chiarisce che la tesi dell’autenticità non vuole affatto
essere una riedizione della filosofia del soggetto né il ritorno
all’identità come autocoscienza, piuttosto la nozione di identità
"presuppone, fra le altre cose, sapersi vedere con gli occhi
di un altro o sapere assumere il ruolo di un altro" (11).
Quindi, un’identità riuscita, orientata è quella che sa
vedersi con gli occhi di un altro.
4. La composizione. Non si dà
consistenza senza composizione.
"C’è un atto di creazione
che ci vede tutti coinvolti: la composizione delle nostre vite"
(12). La composizione è un processo che
si nutre di continue rotture e di intermittenti improvvisazioni, è
un esercizio che smuove le fissità identitarie, rendendole fluide.
L’identità è un composto.
Qui si vuole alludere alla composizione come trama, ordito, rete fatta
cioè di tanti fili. Potremmo dire che un’identità per
composizione rinvia all’inimitabile trattato leibniziano De arte
combinatoria cioè la capacità di tenere insieme il
multiversum: l’io e l’altro, l’identità e la differenza,
la differenza che passa tra l’identità e la differenza. È
un modo di essere dell’individuo e di darsi a conoscere come tale. Ritorna
la simmeliana interazione delle parti con il tutto in un gioco di infinite
combinazioni. Consistenza è anzitutto consistenza di eventi,
di incontri con cui il nostro io viene in contatto: la mia azione si
intreccia inevitabilmente con quella degli altri, è implicata
non senza conseguenze nell’agire degli altri.
Metamorfosi, molteplicità, composizione
sono i tratti dell’individuo consistente. Prendiamo l’esempio dell’Albertine
proustiana e delle sue metamorfosi. Come è noto, il Narratore
della Recherche è perdutamente innamorato di lei, ma avverte
un acuto senso di sofferenza ogniqualvolta cerca di capire qualcosa
della sua identità: Albertine è sfuggente, mutevole, inafferrabile,
camaleontica nelle parole e nei comportamenti: la sua natura somiglia
tanto poco a quel che era la volta precedente, che mette scompiglio
nella mente già provata del Narratore :
"Non avevo indovinato in Albertine una di quelle
donne in cui sotto l’involucro carnale palpitano molti più esseri
non dico che in un gioco di carte ancora chiuso nel suo astuccio, o
in una cattedrale o in un teatro prima d’entrarvi, ma nella folla immensa
e sempre nuova? E non soltanto molti esseri, ma il desiderio, il ricordo
voluttuoso, l’inquieta ricerca di loro […] ciò aveva conferito,
per me, ad Albertine la pienezza d’un essere riempito sino in fondo
dalla sovrapposizione di molti esseri, e di ricordi voluttuosi di esseri"(13).
L’identità di Albertine è
un composto di innumerevoli esseri: da qui emerge lo spessore
del personaggio proustiano, la sua capacità di inventare e di
"comporre" la sua esistenza in un gioco di intreccio con quella
degli altri. Possiamo dire che la consistenza di Albertine altro non
è che la sua determinazione a mostrarsi nei suoi innumerevoli
esseri, è la pienezza di un essere riempito che impressiona
il Narratore. In ogni amore - dice Proust - c’è una scoperta,
una dolorosa ricerca dell’altro, una voluttuosa reminiscenza. L’oggetto
amato sfugge continuamente, è evanescente come un’araba fenice.
Il Narratore lo sa e per questo si trasforma in potente carceriere al
fine di tenere chiusa la sua preda. Ma ci sono tante Albertine, ciascuna
delle quali ha un nome, un volto e un essere proprio, anche rispetto
a se stessa: in lei l’identico e il diverso si coappartengono in una
misteriosa complicità. La sua consistenza si afferma nella continua
sovrapposizione di molti esseri, nella capacità di scegliere
ora l’uno, ora l’altro, di lasciarli transitare nel magma della vita
e dell’esperienza.
Se poi spostiamo lo sguardo su Marcel,
il suo ubi consistam è
la sofferenza, la consapevolezza che "tutto ciò era menzogna,
ma alla quale non avevo il coraggio di cercare altra soluzione fuorché
la mia morte"(14).
La sua consistenza si espande nei molteplici tragitti della sofferenza
e nella dolorosa rinuncia.
5. La negoziazione. Non si dà
consistenza senza negoziazione
La costruzione di un’identità è
un processo che comporta, sempre delle scelte: che cosa includere o
escludere dai confini della nostra "costruzione". Quindi essa
ci lega ad altri, nel senso che la negoziamo con gli altri. Ha scritto
Taylor che "lo scoprire la mia identità non significa che
io la elaboro in un completo isolamento, ma che la negozio attraverso
il dialogo - in parte aperto - in parte interiorizzato con gli altri"(15).
Storicamente questo bisogno di negoziazione, cioè di riconoscimento
(ammesso che diamo qui per sinonimi i due termini), è nato nell’età
moderna. Non sorprende – secondo Taylor – che sia dato trovare alcune
delle idee basilari in materia di dignità del cittadino e di
riconoscimento universale in Rousseau e soprattutto in Hegel. Non è
questa la sede per dilungarsi su questo discorso che tocca il destino
del soggetto moderno, ma sicuramente conviene ribadire che, sia sul
piano privato sia sul piano sociale,
il riconoscimento è universalmente ammesso
e condiviso.
La negoziazione sovverte la logica dell’identità
costituita, provoca delle scelte potenziali, delle possibilità
alternative che contrastano la rigidità e la pienezza dell’identità.
Si tratta di un modo diverso di concettualizzare
il rapporto tra identità e alterità: non più una
tensione conflittuale, di negazione e rifiuto dell’altro, ma il riconoscimento
dell’alterità nel suo essere coessenziale all’identità.
Occorre ammettere, cioè, che alterità e identità
sono intrinsecamente legate nella loro formazione: innanzitutto perché
l’alterità stessa precede il processo di costruzione identitaria;
in secondo luogo perché l’identità è fatta anche
di alterità ed è continuamente costretta a negoziare con
essa i suoi confini. In questa prospettiva l’identità non è
più una costruzione compatta e immutabile, ma risulta il frutto
di un processo continuo di contrattazione con l’altro.
Negoziare la propria identità
è soprattutto una sfida al mondo globalizzato. Lo straniero sul
piano intimo è introiettato, assimilato, annullato nei nostri
sistemi identitari, sul piano sociale è derubricato a merce in
nome dell’inclusione universale, mentre sul piano politico è
un nemico storicamente necessario alla costruzione delle identità
nazionali. Nella società della comunicazione globale e dell’uniformazione,
lo straniero è puramente despazializzato, completamente espropriato,
confinato nel limbo delle non persone. Al contrario deve essere
riaffermata e ricostruita una cultura del riconoscimento per neutralizzare
la carica di ostilità che connota la figura dello straniero:
un passo essenziale verso la cultura del riconoscimento è l’esperire
empatico, cioè la capacità di sentire l’altro e di rendersi
conto di qualcosa o di qualcuno che sta davanti a me. Empatizzando,
incontro l’altro.
Tralascio la vasta letteratura sull’argomento
e gli usi molteplici a cui questa grande categoria formativa si presta
anche in ambito sociale per concentrarmi sulla spiegazione che ne dà
Edith Stein, la grande fenomenologa, allieva di Husserl, morta ad Auschwitz
nel 1942: "Affiorando di colpo davanti a me, mi si contrappone
come oggetto (come le sofferenze che leggo sul viso dell’altro);
ma mentre analizzo le tendenze che questo porta con sé, mentre
cerco di chiarire a me stesso lo stato d’animo nel quale l’altro si
trova, questo non è più oggetto in senso proprio ma mi
ha coinvolto in sé"(16).
L’esperire empatico è la comprensione
dell’altro, è il trovarsi presso l’altro: ciò rafforza
la sensibilità nei confronti di chi è diverso da noi e
rende possibile un gioco di interazioni al punto tale che spontaneamente
sentiamo il bisogno di negoziare la nostra identità. L’Io si
libera così dal suo carattere monadico per riemergere in un Noi
come soggetto di grado più elevato. "Lo stesso può
accadere agli altri e così, empatizzando, arricchiamo il nostro
sentire, e noi ora sentiamo un’altra gioia rispetto a quella
che sentivamo io, tu o lui restando isolati"
(17).
In altri termini, l’esperire empatico
è un esercizio di consistenza perché ci permette di acquistare
spessore in questa relazione con il "sapere del vissuto altrui".
Infatti, l’identità di ogni individuo è alimentata e contaminata
da molte altre identità. E l’empatia è un rendersi conto
che c’è l’altro nell’orizzonte del mio essere, della mia esperienza.
"L’empatia attesta dunque la possibilità della circolazione
o comunicazione dell’esperienza, non perché due soggetti diventino
uno, si confondano o trovino un’analogia e un’identità misteriosa,
ma perché è possibile riferirsi a qualcosa che non siamo
noi, ma non è una cosa, è la realtà vissuta di
un altro essere umano" (18).
Tuttavia, l'essenza dell’empatia non
significa una immedesimazione con l’altro, ma una disponibilità
a lasciare all’altra persona la sua autonomia; pertanto la mia autonomia
e quella dell’altro implicano, comunque, una contrattazione che non
è necessariamente cognitiva ma può svolgersi anche in
modalità emotive e/o narrative.
Il soggetto consistente è un
soggetto dilatato, contaminato a connessioni potenziali, a vicinanze
e ad affinità inesplorate, in cui si scopre coessenziale il senso
dell’alterità.
Prendiamo ad esempio l’amore (19).
Nel sentimento d’amore si compie un atto di creazione, perché
l’amante, quando assume in sé l’altro, crea e compone come l’artista;
il legame tra l’amante e l’amato è un legame di creazione che
mescola una profonda vicinanza e un’irriducibile distanza.
"Più nero del nero, sono più
nudo.
Infedele solo sono fedele
Io sono tu, quando io sono io" (20).
Così scrive Paul Celan,
in Lode della lontananza, spiegando la forma e l’essenza dell’amore,
nel suo farsi concretezza, pratica di contaminazione e di ricreazione
dell’altro. Contaminare la propria vita nell’amore è un esercizio
di consistenza, di esperienza dell’altro. Questo verso Io sono tu,
quando io sono io si nutre di una misteriosa ed impenetrabile
bellezza.
Ad una prima lettura, posso affermare
che io sono io quando mi scopro nell’altro e mi vedo con gli occhi dell’altro:
l’io non è l’io, ma diventa io solo nell’espressione del tu,
dell’altro. E così il tu, l’altro vengono prima. (21).
Ciò che veramente si ama è il mutare e il divenire che
è proprio degli amanti; il loro scambio osmotico, empatico rende
consistenti le rispettive individualità.
"L’amore di un essere umano per un altro, è
forse la prova più ardua per ciascuno di noi, la testimonianza
più alta di noi stessi; l’opera suprema di cui tutte le altre
non sono che la preparazione"(22).
Così scriveva nel 1904 Rainer
Maria Rilke per il quale l’amore è l’occasione unica di maturare,
di prendere forma, di acquistare consistenza.
Un’ipotesi conclusiva
La consistenza è un esercizio
che dà il tono ad una vita, perforando quell’enigma che
è l’identità di una persona.
Orientamento, composizione
e negoziazione sono proprietà transitive che non si lasciano
conservare nello scrigno della fissità e perciò scompaginano
i principi stessi della gerarchia identitaria. Identità e alterità,
identità e differenza non sono più coppie gerarchicamente
definite; la consistenza ne svuota il contenuto binario, cioè
dicotomico, per
cui lo stesso problema dell’altro va radicalmente reimpostato e ridefinito.
Il mio divenire s’incrocia con il divenire dell’altro, il mio essere
consistente s’incrocia con l’essere consistente dell’altro. Io non sono
identico a me stesso come l’altro non è mai identico a se stesso.
Non c’è un’identità che
osserva e incontra l’alterità, ma c’è un’identità
che osserva e incontra l’identità.
È
solo attraverso un’esperienza di profonda vicinanza
con l’altro che scopro il mio consistere, la mia ineludibile contingenza
(23).
Alimentandosi alla linfa della consistenza,
l’identità assume così carattere proteiforme e scopre
la sua errante radice.
Note
(1) L’ultima lezione
americana di Italo Calvino, la sesta, doveva essere dedicata alla
parola consistenza "Consistency". Di questa lezione mai
scritta parla Esther Calvino, nella sua nota introduttiva,
"so solo che si sarebbe riferito a Bartleby di
Herman Melville" (I. Calvino, Lezioni americane, Milano,
A. Mondadori, 1993, p.VI). Studi recenti hanno riproposto l’idea di
consistenza non sempre in maniera univoca. Penso ai lavori di Alessandro
Ferrara (L’eudaimonia postmoderna, Napoli, Liguori, 1992),
di Paolo Jedlowski (Il sapere dell’esperienza, Milano, Il Saggiatore,
1994) e di Gabriella Turnaturi (Flirt Seduzione Amore, Milano,
Anabasi, 1994). Il termine consistenza, sia pure con notevoli
sfumature nei tre autori, significa anzitutto un criterio per condurre
e orientare la propria vita. Ferrara preferisce parlare di "autorealizzazione
di un’identità" secondo precisi parametri quali la
coerenza, la vitalità, la profondità e la maturità,
mentre Turnaturi insiste sull’idea di consistenza come divenire che
si riconosce non nel progetto ma nel percorso, nell’ascolto attento
a tutte le parti di sé e alle risposte che il sé dà
rispetto alle esperienze vissute. Jedlowski lega invece consistenza
ed esperienza ritenendo che l’esperienza è un processo,
mentre il suo esito è la "consistenza del soggetto".
(2) Karl Marx, Il
Manifesto del partito comunista, a cura di Emma Cantimori Mezzomonti
e prefazione di Lucio Colletti, Roma-Bari, Economica Laterza,
1995, p. 87.
(3) Georg Simmel, Sociologia,
tr.it. e intr. di Alessandro Cavalli, Torino, Edizioni
di Comunità, 1998, p. 580.
(4) Immanuel Kant, Critica
della Ragion Pura, a cura di Vittorio Mathieu, Bari, Laterza,
1977, p. 217. Cfr. sui rapporti Kant-Simmel la lucida interpretazione
di Luca Burgazzoli. Lo straniero nel pensiero di G.Simmel in
AA.VV. Lo straniero e il nemico, Materiali per l’etnografia
contemporanea, a cura di Alessandro Dal Lago, Genova - Milano,
Costa & Nolan,1998, pp.64-80.
(5) I. Kant, Op.
cit., p. 218.
(6) Martin Heidegger,
Sentieri Interrotti, a cura di Pietro Chiodi, Firenze, La Nuova
Italia, 1973, p. 168.
(7) Giacomo Leopardi,
Lettera a Pietro Giordani, 17 Dicembre1819 in Tutte le poesie
e tutte le prose, Roma, Newton & Compton editori, 1997, p.
1192.
(8) Charles Taylor,
Il disagio della modernità, Roma-Bari, Economica Laterza,
1999, p. 36.
(9) Alessandro Ferrara,
L’eudaimonia postmoderna op. cit.;
vedi anche Id., Intendersi a Babele.
Autenticità, phronesis e progetto della modernità,
Catanzaro, Rubbettino 1994; Id., Autenticità
riflessiva, Milano, Feltrinelli, 1999.
(10) A. Ferrara, Intendersi
a Babele, cit., p. 63.
(11) Ivi, p.
63.
(12) Mary Bateson,
Comporre una vita, tr.it., Milano,
Feltrinelli, 1992, p. 13. L’autrice, che è figlia di Margaret
Mead e Gregory Bateson, riflette in questo suo lavoro "sulla
vita come arte dell’improvvisazione, sul modo in cui ciascuna di noi
combina ciò che è familiare e ciò che è
sconosciuto in risposta a situazioni nuove, seguendo una grammatica
di fondo e un’estetica del divenire" (p. 14). Sul tema dell’identità
per composizione in una prospettiva radicalmente diversa cfr. l’opera
di Sergio Moravia, L’enigma della mente, Roma-Bari, Laterza,
1996.
(13) Marcel Proust,
Alla ricerca del tempo perduto, vol. V. La prigioniera,
a cura di Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino, Einaudi, 1978, p.
92.
(14) Ibidem,
p. 370.
(15) Ch. Taylor, Op
.cit. pp. 56-57.
(16) Edith Stein,
L’empatia, a cura di Michele Nicoletti, Milano, Franco Angeli,
1985, p. 62.
(17) Ibidem,
p.72.
(18) Laura Boella,
Annarosa Buttarelli, Per amore di altro, Milano, Raffaele Cortina
Editore, 2000, p. 70.
(19) Rinvio alle pagine
dello splendido libro di Gabriella Turnaturi, cit., p. 75; "Indipendentemente
dalla volontà dei soggetti coinvolti, l’amore nasce dalla contaminazione
di due individualità, dalla contaminazione del soggetto col
mondo, del soggetto con l’altro, e produce a sua volta contaminazione.
L’amore produce alterità e alterazione, vive nell’alterità
e nel trasformare. L’oggetto d’amore, per essere tale, deve essere
altro da me, e insieme ci alteriamo perché siamo vicendevolmente
l’altro, e perché ci trasformiamo".
(20) Antonio Prete,
L’ospitalità della lingua, Baudelaire e altri poeti,
Lecce, Ed. Pietro Manni, 1996, p. 121.
(21) La riflessione
sullo statuto del vedere è centrale nella filosofia novecentesca.
Possiamo citare, a titolo di esemplificazione, Merleau-Ponty, per
il quale il soggetto esiste nell’espressione altrui, e sente l’altro
esistere nella propria. Al suo nome va aggiunto quello di Levinas,
per il quale lo sguardo diventa il veicolo privilegiato dello scambio
con l’altro.
(22) Rainer Maria
Rilke, Lettere a un giovane poeta, Roma, Carlo Mancosu editore,
1993, p. 93.
(23) Rinvio al saggio
di Günther Anders, Patologia della libertà. Saggio
sulla non-identificazione, Bari, Palomar, 1993. L’identità
vive la singolare esperienza della contingenza, costretta, com’è,
a continue peregrinazioni. Si ritrova e si perde, si ritrae e si astrae,
scoprendo così la sua contingenza.