Segni
d'identità. L'alterazione del corpo
Intervista
con David Le Breton (6 settembre 2002)
a cura di Marco Dotti
Da sempre il corpo si presenta come
"superficie di scrittura" adatta a ricevere la lettera, la
norma e i suoi divieti. Ed è in questo suo significato che attrae
l'interesse delle scienze umane che guardano al corpo come ad un sistema
sociale composto di segni e simboli da decifrare. Secondo Abdelkébir
Khatibi - scrittore, semiologo e calligrafo franco marocchino che al
tema del corpo inciso ha dedicato studi esemplari - "il corpo è
il luogo concentrico dove comincia, o ricomincia, l'enigma della
parola". Per questa ragione, chiosa Khatibi, il corpo è
anche, meno astrattamente, il campo "intersemiotico" in cui
prima o poi si incontrano e si sovrappongono tutti i segni possibili.
Tra questi, un posto di rilievo è occupato da tatuaggi, piercings,
scarnificazioni, branding, burning, peeling e impianti
estetici in genere.
Sono questi i "segni di identità"
che l'antropologo David Le Breton, già noto al pubblico italiano
per la traduzione di alcuni suoi lavori (Passione del rischio,
a cura di Mauro Croce, traduzione di Claire-Lise Vuadens, Torino, Edizioni
Gruppo Abele, 1995 e Il mondo a piedi. Elogio della marcia, traduzione
di Ester Dornetti, Milano, Feltrinelli traveller, 2001), ha deciso di
affrontare in un volume recentemente pubblicato dall'ottimo editore
parigino Metailié.
Signes d'identité (2002) è frutto
di una lunga ricerca condotta sul campo con verifiche e interviste (a
tatuati, tatuatori, cultori della body art e portatori di protesi
in genere) che fanno da vivace supporto a considerazioni che toccano
il cuore stesso di quell'antropologia del corpo che proprio Le Breton,
professore all'Università di Strasburgo, ha contribuito a rinnovare
con la sua verve saggistica (tra i suoi lavori si ricordano: Anthropologie
du corps et modernité, Parigi, Presses universitaires de
France, 1990; Passions du risque, Parigi, Metailié, 1991;
La sociologie du corps, Parigi, Presses universitaires de France,
1992; La chair a vif. Usages medicaux et mondains du corps humain,
Parigi, Metailié, 1993; Anthropologie de la douleur,
Parigi, Metailié, 1995; La sociologie du risque, Parigi,
Presses universitaires de France, 1995; Du silence, Parigi, Metailié,
1997; Les passions ordinaires, Parigi, Colin, 1998; Conduites
a risque. Des jeux de mort au jeu de vivre, Parigi, Presses universitaires
de France, 2002).
Le Breton, secondo lei potremmo parlare, in termini
generali, di un processo di costruzione di nuove forme d'identità
di cui il tatuaggio, il piercing, la stessa chirurgia a fini
estetici, non sono che una manifestazione particolare?
Esattamente. Il corpo è percepito dai nostri
contemporanei come una specie di materia grezza, un accessorio della
persona malleabile e revocabile.
È come se non ci si potesse più accontentare
in alcun modo del corpo che ci ritroviamo: bisogna modificarlo in un
modo o nell'altro, come se questi cambiamenti ci facessero prendere
realmente possesso del nostro corpo. È un'intenzione che
ricorre spesso nelle interviste che ho realizzato: "Ho fatto questo
tatuaggio per riappropriarmi del corpo". E qui si scorge un fantasma,
si intuisce la voglia di essere a fondamento della propria origine rifiutando
ogni idea di filiazione: è l'ambizione di "farsi da sé".
In un mio libro, L'adieu au corps (Parigi, Metailié, 1999),
ho analizzato proprio questa convergenza tra pratiche e discorsi sull'insufficienza
(più che sull'incompletezza) del corpo, la delusione e lo sconforto
che si provano ai propri occhi, e il desiderio di cambiare pelle. Il
tatuaggio e il piercing sono la forma più elementare e
banale, se vogliamo, di questa volontà di mettersi al mondo da
soli segnandosi il corpo.
In Signes d'identité, il suo ultimo
libro, lei sottolinea un processo di individualizzazione che passa dal
corpo, e attraverso il corpo. Ci si "segna", scrive, per "cambiare
vita", per affermare una presenza in un contesto che chiede, al
più, un anonimato abulico. In questo senso, il tatuaggio e le
altre pratiche di modificazione del corpo possono ancora essere definiti
nei termini di un rito di passaggio?
Si vuole cambiare il corpo, per cambiare vita. Certo,
per qualcuno si tratta solamente di "aggiungere" al corpo
un sovrappiù estetico, senza la pretesa di andare oltre. Altri,
invece, agiscono seguendo una logica precisa di cambiamento personale.
Come vivono queste trasformazioni? Da parte mia, io mi rifiuto di parlare
di riti di passaggio. Le nostre società, d'altronde, non hanno
nulla a che vedere con le società tradizionali, e il continuo
richiamo a non meglio identificati riti di passaggio ha più il
sapore dello stereotipo e del cliché che dello strumento critico.
Nonostante questo, però, non si può negare che per molti
giovani l'esperienza di segnarsi il corpo abbia come conseguenza cambiamenti
reali, tangibili sul piano personale ed emotivo. In questi casi, mi
è sembrato utile riferirmi ad un rito di passaggio personale,
poiché quello che assume rilevanza è l'esperienza del
tutto personale del segno corporale.
Lei parla anche di "protesi identitarie"…
Sì, ma senza caricare l'espressione di assonanze
negative.
Tra le innumerevoli interviste che ho raccolto
per il mio lavoro, molti giovani raccontano di essersi sentiti più
forti, addirittura di sentirsi meglio nella propria pelle, dopo essere
usciti dal laboratorio del tatuatore. Il paradosso, se vogliamo, è
che qui si tratta di semplici consumatori. Non si tratta, in altri termini,
di fare della propria vita qualcosa di meraviglioso, ma, più
semplicemente, di pagare uno sconosciuto per farsi tatuare o incidere
la pelle. In questo gioco, il cliente non apporta che un piccolissima
dose di creatività, la sua partecipazione si risolve spesso nella
sola scelta del disegno o del motivo da tatuare.
Quale ruolo occupano sofferenza e dolore nell'esperienza
di un corpo (per lo più un corpo giovane) tatuato?
Il dolore non è un motivo che induce a resistere
dal farsi tatuare, o dal farsi applicare un piercing. Al contrario,
moltissimi clienti rimpiangono (soprattutto per quel che riguarda il
piercing, che non provoca dolore quando lo si mette; il dolore,
semmai, insorge durante il successivo periodo di cicatrizzazione), di
non aver sofferto abbastanza. Mi sono più volte imbattuto in
giovani che dichiaravano di voler ricominciare tutto da capo, rifacendosi
il piercing o il tatuaggio, scegliendo un operatore che godesse
la fama di essere più doloroso. Il tatuaggio fa male, ma molti
- e badi: senza essere masochisti - sostengono di apprezzare proprio
questo aspetto dell'esperienza, perché è il dolore a confermare
l'importanza di quello che stanno facendo. Il dolore agisce come memoria
dell'evento, è la prova della sua solennità.
A proposito di memoria, il corpo, in questi casi,
è vissuto solo come una sorta di archivio vivente individuale.
Non c'è proprio nessuna traccia - fosse pure implicita e involontaria
- di una memoria comune, collettiva su questi corpi incisi e segnati?
Sì, è vero, il corpo si costituisce come
archivio. Sono i tatuaggi e i piercings a rappresentarne le tracce
simboliche forti. Per la maggior parte dei ragazzi che decidono di tatuarsi,
d'altronde, si tratta di fissare e ricordare eventi come un anniversario,
il conseguimento di un diploma, l'ingresso all'università, una
relazione sentimentale, ecc. Ma permane, beninteso, una filiazione sottile
ai valori di tutta una generazione, e di una cultura "giovanile"
che fornisce lo statuto identitario. Il corpo, quindi, funziona come
una specie di diario aperto, ma anche come una carta di identità
con scritte, a chiare lettere, le proprie referenze.
Sotto la pelle e sul corpo segnato passano un certo
numero di questioni. C'è, evidentemente, una questione estetica,
ma c'è anche una questione, per così dire, etica. Prendere
possesso di sé attraverso un piercing o un tatuaggio,
e in ogni caso attraverso il dolore, può assumere i tratti di
una scelta etica, e forse epica, al contempo?
Sì, perché il dolore, nelle nostre società,
è considerato come un elemento assoluto di negatività.
Passare deliberatamente attraverso la prova del dolore conferisce comunque
un valore. Molti giovani, infatti, si ritengono fieri di avere sopportato
e accettato il dolore. E poi c'è la questione - ma durerà
ancora per poco tempo - del segno negativo, del disvalore attribuito
al tatuaggio, e l'impressione di appartenere, in qualche modo, ad una
comunità separata, di essere una specie di "barbaro"
e di beneficiare, quindi, dell'antico stigma che vi era associato.
Nell'ultimo capitolo del suo libro, Signes d'identité,
afferma che il corpo - ogni corpo - contiene, virtualmente, innumerevoli
altri corpi, quasi ci si trovasse di fronte una "moltitudine identitaria".
Può spiegarci meglio questa nozione di corpo che lei definisce
"plurale"?
Il corpo plurale [corps pluriel] rinvia, nei
fatti, ad una identità che, nel mondo contemporaneo, è
diventata polimorfa e sfuggente. Ci viene continuamente chiesto di aggiornarci,
di riciclarci, di sottostare alle mode.
Il fatto stesso di rimettersi in causa è curiosamente visto come
un valore. L'economia e il mondo delle merci ci chiedono di rapportarci
continuamente con il sistema del consumo. Ma è infine l'identità
stessa ad assumere modalità variabili. Certamente c'è
quello che si definisce "libertà individuale", ma io
non credo che ci si trovi in un tempo di liberazione del soggetto, credo,
piuttosto, che siano tempi di sottomissione quasi incondizionata ai
mercati, e alla loro mondializzazione. Le modificazioni del corpo, in
fondo, non sono che un modo di declinare la propria volontà di
essere altro da sé, e di interpretarla.