Tradurre
ovvero: la luminosa fedeltà ad Artemide
(1)
di Leonardo
V. Distaso
Il giovane
Lukács, nell’introdurre la raccolta di saggi giovanili d’occasione intitolata
Cultura estetica (1911), rimproverava aspramente i suoi critici
per non aver compreso quanto egli fin’allora aveva scritto. Il suo rimprovero
era rivolto al fatto che essi avessero lamentato apertamente l’incomprensibilità
dei suoi scritti, che non ne avessero fatto mistero e che di tutto ciò
se ne fossero compiaciuti, fronteggiando quello che chiamavano un mistico
o un romantico post litteram. Lukács li ammoniva dicendo che
“essi hanno dimostrato scarsa cautela e, usando i propri termini hanno
espresso “con chiarezza” quanto io avevo scritto “in modo oscuro”
(2).
Lukács,
in altre parole, muoveva verso di essi l’accusa di tradimento;
essi avevano tradito il pensiero espresso nei testi da lui scritti
in precedenza – per quanto poco, oltretutto, l’avessero compresi – consegnandolo
a quel “pensiero comune” o “quotidiano” che la filosofia – a suo dire
– avrebbe proprio il compito di oltrepassare. Coloro che non lo hanno
compreso, accusandolo di oscurità, lo hanno tuttavia, e proprio
per questo, tradito: nel senso proprio di tradere, hanno
tentato di consegnarlo alle “consuetudini di vita”, di trasmetterlo
attraverso un “facile accesso”, lo hanno affidato a una parola mediatrice
che non ha lavorato sulla parola di Lukács preservandola e insieme ospitandola
nella propria. Essi invece hanno semplicemente tentato di condurre
il suo pensiero al di là di se stesso, di trasferirlo di
là da se stesso, dall’implicito in cui riposava e fecondava verso
un esplicito che ha dimenticato, se non addirittura completamente eluso,
l’origine problematica del filosofare. Trasferendolo, insomma, essi
lo hanno consegnato ad altro, lo hanno es-propriato; traducendolo
lo hanno tradito perché non hanno compreso il lavoro di risalimento
all’essenziale principio di ogni determinata consuetudine quotidiana,
di ogni conoscenza determinata, di ogni espressione ontica che Lukács
si era sforzato di perseguire – in particolare nei saggi contenuti in
L’anima e le forme – e che costituisce il fulcro dell’interrogare
critico-filosofico. Insomma: si è trattato di un tradimento di poco
conto, non essenziale, e proprio per questo ancora più mortificante,
un tradimento occasionale che avvilisce la parola tradita proprio perché
non la tiene nel giusto conto.
Destino
comune, questo, a ciò che Heidegger ci dice di Eraclito
(3), detto “l’oscuro”
non perché il suo dire originario risultasse nell’antichità un’espressione
linguistica confusa e incomprensibile, ma perché la sua parola (Sage)
è fin dall’inizio in rapporto con il cósmos essenzialmente oscuro;
essa si conforma a ciò che si nasconde, a ciò che è oscuro e che deve
essere pensato lasciandolo-essere per ciò che è. La parola di Eraclito
custodisce l’oscurità perché è pensiero iniziale, che si imbatte e appartiene
all’inizio del domandare filosofico, che non solo e non tanto è un inizio
temporale. In Lukács assistiamo alla stessa pretesa, allo stesso domandare
che riavvia con fatica, riproblematizzando, il tema “originario e condizionante”
della possibilità della filosofia e del pensare in quanto tale.
Qui
non è in gioco, come si può vedere, un’idea di traduzione come sostituzione
di una locuzione terminologica o lessicale con un’altra, all’interno
di una stessa lingua o tra lingue diverse, ma di una traduzione che
risponde alla necessità di una comprensione che risale al presupposto
stesso del filosofare, a ciò che è-da-pensare, al problematico
(Fragwürtig) di cui già da sempre la parola si prende cura (4).
Sottolinea infatti E. Garroni nella presentazione all’edizione italiana
del testo lukácsiano: “Sia pure in forma stringata, ellittica, unilaterale,
polemica, e non priva di giovanile arroganza, il tema dell’introduzione
è costituito dal problema generale della possibilità e dello statuto
della filosofia” (5).
Questa
pare essere la posta in gioco nell’accusa del giovane Lukács: “non esiste
filosofia che non abbia qualche lato “oscuro”, ma occorre vedere in
che cosa esso consista, a che punto si trovi, perché lo sia e chi lo
ritenga tale” (6). Ed è proprio questo vedere il lato oscuro
della filosofia che ci conduce a fare le nostre considerazioni su cosa
voglia dire tradurre, trasferire la parola filosofica all’interno
di una stessa lingua prima ancora che da una lingua a un’altra. Forse
perché il problema della traduzione filosofica va posto per prima cosa
all’interno della comunità filosofica, di quella comunità di parlanti
e pensanti filosoficamente che devono potersi comprendere, devono,
almeno in linea di principio, avere la stessa familiarità con il tematico
e il problematico che ogni parola filosofica fonda e sostiene.
“Chi
sono i lettori di un filosofo, chi è in grado di esserlo, e in quale
misura?” si chiedeva ancora Lukács nello scritto introduttivo
(7), aprendo
il discorso nella direzione di un’affinità profonda tra comprensione
e traduzione; una traduzione che non deve necessariamente essere perfettamente
corrispondente e adeguata, proprio perché la stessa comprensione non
ha niente a che vedere con la corrispondenza o l’adeguazione a un tematico-da-pensare
o a un detto da ripetere o riformulare. A questo tematico, a
questo detto, si resta fedeli solo se si ripercorre dall’interno
il lavoro che il filosofo ha compiuto sulla sua lingua rendendola nuova
e facendola sentire essenzialmente vivente: solo se si resta fedeli
al travaglio autoreferenziale, che il filosofo in maniera esemplare
ha condotto al suo interno attraverso la parola, si può accettare l’invito
della sua oscura ospitalità e, se è il caso – ma il più delle volte
è il caso – si può cominciare a tradire veramente
quella parola perché si assume il rischio di rimettere in moto quella
segreta oscurità che era rimasta nascosta alla mera descrizione o al
mero dire-altrimenti.
Scrive
ancora Lukács: “Il pensiero filosofico non può essere altro che concettuale
e non designa nulla, perché non ha nulla da designare. E giacché deve
creare il suo carattere univoco e inequivocabile partendo unicamente
da se stesso, dovrà rinunciare a essere di facile comprensione: sarà
“oscuro” fino al momento in cui la lotta per giungere alla comprensione
non inserirà il lettore nelle condizioni d’animo del pensatore, nel
mondo della pura concettualità” (8). Il lettore, dunque, il lettore
filosofico dovrà tradirsi con convinzione se vorrà andare-incontro-penetrando
il segreto filosofico straniero. Egli dovrà tradirsi (cioè consegnarsi)
per tradursi (cioè trasferirsi) costeggiando il segreto filosofico proprio
dello scrittore filosofico che è, allo stesso tempo, il frutto di un
lavoro insieme fedele e infedele. Fedele perché sempre rivolto a se
stesso, alla cosa da pensare, all’oscurità che non designa, all’indicibile
interno alla lingua e alla parola che in essa viene pronunciata e che
comunica “l’essere linguistico delle cose”, il lavoro che la lingua
fa su se stessa per comunicarsi (9); fedele, ancora, perché mostra il
lavoro della parola su se stessa, preservandone la prossimità a sè e
alla cosa da pensare; ma nello stesso tempo, infedele perché trasforma,
dà forma, dice ciò che nel pensare e nel dire resterebbe nell’oscurità
se non fosse che il linguaggio gli apre la possibilità di lasciar-essere.
È solo allora che il gioco di tradimento/fedeltà – non occasionali ma
sinceramente provati – è completato anche dal lettore filosofico; questi,
dopo essersi tradito per andare incontro al segreto inizialmente così
estraneo e distante, si accorge che frutto del suo tradimento sarà la
fedeltà a ciò cui va incontro, perché lo riconoscerà come proprio, come
quel nocciolo essenziale e identico che, una volta compreso, si apre
la strada alle possibili riformulazioni, ai rischi, alle tentazioni,
insomma al riavvio delle continue configurazioni e rifigurazioni del
linguaggio che ne costituiscono il compito continuo e quotidiano.
Conferma
infatti Lukács: “Chi non sente come suoi i problemi della filosofia
(ecco in che cosa consiste, infatti, il consensus sapientiorum:
è l’immedesimarsi nelle questioni comuni a tutte le grandi filosofie),
non comprenderà mai uno scritto filosofico; anzi, non saprà nemmeno
perché non riesce a comprenderlo” (10). Quindi non mera empatia con
un pensiero o con un’origine, o un’immedesimazione di stati d’animo
(d’altronde come poter empatizzare con il mondo della pura concettualità,
con le questioni comuni a tutte le grandi filosofie?), ma un rivolgersi
al colloquio instaurato dalla possibilità della comprensione dello straniero
a partire da un rovescio, da un rinnovamento vivificante della propria
identità, che è anche, e soprattutto, identità linguistica, appartenenza
a un orizzonte di senso in qualche modo unitario e senz’altro familiare
in cui le parole e le frasi prima ancora che un significato, condividono
– come scrive Benjamin – una tonalità affettiva (11).
Certo
non si tratta di un compito pacifico, né esaustivo, non è uno sforzo
che possa essere sempre coronato da successo, tuttavia una qualche modalità
di comprensione deve potersi dare se continuiamo a pensare e parlare,
e con ciò a tradurre e tradurci, lottando contro le resistenze e le
scabrosità del linguaggio. Fatta salva la rinuncia alla perfetta adeguazione
tra due pensieri o due testi e fatto proprio il principio di equivalenza,
ottenuta attraverso un continuo lavoro di assestamento e riadeguamento
di quell’estraneità segreta e oscura, che tuttavia sentiamo profondamente
nostra, resta saldo il dovere imposto alla comunicazione di custodire
la linea che separa le differenze avvicinandole, senza che la parola
faccia violenza alla sua essenza. Si è capito che affinché vi sia comunicazione
non basta essere d’accordo sull’omologia tra segno e cosa, parola e
oggetto, perché è proprio quell’accordo che è messo in questione sul
fondamento stesso della possibilità di quella corrispondenza:
è per questo che non ha senso costruire una lingua perfetta né una simbolica
completa cui delegare le ragioni e l’attualizzarsi di una piena comprensione
e traducibilità del nostro pensare, parlare, poetare, scoprire.
Per
citare quello che mi sembra un evento esemplare del nostro tempo, viene
da chiedersi che se ci siamo posti con sgomento il problema di come
fosse possibile pensare, poetare, parlare dopo la catastrofe di Auschwitz
e se il destino del nostro pensare, parlare e poetare sembrava irrimediabilmente
compromesso, è anche vero che la ricerca non ci ha condotto né verso
un assoluto silenzio, né verso una fredda morte senza traccia, né verso
la formulazione di un linguaggio totalmente altro rispetto a quello
che avevamo. In qualche modo ce l’abbiamo fatta con il linguaggio che
avevamo e che abbiamo, anche se Auschwitz lo ha profondamente trasfigurato,
lo ha interrogato nella sua massima profondità, lo ha spinto a cercare
il suo nocciolo insondabile, intraducibile, inafferrabile. Lo ha, forse,
radicalmente tradotto.
Forse
proprio l’oscurità propria del pensiero ci ha permesso di ricominciare
a parlarci nelle differenze, di lasciar-essere in sé l’abisso della
lingua e quindi di ripartire sulla linea di quel sentiero che da Babele
in poi non ha smesso di essere il luogo della nostra esistenza e al
quale siamo inchiodati nonostante tutto. E proprio il fatto di voler
costeggiare l’abissale possibilità della langue non ancora in
atto, di riaffrontarla nella sua potenza, di riflettere sulla flessione
su di sé della parola, di tenere lo sguardo fisso all’interno dell’inquietudine
che essa è e in cui abitiamo, di riparlarne forzando questa stessa estraneità
inquietante ci ha consentito – e ci consente – di redimere quel tradimento
e di sconfiggere l’assurda maestà dell’indicibile incomprensibile attraverso
il porre insistente del contra-dire. È proprio il linguaggio che, nonostante
le difficoltà, resta quel possibile che fa continuamente ripartire
l’umano.
Note
(1) Testo di una
comunicazione tenuta a Palazzo Serra di Cassano nell’ambito di un seminario
organizzato il 21-22 maggio 1999 dal Dipartimento di Filosofia dell’Università
di Napoli “Federico II”, dalla Terza Università di Roma e dall’Istituto
Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e intitolato: “La pluralità
delle lingue e il problema della traduzione. Aspetti ermeneutici ed
etico-politici”, a cui hanno partecipato Paul Ricœur, Paolo Fabbri,
André Tosel, Domenico Jervolino, Jean-René Ladmiral.
(2) G. Lukács,
Cultura estetica, trad. it. di M. D’Alessandro, con introduzione
di E. Garroni, Newton Compton, Roma 1977, p. 3.
(3) M.
Heidegger, Eraclito, (semestre estivo 1943, semestre estivo 1944),
(GA 55), trad. it. di F. Camera, Mursia, Milano 1993, pp. 21-6.
(4) Cfr.
di M. Heidegger, l’Introduzione a Parmenide, (semestre invernale
1942-3), (GA 54), trad. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 1999.
(5) Lukács, Cultura
estetica, cit., Introduzione, p. XVI.
(6) Lukács, Cultura
estetica, cit., p. 5.
(7) Lukács,
Cultura estetica, cit., p. 6.
(8) Lukács, Cultura estetica,
cit., p. 7.
(9) W. Benjamin,
Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Angelus
Novus, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1962, p. 55.
(10) Lukács, Cultura estetica,
cit., p. 9.
(11) W. Benjamin,
Il compito del traduttore, in Angelus Novus, cit., p.
48.