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L’altro nella rete

(problemi di mediazione culturale)

di Vincenzo Cuomo

 

  1. Agire comunicativo, agire strategico e agire traduttivo.
  2.  

    È possibile utilizzare i media della comunicazione come strumenti di mediazione culturale? Qual è la modalità specifica di relazione col culturalmente altro che può essere realizzata con essi e, in particolare, quale nell’ambito della comunicazione in rete?

    La risposta a tali questioni d’ordine generale implica, in primo luogo, quella ad un’altra: gli strumenti, nella comunicazione umana, sono realtà neutre, secondarie e marginali oppure hanno un ruolo formatore e condizionante le relazioni umane che loro tramite avvengono? La risposta, ormai classica, dataci da Marshall McLuhan è che l’effetto fondamentale di ogni (nuovo) medium consiste nel mutamento delle proporzioni, del ritmo e degli schemi che introduce nei rapporti umani (1). Molte differenze tra le culture (ma non tutte, ovviamente) sarebbero, secondo tale prospettiva d’analisi, riconducibili alla diversità dei media utilizzati per comunicare (e per conoscere). Abbiamo così culture orali-aurali, culture chiro(e tipo)grafiche, culture elettroniche (2). Una tale risposta pone, tuttavia, un ulteriore problema: se ogni medium di comunicazione condiziona l’esperienza del mondo nelle diverse culture, tanto da renderle, in buona parte, eterogenee, quale dovrà essere il medium in grado di rendere possibile la comunicazione inter-culturale? Se tale medium non vi fosse, non dovremmo forse concludere che tali culture sarebbero intraducibili l’una per l’altra? Non rischierebbero, così, di farsi sempre, irrimediabilmente, "torto"? (3)

    Facciamo un esempio. È noto il principio enunciato da Paul Watzlawick circa l’impossibilità del non-comunicare. "Il comportamento non ha un suo opposto – egli afferma – non esiste qualcosa che sia un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora, se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che, comunque ci si sforzi, non si può non comunicare. L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tale modo comunicano anche loro" (4). Un silenzio ha, quindi, valore di messaggio. È evidente. Siamo sicuri, tuttavia, che tutte le culture attribuiscano ad esso lo stesso "valore"? Molte sono le considerazioni che potrebbero essere svolte sulle "retoriche" del silenzio (5), ma la questione fondamentale è che tali retoriche, condizionate dalla tecnologia della comunicazione in cui sono svolte, non sono per niente sovrapponibili. Ad esempio, la retorica del silenzio nell’antica cultura tuareg (fondamentalmente orale-aurale) non è sovrapponibile a quella che si ritrova nella "chiro-tipografica" cultura francese dell’Ottocento (e, ancora, qual è la retorica del silenzio nella comunicazione attraverso il computer?).

    Tuttavia, rispetto al problema della comunicazione inter-culturale, è possibile svolgere un diverso tipo di argomentazione. La storia ci consegna, infatti, numerosi esempi di traduzioni, di contaminazioni, di incontri tra culture. Tralasciando per un momento di riflettere sul concetto di "traduzione", per comprendere cosa significhi, possiamo affermare che si è sempre tradotto. Per quanto si possa considerare la traduzione come tradimento, il suo "fatto" ci deve portare ad affermare che da sempre le culture si sono "incontrate" (magari attraverso l’equivoco e il malinteso, come vedremo) e che, quindi, le due tesi estreme, quelle dell’assoluta incomunicabilità e quella della "comunicabilità universale" tra le culture devono essere considerate astrazioni dogmatiche.

    Se partiamo dal "fatto" della traduzione e non dal dogma dell’eterogeneità assoluta tra le culture, allora, kantianamente, la domanda cui dobbiamo dare una risposta non verte sulla possibilità o meno della "mediazione inter-culturale" ma sulle modalità del suo darsi.

    A tal fine, prima di riflettere, a partire da tale presupposto, sui media della comunicazione, conviene soffermarsi brevemente su alcuni modelli comunicazionali elaborati sia in ambito filosofico-morale che nell’ambito della sociologia dell’azione comunicativa. Ci riferiremo, quindi, nell’ordine al modello dell’azione comunicativa volta all’intesa elaborato da Jürgen Habermas, a quello dell’azione strategica studiato da Erwin Goffmann e, infine, al modello (o ai modelli) traduttologico.

    Come è noto, Habermas, nella sua Teoria dell’agire comunicativo (6), prendendo le mosse dalla teoria weberiana dell’agire, introduce il concetto di agire comunicativo orientato all’intesa, differenziando tale modalità di azione da quella che chiama "strategica". Mentre quest’ultima è orientata al successo ed è caratterizzata dal perseguimento di interessi e si fonda su criteri di efficacia, l’azione comunicativa orientata all’intesa, invece, è concepibile come "un’interazione fra due o più soggetti i quali cercano un’intesa per coordinare i rispettivi piani d’azione sulla base di una reciproca comprensione e interpretazione della situazione" (7). Secondo Habermas (8), i partecipanti ad un’azione comunicativa perseguono i loro scopi individuali solo a condizione di poterli realizzare in conformità a definizioni comuni e condivise della situazione. Agendo in tal modo, i soggetti coordinano i propri progetti di vita in quanto trovano un accordo interpretativo riguardo al concreto mondo della vita.

    Due sono, a nostro avviso, le obiezioni che possono essere fatte all’idea che tale modello d’azione possa essere universalizzato, contribuendo alla risoluzione dei principali conflitti tra le culture. Innanzitutto c’è da dire che tale idea presuppone, hegelianamente, che il linguaggio possa essere concepito come il medio attraverso cui condividere ogni esperienza possibile (ergo che tutta l’esperienza possa essere tradotta, senza residui, in simboli intersoggettivamente vincolanti tali da consentire ad ogni soggetto la "comprensione", senza residui, dell’altro). In secondo luogo, l’azione comunicativa orientata all’intesa, se pur la si volesse considerare come una sorta di dover-essere morale all’interno di una "data" cultura, mal si adatta ad essere pensata come modello per le relazioni inter-culturali, all’interno delle quali prevalgono le "differenze" di valutazione e, per così dire, di Weltanschauungen, rispetto ai "parametri condivisi".

    Il secondo modello di interazione comunicazionale su cui vorremmo soffermarci è quello dell’interazione strategica elaborato da Erwin Goffman (9).

    A differenza dell’agire comunicativo, l’azione strategica è esplicitamente volta al perseguimento del successo di scopi particolari senza alcun ideale di "intesa". Nell’azione strategica ogni individuo cerca il successo, rischia la sconfitta ma spesso è costretto ad onorevoli compromessi. L’interazione strategica, infatti, può portare sia alla piena realizzazione d’interessi di parte, sia al conflitto (col rischio della sconfitta) sia (ed è quel che accade nella maggior parte dei casi) alla negoziazione (e alla "negoziazione delle identità"). Quest’ultima certamente non è l’intesa habermassiana, ma produce forme concrete di compromesso, attraverso concessioni fatte alla controparte. Quel che, subito, appare interessante nel modello di Goffman è la considerazione che mentre perseguono i propri interessi strategici, e proprio perché lo fanno, gli individui trasformano/modificano il contesto/situazione rispetto cui interagiscono, e ne risultano, a loro volta, modificati (10).

    Com’è noto Goffman, sulla scia di E. Durkheim e di G. H. Mead, distingue nell’individuo l’attore dal personaggio (o, meglio, dai personaggi) che consiste nella "rappresentazione del sé" all’interno dell’interazione sociale. Nelle interazioni sociali (sia quotidiane che "istituzionali") gli individui hanno spesso come unico scopo quello di esibire e far accettare all’altro le proprie maschere/ruolo sociali (ognuno, si potrebbe hegelianamente affermare, lotta per essere riconosciuto dall’altro). Tuttavia Goffmann sottolinea come attraverso tali "giochi di faccia" gli individui ne escono trasformati; nelle interazioni avviene una costante ri-negoziazione delle identità sociali (11). Questa caratteristica dell’azione strategica ne fa senz’altro, come avremo modo di mostrare, uno strumento euristico importante per i nostri scopi.

    Passiamo ora a considerare il terzo dei modelli d’interazione comunicativa, vale a dire quello che abbiamo definito traduttologico, e che, per le considerazioni già fatte in apertura, ci sembra fornire il modello più carico di conseguenze per il nostro tema.

    In proposito conviene rifarci ad una definizione data qualche anno fa, in un suo breve, ma importante, scritto, da Paul Ricoeur (12).

    Il filosofo francese definisce la traduzione un atto d’ospitalità linguistica (13). Il concetto di "ospitalità" è evidentemente paradigmatico per il nostro problema. Com’è noto esso non è per niente sinonimo di "assimilazione" o di "identificazione" dello straniero. Il concetto di ospitalità linguistica e, potremmo dire, culturale in senso lato, sta ad indicare che lo straniero, l’ospite (lo xénos) mantiene la sua estraneità alla cultura che lo ospita, così come la cultura ospitante, attraverso il rapporto con lo straniero scopre se stessa "bisognosa di ospitalità". A tal proposito Massimo Cacciari, sulla scorta di Benveniste, ha affermato che l’ospitalità non "dà origine ad alcun processo assimilativo: lo hostis, lo xénos, è sacro proprio nella sua identità ed individualità altra rispetto a quella dell’ospite. E l’ospite, a sua volta, è sempre anche hostis, è sempre anche nella condizione di divenire a sua volta straniero, viandante bisognoso d’ospitalità. Nello hospes vive anche lo hostis, e nello hostis lo hospes" (14). Insomma, l’ospitalità può condurre ad incontri fecondi, ma può anche capovolgersi in conflitto. Nulla ci assicura, rileva Cacciari, che l’hostis non si trasformi in inimicus (un po’ come, paradigmaticamente, è avvenuto nella lingua della tarda latinità, in cui la parola hostis da "ospite" passa a designare il "nemico" (15)). In ogni caso, potremmo dire che lo straniero è colui che si presenta nella figura dell’intruso e che, in quanto può essere accolto come ospite o respinto come nemico, è caratterizzato dal suo essere "al di fuori delle differenze consentite all’interno di una cultura" (16).

    Ora, il concetto di traduzione come "ospitalità linguistica", se inteso con radicalità, intende proprio tutto questo. Come l’ospitalità, dicevamo, ci fa scoprire bisognosi d’ospitalità, così la traduzione, ci dice ancora Ricoeur, porta alla scoperta delle risorse nascoste della propria lingua. Ciò non significa solo che, in tal modo, il proprio sia compreso solo a partire dall’altro, ma anche, soprattutto, che l’altro è ritrovato nel proprio (17). D’altro canto, come la traduzione, così l’ospitalità sembra implicare, quasi come suo assioma, che non tutto sia "traducibile" e "ospitabile" e che il "dato" della diversità delle lingue e delle culture sia un fatto ineliminabile. Se abbiamo bisogno di tradurre è perché siamo diversi. Infine, come la traduzione, anche l’ospitalità culturale è un’esperienza piena di rischi. Come ebbe ad affermare Franz Rosenzweig (citato da Ricoeur) "tradurre è servire due padroni, lo straniero nella sua estraneità e il lettore nel suo desiderio di appropriazione" (18).

    Tradurre, si potrebbe dire, è un transito rischioso dal proprio all’estraneo e al contrario.

     

  3. Il malinteso come modello d’interazione.
  4.  

    Una radicalizzazione di quanto detto la troviamo in un altro modello d’interazione culturale, esplicitamente pensato con riferimento alle problematiche inter-culturali. Si tratta del modello del malinteso proposto da Franco La Cecla, sulla scorta di una interpretazione di importanti riflessioni di Wladimir Jankelevitch (19).

    La Cecla mostra come il malinteso e l’incomprensione tra le culture siano stati, storicamente, una risorsa per incontri duraturi e fecondi. Non è per nulla detto, infatti, che l’incontro tra le culture possa avvenire solo in conformità ad una comune valutazione delle situazioni di vita. Anzi, i fraintendimenti, i malintesi (anche se non in tutte le loro forme (20)) possono diventare "lo spazio in cui le culture si spiegano e si confrontano, scoprendosi diverse. Il malinteso è il confine che prende una forma. Diventa una zona neutra, un terrain-vague, dove le identità, le identità reciproche si possono attestare, restando separate appunto da un malinteso" (21).

    Nel malinteso, nel fraintendimento, potremmo dire, facciamo esperienza dell’alterità dell’altro. Tuttavia, proprio per tale motivo, esso può divenire occasione di "traduzione", o almeno di "onorevoli" compromessi; ed è, in ogni caso, un’occasione per mettersi in gioco.

    Quella forma di malinteso che La Cecla, seguendo Jankelevich, chiama malinteso-beneinteso può, anzi, divenire una buffer-zone, una zona cuscinetto in cui sperimentare delle forme semplificate e superficiali di "incontro". Avremo quindi i "giochi di faccia", la messa in scena di vere e proprie maschere culturali, di cliché e stereotipi, che spesso, sottolinea La Cecla, non sono altro che ciò che una cultura è disposta a concedere di sé agli altri, a "dare ad intendere" agli altri per gestire le "relazioni" da posizione di vantaggio o solamente per poter "essere lasciata in pace".

    In tal modo il malinteso (beninteso) può diventare uno strumento per evitare conflitti irreparabili, oppure – qualora quest’ultimi si diano – può essere un modo di "dare tempo al tempo" per "raffreddarli" e, a volte, per guarirli.

    Ora, il luogo dove tali malintesi tra le culture sono più comuni e dove possono generare conflitti ma anche feconde esperienze di traduzione sono le frontiere. Riprendendo l’importante distinzione tra frontiera e confine fatta da Piero Zanini (22), La Cecla afferma: "il confine indicherebbe più un limite interno o esterno da non valicare, mentre invece la frontiera richiamerebbe l’idea che c’è un luogo, dove ‘si fanno fronte’ due diversità" (23). Se questo è vero, "se le frontiere sono il ‘faccia a faccia’ tra due compagini, due culture, due paesi, allora è fondamentale che esse ‘abbiano luogo’ perché siano davvero filtro e palcoscenico della differenza" (24).

     

  5. I media come metafore attive.
  6.  

    Torniamo ora al problema da cui eravamo partiti. In che modo i media possono essere utilizzati come strumenti di "mediazione culturale"? Se, come abbiamo già detto, non possono essere considerati elementi neutri o marginali all’interno delle dinamiche della comunicazione, ma hanno un ruolo formante e condizionante le relazioni umane che loro tramite avvengono, non dovremo forse concludere che essi complicano inutilmente le relazioni inter-culturali, rendendole più difficili, e che forse tanto vale non ricorrervi là dove si tratta di ridurne la conflittualità, e che converrebbe fidarsi esclusivamente delle relazioni comunicative "faccia a faccia", che si presume siano più "vere" o comunque meno rischiose?

    Una simile conclusione, tuttavia, ha due gravi difetti. Da un lato illude che oggi sia possibile "mettere tra parentesi" o limitare il ruolo che i media hanno nella nostra società, mentre gran parte della nostra esperienza si forma attraverso di essi. Dall’altro si fonda sul presupposto (dogmatico e metafisico) di una presunta "innocenza" dell’interazione orale-aurale, della comunicazione "faccia a faccia", l’unica in cui i "messaggi" transiterebbero senza deformazioni di sorta. A ben vedere, come molti studiosi (a partire da McLuhan) hanno messo in evidenza, tale presupposto ha un’origine storica ben precisa; è, infatti, il prodotto della tecnologia della comunicazione e del pensiero che è stata egemone in Occidente fino alla comparsa dei media elettrici: la scrittura alfabetica (25).

    La frattura tra significante e significato che l’alfabeto istituisce ed introduce nella comunicazione umana – giacché un piccolo numero di grafemi/fonemi in sé privi di significato si mostra in grado di veicolare tutti i significati possibili –, una volta assunta come paradigma epistemico, ha prodotto la convinzione della "neutralità" degli strumenti della comunicazione rispetto al messaggio veicolato. Per l’individuo alfabetizzato – volendo parafrasare il noto apoftegma di McLuhan – il medium non è mai il messaggio, poiché il medium comunicazionale per eccellenza è, per lui, il grafema/fonema a-semantico su cui si fonda la scrittura alfabetica.

    L’ipotesi interpretativa seguita, invece, da molti studiosi è che il medium alfabetico (poi alfabetico-tipografico), per niente neutrale rispetto ai "messaggi" che veicola, ha prodotto modificazioni profonde nelle culture che lo hanno adottato come strumento di comunicazione, fino a strutturare, secondo McLuhan, la stessa razionalità occidentale di tipo sequenziale ed analitico. Secondo tale prospettiva di ricerca gli stessi "valori" dell’Occidente, il suo individualismo, il suo egualitarismo, il suo cosmopolitismo, benché condizionati anche da altri fattori storici, sarebbero un inconsapevole portato di tale tipo di razionalità, che tenderebbe a svalutare quel che potremmo chiamare il "corpo significante" rispetto al puro significato.

    Come è noto McLuhan concepisce i media (in generale e non solo quelli della comunicazione) come "estensioni" del corpo umano. Più specificamente quelli della comunicazione sono considerati, dal sociologo canadese, estensione dei nostri organi di senso e del suo sistema nervoso centrale. In quanto estensioni (potenziamento, ampliamento) degli organi di senso, i media producono modificazioni nella loro organizzazione dinamica (nel sensorio), condizionando la nostra percezione/concezione del mondo e degli altri. Mentre la scrittura alfabetico-tipografica iperstimola il senso della vista, la comunicazione esclusivamente orale/aurale produce un’iperstimolazione del senso dell’udito. Ora, essendo l’udito un senso "olistico" (io odo sempre tutti, e simultaneamente, i suoni/rumori/voci che mi giungono dall’ambiente circostante), mentre la vista è un senso "discreto" (io posso vedere sempre solo porzioni definite dell’ambiente, e solo una alla volta) (26), la differente organizzazione in senso visivo o uditivo del sensorio, prodotta da una differente tecnologia della comunicazione, non può che condizionare in profondità quel che un tempo si chiamavano le Weltanschauungen, le visioni del mondo prevalenti all’interno delle varie culture. Tutto ciò può comportare, secondo McLuhan, violenti conflitti inter-culturali (27), esplosioni di violenza e di aggressività inspiegabili per "l’idiota tecnologico". Ne è un esempio l’incontro/scontro tra culture letterarie e culture orali più volte avvenuto nel corso della storia (incontro/scontro che è sempre anche un conflitto tra i media (28)).

    Insomma, i media sono, per McLuhan, metafore attive, "in quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove" (29). Nel loro "volgere" l’esperienza del mondo e degli altri secondo nuove "proporzioni, ritmi e schemi", la trasformano.

    Secondo tale concezione, come è avvenuto con la scrittura alfabetica e con la stampa, anche i media elettrici (telefono, radio, TV in particolare) hanno ristrutturato la nostra percezione del mondo, reintroducendovi elementi "neo-tribali" (30). Eliminando le distanze comunicative tra le persone hanno prodotto maggior partecipatività (31), hanno prodotto una globalizzazione neo-tribale, un villaggio globale.

    Forse, seguendo tale discorso, dovremmo concludere che la comparsa dei media elettrici sia la premessa di un incontro tra le "culture letterarie" occidentali (ormai ibridate in senso neo-tribale) e le altre culture non-alfabetiche o a prevalenza orale-aurale con cui finora si erano create più occasioni di scontro e di incomprensioni, che di pacifico scambio?

    La risposta non è così semplice. Prima di tentare di articolarla, è opportuno riflettere su una questione essenziale: la telepresenza.

     

  7. Telepresenza e reazioni identitarie
  8.  

    Jonathan Steuer ha definito la telepresenza come l’esperienza d’essere presenti in un ambiente attraverso un mezzo di comunicazione (32). Tale esperienza presuppone la contestuale percezione di essere fisicamente situati in un ambiente diverso da quello che si "telepercepisce". Si tratta di quel che potremmo definire un’esperienza critica, interpretabile come un vero e proprio "spossessamento del corpo proprio" (33) come sradicamento e dislocazione tra corpo fisico e attività percettiva. Nell’esperienza della telepresenza, infatti, si produce (per la prima volta nella storia umana) una frattura tra gli aistheta e la fisicità dei corpi, tra le rappresentazioni sensibili (immagini, suoni, odori) e il "corpo proprio". La "criticità" di tale esperienza si approfondirà quando diverrà comune per larghe masse di individui la teletrasmissione della sfera tattile, cosa già da tempo tecnologicamente possibile. Tra non molto, tramite un dispositivo robotico, sarà possibile stringersi la mano a distanza (lo ha già realizzato l’"artista della comunicazione" Norman White nel lontano 1986 (34)). Tuttavia, dovremmo chiederci, nel momento in cui toccheremo una mano a distanza, davvero la toccheremo come possiamo toccare un libro che sta sulla nostra scrivania o la tastiera del nostro computer? La filosofia non ci ha forse sempre ricordato che nella percezione tattile, nel tocco del nostro toccare, chi tocca è a sua volta toccato dalla cosa che tocca? Ma nello stringere una mano a distanza, il nostro toccare davvero tocca la cosa che tocca? Ed è davvero toccato da essa? (35).

    Secondo Derrida (36), l’espropriazione del corpo proprio, nonché la dislocazione dei "luoghi" prodotti dalle tecnologie della telecomunicazione, è, con ogni probabilità, la vera causa di tutte quelle reazioni identitarie che sono oggi rubricate sotto le etichette del "ritorno del religioso" o del "piccolo nazionalismo". "Riguardo a tutte le forze di astrazione e dissociazione (sradicamento, delocalizzazione, formalizzazione, schematizzazione universalizzante, obiettivazione, telecomunicazione…) – egli afferma – la religione è al contempo nell’antagonismo reattivo e nel rilancio riaffermativi" (37). Nel volume-intervista scritto insieme a Bernard Stiegler, Derrida, riprendendo tale analisi, lucidamente rilancia: "lo chez-soi è sempre stato tormentato dall’altro. Dall’ospite, dalla minaccia dell’espropriazione. Non è costituito che in questa minaccia. Nondimeno, oggi si assiste a un’espropriazione, a una deterritorializzazione, a una delocalizzazione, a una dissociazione tanto radicale del politico e del locale, che la risposta, bisognerebbe dire la reazione, diventa: voglio essere chez-moi, voglio essere a casa mia infine, con i miei, vicino ai miei cari" (38).

    Argomentando a favore di una fonte comune tra religione e tecno-scienza (39), Derrida ritiene che la religione – da cui egli distingue la fede – si caratterizzerebbe, specie nei nostri tempi, anche come una resistenza o una reazione alla "disgiunzione" e all’alterità assoluta che la tele-tecno-scienza produce nella nostra vita (ma in tale reazione è costretta, per il suo stesso "meccanismo teologico", a reagire anche a se stessa, immunizzandosi dalla sua immunizzazione (40)). Tale reattività identitaria potrebbe non solo acuire le tensioni e i conflitti culturali e religiosi già esistenti, ma potrebbe produrne di nuovi e più violenti.

    Sulla scorta di tali considerazioni dovremmo, forse, concludere che la tele-tecnoscienza sia non solo inutilizzabile ma addirittura dannosa alla mediazione tra le culture? Che, ancora una volta, è la relazione "faccia a faccia" che bisognerebbe a tale scopo privilegiare?

    Non è ancora venuto il momento di dare una (provvisoria) risposta a tale nostro problema di fondo. Dobbiamo fare ancora un passo nell’analisi dell’esperienza della telepresenza.

     

  9. Media e contraddizioni cognitive
  10.  

    C’è un problema fondamentale che dobbiamo affrontare. Lo potremmo chiamare il problema delle "contraddizioni cognitive". Riprendiamo tale espressione dall’importante volume di Jack Goody, Representations and Contradictions (1997) (41). In tale studio l’antropologo inglese, fondando la sua ipotesi interpretativa su ricerche comparatistiche, espone l’idea che il diverso atteggiamento delle culture nei confronti delle diverse forme di rappresentazione sia causato, in ultima istanza, da un’ambivalenza strutturale – che egli chiama appunto contraddizione cognitiva – della rappresentazione stessa. L’ambivalenza – egli afferma – "è inerente allo stesso processo della rappresentazione negli animali che usano il linguaggio. […] Le rappresentazioni sono sempre rappresentazioni di qualcosa, quindi sono ri-presentazioni, non la cosa in sé, das Ding an sich" (42). Le rappresentazioni sono in sé ambivalenti, poiché, nel ri-presentare attestano un’assenza e una presenza nello stesso momento: "si ha quindi sempre la possibilità che il significante (parole, azioni, immagini) possa essere confuso o apertamente identificato con il significato" (43).

    Studiando culture tipologicamente simili o le stesse culture colte in momenti storici diversi, Goody mostra come la contraddizione cognitiva insita nella rappresentazione possa produrre atteggiamenti opposti e intimamente conflittuali rispetto alle diverse modalità rappresentative (icone, reliquie, rappresentazioni teatrali, narrazioni…) o comunque generare, sul lungo periodo, atteggiamenti fortemente instabili e oscillanti tra il rifiuto e l’esaltazione (44). Nel caso dell’immagine, l’ambivalenza insita in essa può generare (ed ha generato) atteggiamenti iconofili così come atteggiamenti iconoclasti, anche nell’ambito della medesima cultura, e ciò sia nella stessa epoca che in epoche storiche differenti. "Le contraddizioni cognitive – sottolinea acutamente Goody – esistono in quelle situazioni in cui una forma di comprensione del mondo può andare in due o più direzioni, per via della natura stessa di quella cognizione. Queste situazioni sono necessariamente instabili sul lungo periodo. Ciò significa che se un gruppo sceglie una linea di pensiero, l’altra linea rimane un’alternativa potenziale, a livello societario come a livello individuale" (45).

    Facendo tesoro di quanto Goody afferma, potremmo allargare il suo discorso ed includere nella categoria della "contraddizione cognitiva" l’esperienza della telepresenza. La "criticità" cognitiva di tale esperienza è anche più radicale di quella della "rappresentazione" studiata dall’antropologo inglese. L’esperienza della tele-presenza non è riportabile senza residui nell’alveo delle cognizioni "rappresentative", così come probabilmente non è, forse, neanche più definibile come "esperienza". Come abbiamo visto, essa è un’esperienza di una "sconnessione" tra sensibilità e pensiero che non è concepibile nei tradizionali termini "oppositivi" e conflittuali; la sconnessione deriva, infatti, da due esigenze, quella della sensibilità e quella del pensiero, che si rimandano senza mai potersi armonizzare: si potrebbe sostenere che, in tale esperienza, il corpo senta incomprensibilmente e la mente pensi insensibilmente. Nell’esperienza della telepresenza non v’è a rigore "conflitto", non accade al corpo di sentire contro la mente; accade, invece, che esso senta nonostante la mente e che questa pensi nonostante il corpo. Per questo motivo non crediamo sia possibile considerare tale esperienza un’esperienza nel senso tradizionale del termine.

    Nella possibilità della telepresenza si cela, quindi, una contraddizione cognitiva che, come già abbiamo avuto modo di osservare, può generare violentissimi conflitti intra- e inter-culturali. Se le contraddizioni cognitive possono produrre comportamenti ambivalenti e conflittuali all’interno di una medesima cultura, infatti, tale pericolo si ripresenta senza dubbio acuito nell’ambito delle relazioni inter-culturali.

    Nel libro di Goody, tuttavia, ritroviamo un’altra indicazione interessante. Egli si sofferma, infatti, anche se fugacemente, su come le società (specie quelle antiche) hanno cercato di prevenire o di regolare i conflitti derivanti dalle contraddizioni cognitive insite nelle forme della rappresentazione. In tal modo ci dà un’indicazione utile, d’ordine generale, per il problema critico che stiamo affrontando. Lo studio delle culture ci mostra, afferma Goody, che è possibile ottenere "una relativa stabilità quando una cognizione si protegge da un’altra riconoscendone l’esistenza, o in un atto rituale o attraverso l’azione di alcuni individui o gruppi che adottano il modo alternativo di comprensione[;] le scelte alternative possono essere inserite nel sistema sociale, risolvendo forse l’ambivalenza individuale" (46).

    Le culture, quindi, hanno cercato di proteggersi da tali conflitti tollerando, al proprio interno, scelte alternative rispetto a quelle comunemente accettate dalla maggioranza.

    Questa considerazione ci dà la possibilità di comprendere meglio la definizione di "straniero" data da La Cecla come di colui che si situa, ed è percepito, "al di fuori delle differenze consentite all’interno di una cultura" (47). Seguendo tali considerazioni, potremmo, infatti, affermare che il confronto/incontro con lo "straniero" renda possibile il disvelamento di quella virtuale alterità che alligna nel nostro "proprio", nella nostra "propria" cultura, nel nostro "mondo domestico", poiché in esso vi alberga l’ambivalenza e la contraddizione. Il confronto/scontro/incontro con lo "straniero" potrebbe disvelarci le nostre latenti contraddizioni, rendendoci più pronti ad affrontarle. Su tale concetto critico torneremo.

     

  11. Di nuovo, incomprensioni e traduzioni (attraverso i media)
  12.  

    Riprendiamo la riflessione sui conflitti che i media della comunicazione possono produrre nelle relazioni tra le culture. Solo che, ora, la questione si è ulteriormente complicata. Sappiamo due cose: 1) gli strumenti della comunicazione condizionano la nostra esperienza del mondo; 2) la nostra esperienza del mondo è segnata da interne e "strutturali" ambivalenze/contraddizioni cognitive, derivanti dagli stessi media attraverso cui ci rappresentiamo/esperiamo il mondo e gli "altri" (in tale accezione generale, all’interno del concetto di medium comprendiamo anche lo stesso "linguaggio" naturale). A tali acquisizioni critiche dobbiamo aggiungere una sorta di corollario: i media sono concepibili come veri e propri "sistemi cognitivi" che non solo strutturano la nostra conoscenza della realtà ma condizionano anche la conoscenza degli altri media (e della realtà conosciuta attraverso di essi). È da sottolineare, inoltre, che ogni nuovo medium entra in competizione con i media precedenti, specie rispetto a quelli riguardanti lo stesso ambito sensoriale (pensiamo, ad esempio, alle trasformazioni che il cinema ha subito, anche senza esplicitamente volerlo, per la comparsa della televisione) (48).

    Oltre a McLuhan, il teorico che ha più coerentemente insistito su tale aspetto dell’operare dei media, è stato Niklas Luhmann che, in uno dei suoi ultimi libri, Die Realität der Massenmedien (49), concependo i media in termini costruttivistici" (come "sistemi cognitivi"), ha affermato: "i sistemi cognitivi non sono in grado di distinguere le condizioni dell’esistenza degli oggetti reali dalle condizioni della loro conoscenza, perché non hanno nessun accesso a questi oggetti reali indipendentemente dalla conoscenza" (50). Ponendoci da tale punto di vista, dovremmo allora ammettere che, dal momento che i media condizionano la nostra conoscenza del culturalmente altro, inevitabilmente lo concepiscono in base ai propri codici/schemi costruttivi. Ciò non farebbe che generare reciproche incomprensioni e malintesi (ma non bene-intesi); incomprensioni e malintesi che non porterebbero neanche al "conflitto" – che è pur sempre un contrasto che avviene sulla base di comuni regole accettate – ma ad un infinito "torto" reciproco – che, come afferma Lyotard, accade quando "le regole del genere di discorso secondo le quali si giudica non sono quelle del genere del discorso giudicato" (51).

    Per dare un’idea delle incomprensioni che, da tale punto di vista, possono sorgere nelle relazioni tra individui appartenenti a culture "formate" da media differenti, vorremmo citare un aneddoto e un esperimento psicologico riportati da Derrick De Kerkhove nel suo Brainframes (52).

    L’aneddoto narra di un topografo canadese (tale Michael Smart) che, accompagnato da una guida algonchina (Amerinda), perlustra una zona boschiva dell’Ontario settentrionale allo scopo di produrne una cartografia. "Ad un certo punto – scrive De Kerkhove – Michael disse alla sua guida: ‘Hei, ci siamo persi!’. La guida gli lanciò uno sguardo gelido e rispose: ‘Non ci siamo persi, è il campo-base che si è perso’. Michael si rese conto in un lampo di un aspetto fondamentale che separava la sua visione del mondo da quella della sua guida – per Michael, lo spazio era fisso ed egli era un agente che si muoveva liberamente qua e là all’interno di esso […]. La guida, invece, concepiva lo spazio come una dimensione interna anziché esterna al corpo, un medium fluido e cangiante in cui non ci si poteva mai perdere, in cui egli stesso costituiva l’unico punto fisso dell’universo e all’interno del quale, anche movendo un passo dopo l’altro, non c’era alcuno spostamento di fatto" (53).

    L’altro esempio, sempre riportato da De Kerkhove, è un esperimento "neuro-culturale" molto interessante.

    Osservate i due rettangoli con diagonale della figura su riportata e chiedetevi quale delle due diagonali sia quella ascendente e quale quella discendente. Se il vostro medium di scrittura/lettura è l’alfabeto latino allora la propensione a scrivere/leggere da sinistra verso destra vi porterà a concludere che la linea ascendente è quella di sinistra e quella discendente è nel rettangolo a destra. "Nella psicologia occidentale – rileva De Kerkhove – il passato sta a sinistra e il futuro sta dove procede la nostra scrittura, cioè a destra" (54). E ancora, "siamo continuamente creati e ricreati dalle nostre stesse invenzioni. Il mito di una fondamentale uguaglianza universale dell’umanità è solo il prodotto delle illusioni dei filosofi del ‘700. La nostra realtà psicologica non è cosa ‘naturale’. Essa dipende in parte dall’influsso che l’ambiente esercita su di noi, compresi i nostri stessi prolungamenti tecnologici" (55).

    Partendo da tale impostazione "costruttivista", il problema non verrebbe risolto neanche se, come sembra accadere con i cosiddetti media elettrici ed elettronici, culture profondamente diverse utilizzassero gli stessi strumenti di comunicazione. È, infatti, evidente, per quel che è stato fin qui affermato, che non sia possibile decidere a priori che tali culture utilizzino i medesimi media secondo modalità sovrapponibili. Tale difficoltà, relativa al differente impatto dei media sulle diverse culture, è stata sottolineata varie volte dallo stesso McLuhan. Una cultura con forti elementi di "oralità" ed un’altra fortemente alfabetizzata assimileranno diversamente l’introduzione dei medesimi media della comunicazione.

    Tuttavia, l’impostazione "costruttivista", se portata alle sue estreme conseguenze, rischia di giungere ad un radicale "relativismo" culturale. Rischia, quindi, di concepire le culture come sistemi chiusi e autoreferenziali. Ciò è storicamente e teoricamente insostenibile. Le culture da un lato si sono formate attraverso continue frammistioni e contaminazioni, dall’altro non sono strutture statiche ma in continua trasformazione. Tuttavia, se il costruttivismo radicale (e il suo relativismo astratto) deve essere rifiutato, non crediamo sia giusto rigettarne la sua versione, per così dire, moderata. Grazie agli studi "costruttivisti", infatti, siamo diventati consapevoli delle diversità profonde (anche se non assolute) tra culture e del "fatto" del loro "farsi torto" e dei loro malintesi.

    Il dato delle incomprensioni ci fa, tuttavia, consapevoli anche di un altro "fatto": la traduzione. Le culture, infatti, pur nella reciproca incomprensione, si sono sempre reciprocamente "tradotte" (e forse tradite). Il "fatto" della traduzione non sconfessa il "fatto" dell’incomprensione, ma, per così dire, lo dà per scontato. Per tale motivo l’approccio traduttologico non è per forza di cose alternativo a quello costruttivista. Si oppone solo alla sua versione "radicale". Il presupposto della traduzione, infatti, è il punto d’arrivo del costruttivismo "moderato": l’incomprensione tra le culture.

    Abbiamo già visto come tradurre significa fare esperienza dell’alterità dell’altro. Abbiamo anche riflettuto sul fatto che lo stesso "malinteso" (se bene-inteso) possa essere concepito addirittura come un’occasione di traduzione.

    Partendo da tali conclusioni possiamo ora affrontare più da vicino la questione della mediazione culturale attraverso le reti telematiche.

     

  13. La comunicazione-via-computer e la mediazione culturale
  14.  

    Non possiamo passare in rassegna tutte le teorie sulla comunicazione via computer (Computer Mediated Communication: CMC) che sono state elaborate a partire dai primi anni Ottanta dello scorso secolo fino ad oggi. Possiamo solo schematicamente ricordare che si è passati da un paradigma "aziendalista", nell’ambito di studi tesi a rendere la CMC quanto più efficiente ed efficace per gli scopi produttivi, a vari paradigmi psico-sociali che utilizzano le teorie dell’interazione sociale elaborate dai vari Mead e Goffmann (56). Queste ultime teorie, come abbiamo già sottolineato trattando del concetto goffmaniano d’interazione strategica, si distinguono radicalmente dalle prime perché partono dall’idea che ogni interazione comporti: 1) una messa in scena del Sé; 2) una trasformazione del contesto. Anche nella comunicazione via computer, infatti, accade (proprio come nella comunicazione "faccia a faccia") una continua messa in scena di ruoli e di maschere psico-sociali; i ruoli non sono fissi (se si escludono i rapporti "formali" di tipo professionale e/o istituzionale) ma sono continuamente ri-negoziati e ri-posizionati nel corso della tele-interazione. Ciò è particolarmente evidente nel caso delle chat rooms e dei mud (Multi users domain) (57). Qui i partecipanti solo fino ad un certo punto nascondono, come si è solito affermare, le loro vere identità sotto le maschere-ruolo che di volta in volta si scelgono. In realtà, sarebbe più corretto affermare che essi le "costruiscano" (continuamente ri-negoziandole) attraverso la tele-interazione. D’altro canto lo stesso contesto culturale della tele-interazione è continuamente trasformato dalle azioni e dalle scelte dei partecipanti, è continuamente modificato dalla loro interazione.

    Nella CMC accade, quindi, un’interazione sociale molto complessa, per molti aspetti simile a quella che avviene nella comunicazione "faccia a faccia". Tuttavia, rispetto a quest’ultima, vi sono alcune, importantissime, differenze.

    Innanzi tutto, la CMC esclude la compresenza fisica dei corpi dei partecipanti. Anche quando sarà compiutamente polisensoriale, la telepresenza, come abbiamo già sottolineato, non sarà in grado di "restituire" la connessione psico-fisica tipica della comunicazione "faccia a faccia". La telepresenza è un’esperienza "critica" che si fonda su di una nuova "contraddizione cognitiva", che non sappiamo quali trasformazioni psico-culturali potrà produrre sul lungo periodo.

    In secondo luogo, nella CMC, in particolar modo nel mondo delle chat e dei Mud (diverso è il caso delle e-mail), non è possibile distinguere tra comportamento e comunicazione intenzionale (58). Nel suo ambito sembra non valere il principio di Watzlavick secondo cui non è possibile non-comunicare. In rete, per comportarsi bisogna (tele)comunicare. I comportamenti di chi non è on-line in una chat-room, letteralmente non ci sono; chi non è on-line, semplicemente non esiste e il suo "silenzio" non comunica nulla.

    Assodato tutto ciò, poniamoci ancora una domanda: se la rete consente la creazione di luoghi d’interazione in cui le forme della comunicazione equivalgono a forme di comportamento, che tipo di "luoghi" sono le chat, i Mud, i newsgroup?

    Per cercare una risposta a tale domanda ci saranno molto utili due riflessioni sui "luoghi-altri" della modernità, quella di Michel Foucault sulle eterotopie (59) e quella, molto più recente, di Marc Augé sui non-luoghi (60).

    Lo scritto di Foucault sulle eterotopie, sugli spazi-altri è del 1967. In esso il filosofo francese propone una riflessione di ordine generale su una caratteristica che si ritroverebbe in ogni società umana e in ogni cultura. Non v’è cultura e società umana, afferma, che non tolleri accanto ai luoghi sociali per così dire "normali", l’istituirsi di contro-spazi (reali e simbolici ad un tempo) incompatibili coi primi. Nelle società primitive ed arcaiche prevale una forma di eterotopia che Foucault chiama "eterotopia di crisi": "luoghi privilegiati o sacri o interdetti, riservati agli individui che si trovano, in relazione alla società, e all’ambiente umano in cui vivono, in uno stato di crisi [;] è il caso degli adolescenti, delle donne nel periodo mestruale, delle partorienti, dei vecchi, ecc." (61). Nelle società moderne tali forme di eterotopie sono quasi scomparse, anche se ancora erano visibili fino a qualche tempo fa: si pensi al collegio o al servizio militare che nell’Ottocento erano i luoghi dove i ragazzi facevano le loro prime esperienze sessuali; oppure a ciò che, fino alla metà del Novecento, era il "viaggio di nozze" per le giovani spose, spazio in cui doveva accadere la loro deflorazione.

    Tali eterotopie di crisi, nelle società moderne, sono state sostituite da quelle di "deviazione". È questo un tema come si sa molto caro a Foucault. Queste eterotopie sono "quelle nelle quali vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare deviante in rapporto alla media e alle norme imposte [;] si tratta delle case di riposo, delle cliniche psichiatriche e si tratta, anche, ben inteso, delle prigioni" (62).

    Foucault elenca, quindi, una serie di principi di funzionamento sociale e culturale delle eterotopie. Tra questi i più importanti per la nostra indagine sono i seguenti:

      1. L’eterotopia "ha il potere di giustapporre, in un unico luogo reale, diversi spazi, diversi luoghi che sono tra loro incompatibili" (63);
      2. Le eterotopie sono molto spesso anche eterocronie: "l’eterotopia si mette a funzionare a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta con il loro tempo tradizionale" (64); nella società moderna e poi contemporanea tale intreccio spazio-temporale si è per così dire polarizzato in una contrapposizione tra eterotopie del tempo che si accumula all’infinito, come ad esempio i musei e le biblioteche, e quelle del "passatempo" che sono spazi-altri correlati all’aspetto futile, passeggero e precario del tempo; nel mondo medievale e moderno un esempio di tale genere è da ritrovare nelle fiere che, alcune volte l’anno, ai margini della città, si popolavano "di baracche, di vetrine, di oggetti eterocliti, di lottatori, di donne-serpenti, di indovine, ecc." (65); nella nostra contemporaneità un esempio di tale genere lo troviamo nei villaggi di vacanze, "in quei villaggi polinesiani che offrono tre brevi settimane di nudità primitiva ed eterna agli abitanti delle città" (66);
      3. Le eterotopie "presuppongono sempre un sistema d’apertura e di chiusura che, al contempo, le isola e le rende penetrabili" (67);
      4. L’esistenza delle eterotopie agisce sugli spazi sociali "normali" inducendo in essi delle trasformazioni; quest’azione trasformante "si dispiega tra due poli estremi" (68): esse possono, infatti, "creare uno spazio illusorio che indica come ancor più illusorio ogni spazio reale: tutti quei luoghi all’interno dei quali la vita umana è relegata" (69); esse possono, al contrario, creare "un altro spazio, uno spazio reale, così perfetto, così meticoloso, così ben arredato al punto da far apparire il nostro come disordinato, maldisposto e caotico" (70).

    Fin qui Foucault. Domandiamoci ora se i "luoghi d’incontro virtuali" on-line possano essere considerati delle eterotopie (e delle eterocronie). Ritengo che la risposta possa essere in buona parte positiva. Il concetto foucaultiano d’eterotopia è d’estrema utilità per la nostra indagine. È anche evidente, per quanto finora detto, che alcune importanti puntualizzazioni debbano essere apportate. Innanzi tutto, a differenza delle eterotopie descritte da Foucault, i "luoghi" d’interazione resi possibili dalla rete non sono luoghi fisici, anche se, non per questo, sono da considerarsi meno reali. Inoltre, se si pone mente all’importanza strategica delle comunicazioni in rete per l’economia globalizzata, è difficile considerare gli spazi d’interazione on-line ipso facto come "spazi-altri" e "contro-luoghi", anche se è evidente che, come in parte la pratica hacker ci attesta (71), essi possono anche diventarlo, e ciò anche dal punto di vista della loro caratterizzazione temporale (72). Infine, i "luoghi" della rete, le chat, i mud ecc. non possono rientrare nella rigida dicotomia proposta da Foucault, "eterotopie di crisi" o "eterotopie di deviazione", benché, forse, per alcuni loro aspetti, possono far ricordare ora l’una, ora l’altra. Del resto lo stesso discorso foucaultiano, pur prendendo avvio da quella dicotomia, sembra emanciparsene (i musei, le biblioteche, le fiere, i villaggi di vacanze ecc., non credo possano facilmente rientrare nella categorie delle eterotopie di deviazione insieme al manicomio e al carcere!). È evidente che alla descrizione foucaultiana manca una terza categoria di eterotopia/eterocronia.

    Passiamo, ora, al concetto di non luogo elaborato da Marc Augé.

    Per comprendere tale concetto bisogna partire da quello opposto di "luogo antropologico". Augé, riprendendo un concetto di Michel de Certeau (73), utilizza quest’espressione per indicare quegli spazi reali e simbolici ad un tempo che contribuiscono alla costituzione dell’identità, del proprio delle diverse culture. Tali luoghi sono ad esempio la propria casa, il proprio quartiere, il proprio villaggio, la propria città, insomma tutto ciò che ci parla delle generazioni che ci hanno preceduto e da cui abbiamo ricevuto il nome. Il luogo antropologico, osserva Augé, "è simultaneamente principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità per colui che l’osserva" (74). Questi luoghi "hanno almeno tre caratteri comuni [:] si vogliono (li si vuole) identitari, relazionali e storici" (75). Essi, cioè, coniugano identità e relazione, sono quella stabilità culturale minima a partire dalla quale è possibile relazionarsi agli altri. "Beninteso – osserva Augé – lo status intellettuale del luogo antropologico è ambiguo [;] esso è solo l’idea, parzialmente materializzata, che coloro che l’abitano si fanno del loro rapporto con il territorio, con i loro vicini e con gli altri [;] questa idea può essere parziale o mitizzata [,] varia con il posto e il punto di vista che ciascuno occupa" (76), ma allorché tale riferimento sparisce tale assenza "non si colma facilmente" (77). Essi sono comunque un sistema di orientamento sia per coloro che lo abitano sia per coloro (gli antropologi) che cercano di comprenderlo attraverso l’interpretazione dei suoi caratteri.

    Ciò che Augé denomina "surmodernità" si caratterizza, invece, per la proliferazione di spazi sociali completamente opposti, di non luoghi per l’appunto. Le vie aeree, gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, gli ipermercati, le reti di telecomunicazione sono tali non-luoghi: "se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non-luogo" (78).

    Analizzando i non-luoghi della nostra contemporaneità, Augé tende ad evidenziarne soprattutto gli aspetti "critici" e negativi. I non-luoghi sono solo luoghi di transito, luoghi in cui non è possibile sperimentare alcuna relazione identitaria. L’unica forma di identità sociale e culturale che in essi vale è l’identificazione in entrata e in uscita, identificazione puramente economica o di polizia o di un misto di tali due forme. Per comprenderlo basti pensare al pedaggio autostradale o al controllo dei passaporti nei grandi aeroporti internazionali, o ancora agli ipermercati. "qui il cliente circola silenziosamente, consulta le etichette, pesa la verdura o la frutta su di una macchina che unitamente al peso gli indica il prezzo, poi tende la sua carta di credito ad una ragazza anch’essa silenziosa, o poco loquace, che sottopone ogni articolo alla registrazione di una macchina decodificatrice prima di verificare la validità della carta di credito" (79). Insomma, "lo spazio del non-luogo non crea né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine" (80).

    Nonostante la messa in evidenza degli aspetti destrutturati e critici dell’esperienza dei nonluoghi, Augé ad un certo punto cambia registro facendo un’osservazione molto interessante per la nostra indagine. Egli la definisce come il paradosso del non-luogo: "lo straniero smarrito in un Paese che non conosce (lo straniero ‘di passaggio’) si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere. L’insegna di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento rassicurante ed è con sollievo che ritrova sugli scaffali del supermercato i prodotti sanitari e alimentari o i casalinghi consacrati dalle marche multinazionali" (81). Quest’osservazione è effettivamente paradossale. Ci dice qualcosa che sfugge alla solita dicotomia tra locale e globale e di cui lo stesso Augé non sembra cogliere fino in fondo le implicazioni. Ci fa intravedere un orizzonte nello stesso tempo "de-simbolizzato", an-identitario, popolato solo da puri marchi, puri simulacri di senso che, al contempo, sembrano acquisire, in quel non-luogo, un aspetto domestico solo per il fatto che vengono "riconosciuti". È interessante tutto ciò. Se interpretiamo correttamente, questo riconoscere/riconoscersi (ne)i loghi dei non-luoghi, non sembra avere una funzione destrutturante. Attraverso i loghi che popolano i nonluoghi, non solo l’individuo transitante vi si riconosce, ma può riconoscere gli altri anche se solo attraverso l’esteriore generica somiglianza di transitanti. È quasi come un ritrovare una condizione umana comune e generica, condizione che non ha storia, né senso, né passato né futuro, ma solo quel transitante presente (82). È forse solo un pregiudizio sessile (83) quel che ci fa considerare tali nonluoghi solo nel loro (pur reale) aspetto negativo/destrutturante. Ma è anche vero che l’esperienza dei nonluoghi è un’esperienza che sembra aver bisogno dei luoghi dell’identità (relativa) e della stabilità (precaria) (84). Non è un caso che la navigazione telematica si faccia prevalentemente dalle proprie case, dai propri "rifugi" domestici. Una vita completamente "autostradale" ed "ipermercatica" (si scusi il neologismo) sarebbe l’inferno. Abbiamo bisogno di poter scegliere i tempi del transito e dell’incontro "transitorio" con gli altri, e lo possiamo solo potendo contare sui luoghi della nostra identità (più o meno traballante). Rispetto ai nostri luoghi identitari i nonluoghi sono simili a quella "terra di nessuno" che si apre fra le frontiere e in cui è possibile mettere in gioco le proprie identità.

    Certo, se dal piano delle relazioni individuali si passa a quello delle culture le cose si complicano. Le culture tendono a mantenere le loro differenze e le loro caratteristiche; "se i singoli individui possono tradire – ha scritto Fernand Braudel – […] le civiltà continuano a vivere di vita propria, aggrappate ad alcuni punti fissi e quindi inalienabili" (85). Tuttavia è vero anche che le civiltà si trasformano attraverso l’incontro contaminante con le altre. Ciò di sicuro non condurrà alla realizzazione di una sorta di comprensione universale tra gli uomini (che è un’illusione etnocentrica) ma probabilmente a forme di pacifica convivenza o, com’è spesso accaduto, a forme di reciproca contaminazione.

    Ritorniamo ora alla comunicazione mediata dal computer, cercando di mettere a frutto le argomentazioni svolte a partire da Foucault e da Augé.

    Secondo gran parte degli studi psico-sociologici condotti negli ultimi anni, specie in area anglosassone, le reti telematiche hanno prodotto sia l’aggregarsi e l’affermarsi di microculture specialistiche tra cui è elevata la possibilità del (cosiddetto) flaming (cioè del conflitto violento e repentino), sia l’entrata in contatto di gruppi e comunità culturalmente molto distanti; detto diversamente, la CMC creerebbe o una sorta di "cyberbalcanizzazione" (86) o favorirebbe la creazione di vere e proprie "comunità virtuali" (87).

    Secondo altri sociologi, invece, la CMC può svolgere un ruolo molto importante nell’estendere ciò che l’analisi dei reticoli sociali (network analysis) (88) chiama "legami deboli". Secondo Paccagnella, "considerato l’elevato investimento emotivo richiesto dai legami forti, il loro numero tende ad essere relativamente stabile in qualunque condizione [;] al contrario, il bacino di legami deboli cui una persona può attingere può ampliarsi enormemente con l’uso di mezzi di comunicazione come Internet" (89). La CMC, da tale punto di vista, non deve essere considerata una forma di comunicazione alternativa o sostitutiva rispetto a quelle "faccia a faccia", ma come una forma concretamente interconnessa a tutte le altre forme quotidiane di interazione umana. "Questi studi mostrano – è sempre Paccagnella che scrive – come relazioni on-line e relazioni off-line siano sistemi intercomunicanti: in generale, le persone che si conoscono e diventano amiche via rete finiscono spesso per incontrasi anche faccia a faccia e per tenersi in contatto tramite mezzi di comunicazione tradizionali come la posta o il telefono" (90). A volte la CMC è solo un primo indispensabile approccio, come sembra confermare ad esempio il progetto Shwashlock, realizzato a Los Angeles nel 1995 dal "Public Electronic Network", che ha permesso una prima reciproca conoscenza tra cittadini "per bene" e homeless: "in questo caso il mezzo telematico, mediando la difficoltà del primo incontro, ha reso disponibile un’opportunità in più di contatto tra persone diverse, di solito irrimediabilmente estranee e separate nella vita di tutti i giorni" (91).

    Questa concezione della CMC s’integra perfettamente con quanto finora argomentato. Negli eterotopici nonluoghi che la Rete produce è possibile fare frontiera; è possibile, in altre parole, che individui appartenenti a culture diverse, partendo dalla messa in scena dei rispettivi stereotipi, possano fare esperienza di traduzione, dando inizio ad un processo di con-fronto e reciproca trasformazione, che se da solo non risolve tutti i possibili conflitti tra le culture, è di sicuro l’unica strada per tentare di ridurli. Come i "pregiudizi", secondo la nota argomentazione di Gadamer (92), non possono essere eliminati, ma resi coscienti di sé, così gli stereotipi e i cliché marcano l’ouverture d’ogni incontro tra le culture. Affinché ciò sia possibile, occorre che tra le culture si faccia frontiera e non si lavori per la costruzione d’invalicabili "confini"; "bisogna domandarsi – scrive La Cecla – se c’è un modo di fare le frontiere invece dei confini che faccia di questi un luogo e non un’assurda linea. Se le frontiere sono "il faccia a faccia" tra due compagini, due culture, due paesi, allora è fondamentale che esse "abbiano luogo" perché siano davvero filtro e palcoscenico della differenza. Le frontiere dovrebbero essere il luogo dove il confronto sostituisce lo scontro, dove la relazione può essere appagata nella indifferenza della terra di nessuno o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova l’altro, lo straniero a noi" (93).

    I nonluoghi della Rete, quindi, possono dare opportunità di mediazione culturale innanzi tutto attraverso la messa in scena di quella forma di malinteso che Jankelevich chiamava "malinteso (doppiamente) bene-inteso", in altre parole dello stereotipo. Quest’ultimo è definibile come l’immagine che una cultura dà di sé agli altri, come una messa in scena per turisti e per stranieri; ma è una maschera che da un lato serve, alla cultura che la esibisce, come protezione rispetto all’estraneo, dall’altro, tuttavia, esprime anche ciò che quella stessa cultura accetta che gli altri pensino di essa. Per tale motivo, potremmo affermare che, negli stereotipi, è implicita l’accettazione dello sguardo dell’altro, tanto quanto la protezione dallo stesso. E in tale doppio aspetto di "apertura" (relativa) e d’auto-protezione, essi possono essere l’avvio di processi di inter-traduzione culturale.

    La rete può fornire numerose occasioni in tale senso. A patto di concepire il cyberspazio non come un mondo chiuso in se stesso, ma come universo di scambi individuali e culturali fatto di "legami deboli" interconnessi al complesso tessuto delle interazioni psico-sociali. Lo sviluppo della CMC può essere addirittura uno strumento indispensabile all’interno delle nostre società multiculturali. Come sottolinea Paccagnella, "le reti di legami deboli svolgono funzioni spesso sottovalutate [;] a livello micro, chi ha pochi legami deboli è escluso da notizie e opportunità che non siano quelle peculiari del proprio gruppo; a livello macro, una società con pochi legami deboli è una società frammentata, incoerente, in cui le idee viaggiano lentamente" (94). È quindi una società dove le relazioni tra i diversi gruppi etnici rischiano sempre di dar luogo al conflitto e al torto reciproco.

     

  15. Ponti e altre macchine metaforiche

     

    È possibile che i nonluoghi telematici possano divenire luoghi di mediazione culturale? La risposta (provvisoria) l’abbiamo già data, in positivo. Attraverso le reti è possibile contribuire alla costituzione di nonluoghi comuni di transito, in cui il "navigante" possa incontrare l’altro nella sua differenza, fino a considerarlo come un uguale perché, come lui, come tutti, diverso, straniero. Nelle reti si potrebbe far esperienza di una condizione comune d’estraneità: l’altro è a me somigliante in quanto, come me (rispetto a lui), straniero.

    Poniamoci, ora, un’ultima domanda. Qual potrebbe essere il ruolo del mediatore culturale nelle reti? La risposta è, a nostro parere, duplice. Da un lato potrebbe svolgere un ruolo d’ideazione e d’organizzazione di spazi virtuali (siti, mailing-lists, newsgroups) in cui concretamente produrre occasioni di mediazione tra culture diverse. Dall’altro lato – e quest’aspetto è per chi scrive quello più importante – egli dovrebbe lavorare alla creazione di vere e proprie macchine metaforiche, che possano contribuire a rendere meno "esproprianti" i nonluoghi delle reti. Tali "macchine metaforiche" dovrebbero avere come punto di partenza il "fatto" dell’incomprensione tra le culture e, quindi, la consapevolezza della enorme difficoltà della creazione di metafore culturali trans-culturali. L’abbandono di tale illusione etnocentrica è il presupposto per la definizione di tali "macchine metaforiche", che non sono metafore ma luoghi di "transito metaforico". Come i loghi che popolano le eterotopie della nostra post-modernità, esse non dovranno significare altro che il transito, il loro stesso essere transiti, ma transiti riconoscibili, in qualche modo comuni e, paradossalmente, domestici.

    Se non ci fossero i ponti, le città, i quartieri, le diverse comunità si chiuderebbero in un’autoreferenzialità identitaria incapace di riconoscere l’altro come altro. E i ponti sono forse l’unica costruzione che si ritrova in tutte le epoche della storia dell’umanità e in ogni cultura. Abbiamo smesso da tempo di costruire cattedrali, ma non smettiamo di costruire ponti. Forse perché il ponte non significa altro che se stesso, il suo "rendere possibile il transito".

    C’è un passo di Heidegger, sulla cosa-ponte, che merita di essere qui riportato, anche perché in esso il pensatore tedesco sembra, ad un certo punto, e sorprendentemente, abbandonare il suo solito tono altmodisch, concedendo un importante spunto teoretico alla nostra ricerca. "Il ponte – scrive Heidegger – lascia libero corso al fiume e insieme garantisce ai mortali la via attraverso cui possono andare da una regione all’altra. I ponti conducono in vari modi. Il ponte della città collega il quartiere del castello alla piazza della cattedrale, il ponte di accesso al capoluogo avvia vetture e carri verso i villaggi del circondario. Il vecchio e poco appariscente ponte di pietra che attraversa un piccolo corso d’acqua dà il passaggio al carro del raccolto che va dalla campagna al villaggio, e conduce il carico di legname dal sentiero di campagna alla strada principale. Il ponte d’autostrada è una maglia della rete delle grandi correnti di traffico, rette dal calcolo e dal principio della massima rapidità. In ognuno di questi casi, e in modi sempre diversi, il ponte conduce su e giù gli itinerari esitanti o affrettati degli uomini, permettendo loro di giungere sempre ad altre rive e, da ultimo, di passare, come mortali, dall’altra parte" [sottolineatura nostra] (95).

    È interessante che Heidegger annoveri anche i ponti autostradali, nonluoghi secondo Augé, tra le diverse modalità d’essere (e di "conduzione") della cosa-ponte. È interessante poiché sembra accordarsi appieno con quanto prima argomentato a proposito dell’essenza del ponte coincidente con la sua transitività (e transitorietà).

    Ecco, i mediatori culturali in rete dovrebbero lavorare alla costruzione di macchine metaforiche la cui essenza consista, come nel caso del ponte, nel loro rendere possibili a chi le usa (riconoscendole come comuni) di andare, se lo vuole, "dall’altra parte". È necessario, cioè, che si agisca non sull’illusorio piano dei "contenuti" culturali da "tradurre" da una cultura ad un’altra (come decidere quali siano, tra essi, quelli "universali" o universalizzabili?) ma sul piano dei contesti comunicativi, sul piano dell’individuazione dei presupposti meta-culturali delle possibili interazioni, su ciò che Livio Rossetti ha acutamente definito la formattazione dell’evento comunicativo (96). La costruzione di macchine metaforiche rientra appieno in tale compito (anche se non vi s’identifica). Come ogni altra macchina esse potranno essere utilizzate secondo i fini propri di ciascuno ma sempre per "passare dall’altra parte".

    Forse non vi sono metafore trans-culturali, forse ogni cultura trova la sua origine in alcune metafore fondamentali intraducibili l’una all’altra, o forse anche questo, col procedere della globalizzazione, finirà con lo scomparire, ma né l’una né l’altra possibilità contraddirebbe la creazione di tali macchine. Anche perché il loro valore deriverebbe dal loro uso; solo se utilizzate esse mostrerebbero la loro necessità.

    Qualcosa di simile alla costruzione di macchine metaforiche possiamo ritrovarlo nel lavoro di alcuni "artisti della comunicazione" (97). Come (provvisoria) conclusione del nostro discorso è proprio a due operazioni di tale genere che vorrei rimandare, anche per evidenziare le possibili linee di convergenza operativa tra "mediazione culturale" e attività di sperimentazione artistica all’interno delle reti di telecomunicazione.

    La prima operazione è un progetto telecomunicazionale dell’artista greco Mit Mitropoulos, realizzato nel 1986 e intitolato Line of Horizon.

    Definito da lui stesso un "progetto d’arte geopolitica", consistette in uno scambio fax di disegni delle linee dell’orizzonte realizzati da artisti di diverse città delle rive del Mediterraneo (vedi figg.)

     



La seconda operazione è quella realizzata da Maurizio Bolognini nel 1997 e intitolata Antipodi. Collegandosi a webcam localizzate in Nuova Zelanda, Bolognini ottenne che queste, per qualche giorno, fossero "rovesciate" in modo da adottare il "punto di vista" di un abitante dell’emisfero terrestre superiore (vedi fig.).

 

In entrambi i casi abbiamo a che fare con la costruzione di macchine metaforiche il cui senso riposa nella messa in evidenza di alcuni presupposti comuni alle diverse culture umane: l’esperienza dell’orizzonte, nel primo caso, l’esperienza del pregiudizio, nel secondo.

Non è un caso che entrambe siano, fondamentalmente, esperienze dell’altro. Nell’unico, ambivalente senso possibile: esperienze sia dell’inappropriabilità dello sguardo dell’altro, sia della sua imprescindibilità per la stessa "definizione" del proprio.

Il mediatore tra le culture sa che l’ambivalenza con cui l’estraneo appare è la stessa che alligna nel cuore del proprio.

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(1) M. McLuhan, Understanding Media, tr. it. di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Milano, Garzanti, 1977, p. 12; per una interpretazione filosofica generale dell’opera del sociologo canadese vedasi utilmente C. Di Martino, Il medium e le pratiche, Milano, Jaca Book, 1998.

(2) Riguardo a tale classificazione cfr. W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, a cura di R. Loretelli, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.

(3) Secondo J.F. Lyotard, "un torto è prodotto dal fatto che le regole del genere di discorso secondo le quali si giudica non sono quelle del o dei generi di discorso giudicato/i" (J. F. Lyotard, Le différend, tr. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 11).

(4) P. Watzlawick, J. Helmick Beavin, Don D. Jackson, Pragmatic of human communication. A study of interactional patterns, pathologies, and paradoxes, tr. it. di M. Ferretti, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, Roma, Astrolabio-Ubaldini editore, 1971, pp. 41-42.

(5) Sulle diverse dimensioni del silenzio cfr. utilmente anche M. Baldini (a cura di), Le dimensioni del silenzio nella poesia, nella filosofia, nella musica…, Roma, Città Nuova editrice, 1988.

(6) J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, 1, Handlungsrationalität und gesellschaftliche Rationalisierung, tr. it. di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo: I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Bologna, Società editrice il Mulino, 1986.

(7) A. Marcarino, Sociologia dell’azione comunicativa, Napoli, Guida editori, p. 47.

(8) Secondo Habermas, i "parlanti" "non fanno più riferimento in modo diretto a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale o soggettivo, bensì relativizzano la loro espressione alla possibilità che la sua validità sia contestata da altri attori […]. Con questo modello di azione si suppone che i partecipanti all’interazione mobilitino espressamente il potenziale di razionalità […] per perseguire in modo cooperativo l’obiettivo dell’intendersi" (J. Habermas, Op. cit., pp. 175-176).

(9) Vedi E. Goffman, Interaction Ritual, tr. it., Modelli di interazione, Bologna, Il Mulino, 1971; di Goffman vedasi anche il noto The Presentation of Self in Everyday Life, tr. it., La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969.

(10) Concetto, questo, sviluppato negli studi d’orientamento etnometodologico (H. Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs, Prentice Hall, 1967; vedasi anche P. P. Giglioli – A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia, Bologna, Il Mulino, 1983).

(11) Vedi E. Goffmann, Modelli di interazione, cit., pp. 7-47.

(12) P. Ricoeur, Le paradigme de la traduction, tr. it. di M. Gasbarrone, Il paradigma della traduzione, in P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica, a cura di Domenico Jervolino, Brescia, Morcelliana, 2001, pp. 51-74.

(13) Ibidem, p. 67.

(14) M. Cacciari, L’Arcipelago, Milano, Adelphi, 1997, p. 33.

(15) Sulla questione dell’ospitalità e delle parole hostis e hospes vedi, essenzialmente, E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, edizione italiana a cura di M. Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-75.

(16) F. La Cecla, Il malinteso. Antropologia dell’incontro, Roma-Bari, Laterza, seconda ed., 1998, p. 111.

(17) Su tale questione cruciale cfr. J. Derrida, De l’hospitalité, con A. Dufourmantelle, Paris, Calmann-Lévy, 1997; tr. it. di L. Landolfi, Sull'ospitalità. Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società multietniche, Milano, Baldini & Castaldi, 2000; sulla più ampia riflessione etica derridiana cfr. il chiaro studio di C. Resta, Le leggi dell’ospitalità. Etica e politica nell’ultimo Derrida, in Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione (a cura di Luisa Bonesio), Bologna, Arianna editrice, 2000, pp. 27-54.

(18) Citato da P. Ricoeur, Il paradigma della traduzione, cit., p. 66.

(19) W. Jankelevitch, Le je-ne-sais-quoi et le presque-rien, tr. it. di C.A.Bonadies, Il non so che e il quasi niente, Genova, Marietti, 1987.

(20) Jankelevitch distingue quattro tipi di malinteso: 1) il doppio malinteso; 2) L’inganno; 3) Il malinteso beninteso; 4) Il malinteso doppiamente beninteso. Solo nelle ultime due forme esso può divenire, come sottolinea La Cecla, occasione di "incontro" tra le culture.

(21) F. La Cecla, Il malinteso, cit., p. 9.

(22) P. Zanini, Il significato del confine, Milano, Bruno Mondatori, 1997.

(23) F. La Cecla, Op.cit., p. 133.

(24) Ibidem, p. 134.

(25) Cfr. su ciò l’interpretazione mcluhaniana di C. Di Martino, Il medium e le pratiche, cit., pp. 24 sgg.; cfr. anche R. Ronchi, La scrittura della verità. Per una genealogia della teoria, Milano, Jaca Book, 1996; entrambi gli studi prendono le mosse da alcuni importanti lavori teoretici di Carlo Sini (Etica della scrittura, Milano, Il Saggiatore, 1992; Filosofia e scrittura, Bari, Laterza, 1994).

(26) "Non possiamo escludere il suono automaticamente. Non siamo dotati di palpebre alle orecchie. Mentre lo spazio visivo è una continuità organizzata di tipo uniforme e connesso, il mondo uditivo è un mondo di rapporti simultanei" (M. McLuhan – Q.Fiore, The medium is the massage, tr. it. di R. Petrillo, Il medium è il massaggio; Milano, Feltrinelli, 1968, p. 112.

(27) "Tra le grandi unioni ibride che generano furiosi scatenamenti d’energia, nessuna supera per importanza l’incontro tra culture letterarie e culture orali. Il fatto che l’alfabeto fonetico abbia dato all’uomo un occhio in cambio di un orecchio rappresenta probabilmente, sul piano sociale e politico, la più radicale esplosione che si possa dare in una struttura sociale. […] Adesso che l’alfabetismo sta per ibridare la cultura della Cina, dell’India e dell’Africa, ci prepariamo ad assistere a un tale scarico di energie umane e di violenza aggressiva da far sembrare quasi insulsa la precedente storia della tecnologia dell’alfabeto fonetico" (M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 55).

(28) Secondo McLuhan tra i media vi è sempre connessione, per cui l’introduzione di un nuovo medium provoca non solo una ristrutturazione del sensorio umano ma produce una ristrutturazione dell’intero sistema dei media ("Ciò che voglio dire è che i media, in quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro, istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi, ma tra loro", ibidem, pp. 58-59).

(29) Ibidem, p. 62.

(30) "L’accelerazione dell’era elettronica è per l’uomo occidentale, alfabeta e lineare […] un’implosione improvvisa e una fusione tra spazio e funzioni. La nostra civiltà specialistica e frammentaria, con struttura centro-marginale, vede improvvisamente e spontaneamente tutti i suoi frammenti meccanizzati riorganizzarsi in un tutto organico. È questo il nuovo mondo del villaggio globale" (ibidem, p. 98).

(31) "I circuiti elettrici hanno rovesciato il regime del tempo e dello spazio e riversano su di voi istantaneamente e continuamente le preoccupazioni di tutti gli altri uomini. Hanno ricostituito il dialogo su scale globale. Il loro messaggio è la Trasformazione Totale, che mette fine al parrocchialismo psichico, sociale, economico e politico. I vecchi raggruppamenti comunali, provinciali e statali non funzionano più […]. Non si può più tornare a casa." (M. McLuhan – Q. Fiore, Il medium è il massaggio, cit., p. 16).

(32) J. Steuer, Definire la Realtà virtuale: le dimensioni che determinano la telepresenza, tr.it. a cura di C. Galimberti e G. Riva, in La comunicazione virtuale. Dal computer alle reti telematiche: nuove forme di interazione sociale, Milano, Guerini e Associati, 1997, p. 58.

(33) M. Costa, Estetica dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi editore, 1999, p. 42.

(34) La performance intitolata Telephonic Arm-Wresting fu realizzata per la prima volta a Salerno durante il convegno Artmedia II; su tale evento vedi N. White, Telephonic Arm Wrestling, in L’estetica della comunicazione, a cura di M. Costa, Salerno, Palladio editrice, 1987, pp. 173-178; cfr. inoltre M. Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Roma, Catelvecchi editore, 1998, pp. 63 sgg.;

(35) Vedi V. Cuomo, Meta(tele)comunicazione e ritualità, in L’estetica della comunicazione. Come il medium ha polverizzato il messaggio. Sull’uso estetico della simultaneità a distanza, a cura di M. Costa, Roma, Castelvecchi editore, 1999, pp. 123-137.

(36) J. Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della "religione" ai limiti della semplice ragione, tr. it. di A.Arbo, in Annuario filosofico europeo, La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 3-73.

(37) Ibidem, p. 4.

(38) J. Derrida – B. Stiegler, Échographies de la télevision, tr. it. di L. Chiesa, Ecografie della televisione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997, p. 87.

(39) "Lo stesso movimento che rende indissociabili religione e ragione teletecnoscientifica, nel suo aspetto più critico, reagisce inevitabilmente a se stesso. Secerne il suo antidoto, ma anche il suo potere di autoimmunità. Siamo in uno spazio in cui ogni autoprotezione dell’indenne, del sano e salvo, del sacro (heilig, holy) deve proteggersi dalla propria protezione, dalla propria polizia, dal proprio potere di rigetto, dal proprio semplicemente, cioè dalla propria autoimmunità. È questa terrificante ma fatale logica dell’autoimmunità dell’indenne che assocerà sempre Scienza e Religione" (J. Derrida, Fede e sapere, cit., pp. 47-48).

(40) Nella religione, secondo Derrida, bisognerebbe rendere ragione "anche di un doppio postulato apparente: da una parte il rispetto assoluto per la vita, il ‘non ucciderai’ (almeno il tuo vicino, se non il vivente in generale), il divieto ‘integralista’ sull’aborto, l’inseminazione artificiale, l’intervento performativo nel potenziale genetico, sia pure a fini di terapia genetica, ecc. e dall’altra parte (anche senza parlare delle guerre di religione, del loro terrorismo e delle loro uccsioni) la vocazione sacrificale, anch’essa universale" (Ibidem, p. 56). A motivo di tale essenza sacrificale, nella religione, sottolinea Derrida, la vita non vale se non in quanto (in essa si manifesta) il più della vita (la divinità, la legge divina). Perciò la religione porta in sé anche un movimento di auto-indennizzo, di indennizzo dal suo stesso indennizzo della vita.

(41) J. Goody, Representations and Contradictions. Ambivalence Towards Images, Theatre, Fiction, Relics and Sexuality, tr. it. di M. Gregorio, L’ambivalenza della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione, Milano, Feltrinelli, 2000. Su tale testo cfr. la recensione del sottoscritto in Kainos. Rivista telematica di critica filosofica, n° 1, L’immagine, 2000-01, (www.kainos.it).

(42) Ibidem, p. 34. Sull’ambivalenza fenomenologica dell’immagine cfr. le importanti chiarificazioni di Eugen Fink contenute nello scritto Vergegenwärtigung und Bild. Beiträge zur Phänomenologie der Unwirklichkeit (1930), in Studien zur Phänomenologie. 1930-1939, Den Haag, Nijhoff, 1966, tr. it. parz. a cura di Gabriella Baptist, Presentificazione ed immagine. Contributi alla fenomenologia dell’irrealtà, in Kainos. Rivista telematica di critica filosofica, n° 1, L’immagine, cit.

(43) J.Goody, Op.cit., p. 34.

(44) Sul rapporto speculare tra iconofilia e iconoclastia cfr. J. J. Wunenburger, Philosophie des images, tr. it. di S. Arecco, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi, 1999 (in particolare il capitolo IV); su tale testo cfr. la recensione di Aldo Meccariello in Kainos. Rivista telematica di critica filosofica, n° 1, L’immagine, cit.; nella stessa rivista cfr. anche il saggio di G. Patella, Lo statuto dell’immagine tra icona e simulacro.

(45) J. Goody, Op. cit., p. 234.

(46) Ivi.

(47) F. La Cecla, Il malinteso, cit., p. 111.

(48) Vedi su tale questione il volume di M. Costa, L’estetica dei media, cit.

(49) N. Luhmann, Die Realität der Massenmedien, tr. it. di E. Esposito, La realtà dei mass media, Milano, Franco Angeli, 2000

(50) Ibidem, p. 19.

(51) J. F. Lyotard, Il dissidio, cit., p. 11.

(52) D. De Kerckove, Brainframes, Technology, mind and business, tr. it. a cura di B. Bassi, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Bologna, Baskerville, 1993

(53) Ibidem, pp. 45-46.

(54) Ibidem, p. 27.

(55) Ibidem, p. 21. Partendo da tale prospettiva di studio, sarebbe interessante reinterpretare i classici studi di E. T. Hall sulla prossemica (The Hidden Dimension, tr. it. di M. Bonfantini, La dimensione nascosta, introduzione di Umberto Eco, Milano, Bompiani, II edizione "Tascabili Bompiani", 1988), cosa che, ovviamente, non è possibile fare in questa sede. Cfr. comunque, per un primo tentativo in tal senso, il mio Meta(tele)comunicazione e ritualità, cit.

(56) Sulle diverse teorie della CMC, la sintesi più efficace e chiara di mia conoscenza è quella contenuta nel bel testo di Luciano Paccagnella, La comunicazione al computer. Sociologia delle reti telematiche, Bologna, Il Mulino, 2000 (in particolare il capitolo II). Per un’applicazione dei modelli "strategici" goffmaniani alla "vita in rete" cfr. H. Miller, The Presentation of Self in Electronic Life: Goffman on the Internet (University of London, 1995), www.ntu.ac.uk/soc/psych/miller/goffman.htm

(57) Sul mondo delle chat, vedi il recente A. Roversi, Chat line. Luoghi ed esperienze della vita in Rete, Bologna, Il Mulino, 2001.

(58) Vedi L. Paccagnella, Op. cit., p. 64.

(59) M. Foucault, Des espaces autres, tr. it. di P. Tripodi e T. Villani, Spazi altri, in Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro, Milano, Mimesis, 2001, pp. 19-32.

(60) M. Augé, Non-lieux, tr. it. di D. Rolland, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1993.

(61) M. Foucault, Op.cit., p. 25.

(62) Ibidem, p. 26.

(63) Ibidem, p. 28.

(64) Ivi

(65) Ibidem, p. 29.

(66) Ivi.

(67) Ibidem, p. 30.

(68) Ibidem, p. 31.

(69) Ivi.

(70) Ivi.

(71) Sulla pratica hacker vedi il recente libro di P. Himanen, The Hacker Ethic and the Spirit of the Information Age, tr. it. di F. Zucchella, L’etica hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Milano, Feltrinelli, 2001

(72) Cfr. Ibidem, pp. 26-39.

(73) M. de Certeau, L’Invention du quotidien, 1. Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990.

(74) M. Augé, Op. cit., p. 51.

(75) Ibidem, p. 52.

(76) Ibidem, p. 54.

(77) Ivi.

(78) Ibidem, p. 73.

(79) Ibidem, pp. 91-92.

(80) Ibidem, p. 95.

(81) Ibidem, p. 97. Sarebbe interessante far "giocare" questa notazione di Augé con quanto scrive, in tutt’altro contesto critico, Naomi Klein nel suo noto No logo, tr. it. di Equa Trading e S.Borgo, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini & Castaldi, 2001.

(82) A tale comune condizione pagine illuminanti ha dedicato G. Agamben in La comunità che viene, Torino, Bollati Boringhieri, II edizione, 2001.

(83) Per un’analisi critica di tale pregiudizio cfr. l’importante studio di Eric J.Leed, The Mind of the Traveler. From Gilgamesh to Global Tourism, tr. it. di E. Joy Mannucci, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 1992 (in particolare il capitolo II della Parte Prima).

(84) Sulla "mente locale" e le culture dell’abitare vedasi l’importante libro di F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, prefazione di G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, Nuova edizione accresciuta, 2000.

(85) F. Braudel, L’identité de la France. Espace et historie, tr. it. di G. Ferrara degli Uberti, L’identità della Francia. Spazio e Storia, Milano, Il Saggiatore, 1988, pp. 814-15 (citato in F.La Cecla, Il malinteso, cit.).

(86) Vedi L. Paccagnella, Op. cit., pp. 101-104.

(87) Sulle "comunità virtuali" cfr. anche il classico H. Rheingold, The Virtual Community. Homesteanding on the Electronic Frontier, tr. it., Comunità virtuali: parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio, Milano, Sperling & Kupfer, 1994.

(88) Vedi L. Paccagnella, Op. cit., pp. 146 sgg.; sulla "forza dei legami deboli" cfr. M. Granovetter, The Strenght of Weak Ties. A Network Theory Revisited, in P. V. Maarsden e N. Lin (a cura di), Social Structure and Network Analysis, Baverly Hills, Ca, Sage, 1982; sulle reti sociali cfr. Reti. L’analisi di network nelle scienze sociali, a cura di Fortunata Piselli, 2° edizione, Roma, Donzelli, 2001.

(89) L. Paccagnella, Op. cit., p. 147.

(90) Ibidem, p. 148.

(91) Ibidem, p. 149.

(92) H. G. Gadamer, Wahrheit und Methode, edizione italiana a cura di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, pp. 317 sgg.

(93) F. La Cecla, Il malinteso, cit., p. 134.

(94) L. Paccagnella, Op. cit., p. 147.

(95) M. Heidegger, Bauen Wohnen Denken, in Voträge und Aufsätze, tr. it. a cura di G. Vattimo, Costruire abitare pensare, in Saggi e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 102.

(96) L. Rossetti, Strategie macro-retoriche: la "formattazione" dell’evento comunicazionale, Palermo, Centro internazionale studi di estetica, Aesthetica Preprint n° 41, 1994.

(97) Sugli "artisti della comunicazione" vedi i già citati volumi di M. Costa Il sublime tecnologico e (a cura di) L’estetica della comunicazione; vedasi anche il mio Meta(tele)comunicazione e ritualità, cit.; cfr. inoltre il numero speciale della rivista Leonardo dedicato a Connectivity: Art and interactive Telecommunications, a cura di Roy Ascott, (Vol. 24, n° 2, Pergamon Press, 1991).