L’altro
nella rete
(problemi
di mediazione culturale)
di Vincenzo Cuomo
- Agire comunicativo, agire strategico
e agire traduttivo.
È
possibile utilizzare i media della comunicazione come strumenti
di mediazione culturale? Qual è la modalità specifica
di relazione col culturalmente altro che può essere
realizzata con essi e, in particolare, quale nell’ambito della comunicazione
in rete?
La
risposta a tali questioni d’ordine generale implica, in primo luogo,
quella ad un’altra: gli strumenti, nella comunicazione umana,
sono realtà neutre, secondarie e marginali oppure hanno un
ruolo formatore e condizionante le relazioni umane che loro tramite
avvengono? La risposta, ormai classica, dataci da Marshall McLuhan
è che l’effetto fondamentale di ogni (nuovo) medium
consiste nel mutamento delle proporzioni, del ritmo
e degli schemi che introduce nei rapporti umani (1).
Molte differenze tra le culture (ma non tutte, ovviamente) sarebbero,
secondo tale prospettiva d’analisi, riconducibili alla diversità
dei media utilizzati per comunicare (e per conoscere). Abbiamo
così culture orali-aurali, culture chiro(e tipo)grafiche,
culture elettroniche (2).
Una tale risposta pone, tuttavia, un ulteriore problema: se ogni medium
di comunicazione condiziona l’esperienza del mondo nelle diverse culture,
tanto da renderle, in buona parte, eterogenee, quale dovrà
essere il medium in grado di rendere possibile la comunicazione
inter-culturale? Se tale medium non vi fosse, non dovremmo
forse concludere che tali culture sarebbero intraducibili l’una
per l’altra? Non rischierebbero, così, di farsi sempre, irrimediabilmente,
"torto"? (3)
Facciamo
un esempio. È noto il principio enunciato da Paul Watzlawick
circa l’impossibilità del non-comunicare. "Il comportamento
non ha un suo opposto – egli afferma – non esiste qualcosa che sia
un non-comportamento o, per dirla anche più semplicemente,
non è possibile non avere un comportamento. Ora, se
si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione
ha valore di messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue
che, comunque ci si sforzi, non si può non comunicare.
L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno
tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro
volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tale
modo comunicano anche loro" (4).
Un silenzio ha, quindi, valore di messaggio. È evidente. Siamo
sicuri, tuttavia, che tutte le culture attribuiscano ad esso lo stesso
"valore"? Molte sono le considerazioni che potrebbero essere
svolte sulle "retoriche" del silenzio (5),
ma la questione fondamentale è che tali retoriche, condizionate
dalla tecnologia della comunicazione in cui sono svolte, non sono
per niente sovrapponibili. Ad esempio, la retorica del silenzio nell’antica
cultura tuareg (fondamentalmente orale-aurale) non è
sovrapponibile a quella che si ritrova nella "chiro-tipografica"
cultura francese dell’Ottocento (e, ancora, qual è la retorica
del silenzio nella comunicazione attraverso il computer?).
Tuttavia,
rispetto al problema della comunicazione inter-culturale, è
possibile svolgere un diverso tipo di argomentazione. La storia ci
consegna, infatti, numerosi esempi di traduzioni, di contaminazioni,
di incontri tra culture. Tralasciando per un momento di riflettere
sul concetto di "traduzione", per comprendere cosa significhi,
possiamo affermare che si è sempre tradotto. Per quanto
si possa considerare la traduzione come tradimento, il suo
"fatto" ci deve portare ad affermare che da sempre le culture
si sono "incontrate" (magari attraverso l’equivoco e il
malinteso, come vedremo) e che, quindi, le due tesi estreme,
quelle dell’assoluta incomunicabilità e quella della "comunicabilità
universale" tra le culture devono essere considerate astrazioni
dogmatiche.
Se
partiamo dal "fatto" della traduzione e non dal dogma dell’eterogeneità
assoluta tra le culture, allora, kantianamente, la domanda cui dobbiamo
dare una risposta non verte sulla possibilità o meno della
"mediazione inter-culturale" ma sulle modalità del
suo darsi.
A
tal fine, prima di riflettere, a partire da tale presupposto, sui
media della comunicazione, conviene soffermarsi brevemente
su alcuni modelli comunicazionali elaborati sia in ambito filosofico-morale
che nell’ambito della sociologia dell’azione comunicativa. Ci riferiremo,
quindi, nell’ordine al modello dell’azione comunicativa volta all’intesa
elaborato da Jürgen Habermas, a quello dell’azione strategica
studiato da Erwin Goffmann e, infine, al modello (o ai modelli) traduttologico.
Come
è noto, Habermas, nella sua Teoria dell’agire comunicativo
(6), prendendo le mosse
dalla teoria weberiana dell’agire, introduce il concetto di agire
comunicativo orientato all’intesa, differenziando tale modalità
di azione da quella che chiama "strategica". Mentre quest’ultima
è orientata al successo ed è caratterizzata dal perseguimento
di interessi e si fonda su criteri di efficacia, l’azione comunicativa
orientata all’intesa, invece, è concepibile come "un’interazione
fra due o più soggetti i quali cercano un’intesa per coordinare
i rispettivi piani d’azione sulla base di una reciproca comprensione
e interpretazione della situazione" (7).
Secondo Habermas (8), i
partecipanti ad un’azione comunicativa perseguono i loro scopi individuali
solo a condizione di poterli realizzare in conformità a definizioni
comuni e condivise della situazione. Agendo in tal modo, i soggetti
coordinano i propri progetti di vita in quanto trovano un accordo
interpretativo riguardo al concreto mondo della vita.
Due
sono, a nostro avviso, le obiezioni che possono essere fatte all’idea
che tale modello d’azione possa essere universalizzato, contribuendo
alla risoluzione dei principali conflitti tra le culture. Innanzitutto
c’è da dire che tale idea presuppone, hegelianamente, che il
linguaggio possa essere concepito come il medio attraverso cui condividere
ogni esperienza possibile (ergo che tutta l’esperienza possa
essere tradotta, senza residui, in simboli intersoggettivamente vincolanti
tali da consentire ad ogni soggetto la "comprensione", senza
residui, dell’altro). In secondo luogo, l’azione comunicativa
orientata all’intesa, se pur la si volesse considerare come una sorta
di dover-essere morale all’interno di una "data" cultura,
mal si adatta ad essere pensata come modello per le relazioni inter-culturali,
all’interno delle quali prevalgono le "differenze" di valutazione
e, per così dire, di Weltanschauungen, rispetto ai "parametri
condivisi".
Il
secondo modello di interazione comunicazionale su cui vorremmo soffermarci
è quello dell’interazione strategica elaborato da Erwin
Goffman (9).
A
differenza dell’agire comunicativo, l’azione strategica è esplicitamente
volta al perseguimento del successo di scopi particolari senza alcun
ideale di "intesa". Nell’azione strategica ogni individuo
cerca il successo, rischia la sconfitta ma spesso è costretto
ad onorevoli compromessi. L’interazione strategica, infatti, può
portare sia alla piena realizzazione d’interessi di parte, sia al
conflitto (col rischio della sconfitta) sia (ed è quel che
accade nella maggior parte dei casi) alla negoziazione (e alla
"negoziazione delle identità"). Quest’ultima certamente
non è l’intesa habermassiana, ma produce forme concrete
di compromesso, attraverso concessioni fatte alla controparte.
Quel che, subito, appare interessante nel modello di Goffman è
la considerazione che mentre perseguono i propri interessi strategici,
e proprio perché lo fanno, gli individui trasformano/modificano
il contesto/situazione rispetto cui interagiscono, e ne risultano,
a loro volta, modificati (10).
Com’è
noto Goffman, sulla scia di E. Durkheim e di G. H. Mead, distingue
nell’individuo l’attore dal personaggio (o, meglio,
dai personaggi) che consiste nella "rappresentazione del sé"
all’interno dell’interazione sociale. Nelle interazioni sociali (sia
quotidiane che "istituzionali") gli individui hanno spesso
come unico scopo quello di esibire e far accettare all’altro le proprie
maschere/ruolo sociali (ognuno, si potrebbe hegelianamente affermare,
lotta per essere riconosciuto dall’altro). Tuttavia Goffmann
sottolinea come attraverso tali "giochi di faccia" gli individui
ne escono trasformati; nelle interazioni avviene una costante
ri-negoziazione delle identità sociali (11).
Questa caratteristica dell’azione strategica ne fa senz’altro, come
avremo modo di mostrare, uno strumento euristico importante per i
nostri scopi.
Passiamo
ora a considerare il terzo dei modelli d’interazione comunicativa,
vale a dire quello che abbiamo definito traduttologico, e che,
per le considerazioni già fatte in apertura, ci sembra fornire
il modello più carico di conseguenze per il nostro tema.
In
proposito conviene rifarci ad una definizione data qualche anno fa,
in un suo breve, ma importante, scritto, da Paul Ricoeur (12).
Il
filosofo francese definisce la traduzione un atto d’ospitalità
linguistica (13).
Il concetto di "ospitalità" è evidentemente
paradigmatico per il nostro problema. Com’è noto esso non è
per niente sinonimo di "assimilazione" o di "identificazione"
dello straniero. Il concetto di ospitalità linguistica e, potremmo
dire, culturale in senso lato, sta ad indicare che lo straniero, l’ospite
(lo xénos) mantiene la sua estraneità alla cultura
che lo ospita, così come la cultura ospitante, attraverso il
rapporto con lo straniero scopre se stessa "bisognosa di ospitalità".
A tal proposito Massimo Cacciari, sulla scorta di Benveniste, ha affermato
che l’ospitalità non "dà origine ad alcun processo
assimilativo: lo hostis, lo xénos, è sacro proprio nella
sua identità ed individualità altra rispetto
a quella dell’ospite. E l’ospite, a sua volta, è sempre anche
hostis, è sempre anche nella condizione di divenire a sua volta
straniero, viandante bisognoso d’ospitalità. Nello hospes vive
anche lo hostis, e nello hostis lo hospes" (14).
Insomma, l’ospitalità può condurre ad incontri fecondi,
ma può anche capovolgersi in conflitto. Nulla ci assicura,
rileva Cacciari, che l’hostis non si trasformi in inimicus
(un po’ come, paradigmaticamente, è avvenuto nella lingua della
tarda latinità, in cui la parola hostis da "ospite"
passa a designare il "nemico" (15)).
In ogni caso, potremmo dire che lo straniero è colui che si
presenta nella figura dell’intruso e che, in quanto può
essere accolto come ospite o respinto come nemico, è caratterizzato
dal suo essere "al di fuori delle differenze consentite all’interno
di una cultura" (16).
Ora,
il concetto di traduzione come "ospitalità linguistica",
se inteso con radicalità, intende proprio tutto questo. Come
l’ospitalità, dicevamo, ci fa scoprire bisognosi d’ospitalità,
così la traduzione, ci dice ancora Ricoeur, porta alla scoperta
delle risorse nascoste della propria lingua. Ciò non significa
solo che, in tal modo, il proprio sia compreso solo a partire
dall’altro, ma anche, soprattutto, che l’altro è
ritrovato nel proprio (17).
D’altro canto, come la traduzione, così l’ospitalità
sembra implicare, quasi come suo assioma, che non tutto sia "traducibile"
e "ospitabile" e che il "dato" della diversità
delle lingue e delle culture sia un fatto ineliminabile. Se abbiamo
bisogno di tradurre è perché siamo diversi. Infine,
come la traduzione, anche l’ospitalità culturale è un’esperienza
piena di rischi. Come ebbe ad affermare Franz Rosenzweig (citato da
Ricoeur) "tradurre è servire due padroni, lo straniero
nella sua estraneità e il lettore nel suo desiderio di appropriazione"
(18).
Tradurre,
si potrebbe dire, è un transito rischioso dal proprio all’estraneo
e al contrario.
- Il malinteso come modello d’interazione.
Una
radicalizzazione di quanto detto la troviamo in un altro modello d’interazione
culturale, esplicitamente pensato con riferimento alle problematiche
inter-culturali. Si tratta del modello del malinteso proposto
da Franco La Cecla, sulla scorta di una interpretazione di importanti
riflessioni di Wladimir Jankelevitch (19).
La
Cecla mostra come il malinteso e l’incomprensione tra le culture siano
stati, storicamente, una risorsa per incontri duraturi e fecondi.
Non è per nulla detto, infatti, che l’incontro tra le culture
possa avvenire solo in conformità ad una comune valutazione
delle situazioni di vita. Anzi, i fraintendimenti, i malintesi (anche
se non in tutte le loro forme (20))
possono diventare "lo spazio in cui le culture si spiegano e
si confrontano, scoprendosi diverse. Il malinteso è il confine
che prende una forma. Diventa una zona neutra, un terrain-vague,
dove le identità, le identità reciproche si possono
attestare, restando separate appunto da un malinteso" (21).
Nel
malinteso, nel fraintendimento, potremmo dire, facciamo esperienza
dell’alterità dell’altro. Tuttavia, proprio per tale
motivo, esso può divenire occasione di "traduzione",
o almeno di "onorevoli" compromessi; ed è, in ogni
caso, un’occasione per mettersi in gioco.
Quella
forma di malinteso che La Cecla, seguendo Jankelevich, chiama malinteso-beneinteso
può, anzi, divenire una buffer-zone, una zona cuscinetto
in cui sperimentare delle forme semplificate e superficiali di "incontro".
Avremo quindi i "giochi di faccia", la messa in scena di
vere e proprie maschere culturali, di cliché e stereotipi,
che spesso, sottolinea La Cecla, non sono altro che ciò che
una cultura è disposta a concedere di sé agli altri,
a "dare ad intendere" agli altri per gestire le "relazioni"
da posizione di vantaggio o solamente per poter "essere lasciata
in pace".
In
tal modo il malinteso (beninteso) può diventare uno strumento
per evitare conflitti irreparabili, oppure – qualora quest’ultimi
si diano – può essere un modo di "dare tempo al tempo"
per "raffreddarli" e, a volte, per guarirli.
Ora,
il luogo dove tali malintesi tra le culture sono più comuni
e dove possono generare conflitti ma anche feconde esperienze di traduzione
sono le frontiere. Riprendendo l’importante distinzione tra
frontiera e confine fatta da Piero Zanini (22),
La Cecla afferma: "il confine indicherebbe più un limite
interno o esterno da non valicare, mentre invece la frontiera richiamerebbe
l’idea che c’è un luogo, dove ‘si fanno fronte’ due diversità"
(23). Se questo è
vero, "se le frontiere sono il ‘faccia a faccia’ tra due compagini,
due culture, due paesi, allora è fondamentale che esse ‘abbiano
luogo’ perché siano davvero filtro e palcoscenico della differenza"
(24).
- I media come metafore attive.
Torniamo
ora al problema da cui eravamo partiti. In che modo i media possono
essere utilizzati come strumenti di "mediazione culturale"?
Se, come abbiamo già detto, non possono essere considerati
elementi neutri o marginali all’interno delle dinamiche della comunicazione,
ma hanno un ruolo formante e condizionante le relazioni umane che
loro tramite avvengono, non dovremo forse concludere che essi complicano
inutilmente le relazioni inter-culturali, rendendole più difficili,
e che forse tanto vale non ricorrervi là dove si tratta di
ridurne la conflittualità, e che converrebbe fidarsi esclusivamente
delle relazioni comunicative "faccia a faccia", che si presume
siano più "vere" o comunque meno rischiose?
Una
simile conclusione, tuttavia, ha due gravi difetti. Da un lato illude
che oggi sia possibile "mettere tra parentesi" o limitare
il ruolo che i media hanno nella nostra società, mentre
gran parte della nostra esperienza si forma attraverso di essi. Dall’altro
si fonda sul presupposto (dogmatico e metafisico) di una presunta
"innocenza" dell’interazione orale-aurale, della comunicazione
"faccia a faccia", l’unica in cui i "messaggi"
transiterebbero senza deformazioni di sorta. A ben vedere, come molti
studiosi (a partire da McLuhan) hanno messo in evidenza, tale presupposto
ha un’origine storica ben precisa; è, infatti, il prodotto
della tecnologia della comunicazione e del pensiero che è stata
egemone in Occidente fino alla comparsa dei media elettrici:
la scrittura alfabetica (25).
La
frattura tra significante e significato che l’alfabeto
istituisce ed introduce nella comunicazione umana – giacché
un piccolo numero di grafemi/fonemi in sé privi di significato
si mostra in grado di veicolare tutti i significati possibili –, una
volta assunta come paradigma epistemico, ha prodotto la convinzione
della "neutralità" degli strumenti della comunicazione
rispetto al messaggio veicolato. Per l’individuo alfabetizzato – volendo
parafrasare il noto apoftegma di McLuhan – il medium non è
mai il messaggio, poiché il medium comunicazionale per
eccellenza è, per lui, il grafema/fonema a-semantico su cui
si fonda la scrittura alfabetica.
L’ipotesi
interpretativa seguita, invece, da molti studiosi è che il
medium alfabetico (poi alfabetico-tipografico), per niente neutrale
rispetto ai "messaggi" che veicola, ha prodotto modificazioni
profonde nelle culture che lo hanno adottato come strumento di comunicazione,
fino a strutturare, secondo McLuhan, la stessa razionalità
occidentale di tipo sequenziale ed analitico. Secondo tale prospettiva
di ricerca gli stessi "valori" dell’Occidente, il suo individualismo,
il suo egualitarismo, il suo cosmopolitismo, benché
condizionati anche da altri fattori storici, sarebbero un inconsapevole
portato di tale tipo di razionalità, che tenderebbe a svalutare
quel che potremmo chiamare il "corpo significante" rispetto
al puro significato.
Come
è noto McLuhan concepisce i media (in generale e non
solo quelli della comunicazione) come "estensioni" del corpo
umano. Più specificamente quelli della comunicazione sono considerati,
dal sociologo canadese, estensione dei nostri organi di senso e del
suo sistema nervoso centrale. In quanto estensioni (potenziamento,
ampliamento) degli organi di senso, i media producono modificazioni
nella loro organizzazione dinamica (nel sensorio), condizionando
la nostra percezione/concezione del mondo e degli altri. Mentre
la scrittura alfabetico-tipografica iperstimola il senso della vista,
la comunicazione esclusivamente orale/aurale produce un’iperstimolazione
del senso dell’udito. Ora, essendo l’udito un senso "olistico"
(io odo sempre tutti, e simultaneamente, i suoni/rumori/voci che mi
giungono dall’ambiente circostante), mentre la vista è un senso
"discreto" (io posso vedere sempre solo porzioni definite
dell’ambiente, e solo una alla volta) (26),
la differente organizzazione in senso visivo o uditivo del sensorio,
prodotta da una differente tecnologia della comunicazione, non può
che condizionare in profondità quel che un tempo si chiamavano
le Weltanschauungen, le visioni del mondo prevalenti all’interno
delle varie culture. Tutto ciò può comportare, secondo
McLuhan, violenti conflitti inter-culturali (27),
esplosioni di violenza e di aggressività inspiegabili per "l’idiota
tecnologico". Ne è un esempio l’incontro/scontro tra culture
letterarie e culture orali più volte avvenuto nel corso della
storia (incontro/scontro che è sempre anche un conflitto
tra i media (28)).
Insomma,
i media sono, per McLuhan, metafore attive, "in
quanto hanno il potere di tradurre l’esperienza in forme nuove"
(29). Nel loro "volgere"
l’esperienza del mondo e degli altri secondo nuove "proporzioni,
ritmi e schemi", la trasformano.
Secondo
tale concezione, come è avvenuto con la scrittura alfabetica
e con la stampa, anche i media elettrici (telefono, radio,
TV in particolare) hanno ristrutturato la nostra percezione del mondo,
reintroducendovi elementi "neo-tribali" (30).
Eliminando le distanze comunicative tra le persone hanno prodotto
maggior partecipatività (31),
hanno prodotto una globalizzazione neo-tribale, un villaggio globale.
Forse, seguendo tale discorso, dovremmo concludere che la comparsa
dei media elettrici sia la premessa di un incontro tra le "culture
letterarie" occidentali (ormai ibridate in senso neo-tribale)
e le altre culture non-alfabetiche o a prevalenza orale-aurale
con cui finora si erano create più occasioni di scontro e di
incomprensioni, che di pacifico scambio?
La
risposta non è così semplice. Prima di tentare di articolarla,
è opportuno riflettere su una questione essenziale: la telepresenza.
- Telepresenza e reazioni identitarie
Jonathan
Steuer ha definito la telepresenza come l’esperienza d’essere
presenti in un ambiente attraverso un mezzo di comunicazione (32).
Tale esperienza presuppone la contestuale percezione di essere fisicamente
situati in un ambiente diverso da quello che si "telepercepisce".
Si tratta di quel che potremmo definire un’esperienza critica,
interpretabile come un vero e proprio "spossessamento del corpo
proprio" (33) come
sradicamento e dislocazione tra corpo fisico e attività
percettiva. Nell’esperienza della telepresenza, infatti, si
produce (per la prima volta nella storia umana) una frattura tra gli
aistheta e la fisicità dei corpi, tra le rappresentazioni
sensibili (immagini, suoni, odori) e il "corpo proprio".
La "criticità" di tale esperienza si approfondirà
quando diverrà comune per larghe masse di individui la teletrasmissione
della sfera tattile, cosa già da tempo tecnologicamente
possibile. Tra non molto, tramite un dispositivo robotico, sarà
possibile stringersi la mano a distanza (lo ha già realizzato
l’"artista della comunicazione" Norman White nel lontano
1986 (34)). Tuttavia,
dovremmo chiederci, nel momento in cui toccheremo una mano a distanza,
davvero la toccheremo come possiamo toccare un libro che sta sulla
nostra scrivania o la tastiera del nostro computer? La filosofia non
ci ha forse sempre ricordato che nella percezione tattile, nel tocco
del nostro toccare, chi tocca è a sua volta toccato
dalla cosa che tocca? Ma nello stringere una mano a distanza, il nostro
toccare davvero tocca la cosa che tocca? Ed è davvero toccato
da essa? (35).
Secondo
Derrida (36), l’espropriazione
del corpo proprio, nonché la dislocazione dei "luoghi"
prodotti dalle tecnologie della telecomunicazione, è, con ogni
probabilità, la vera causa di tutte quelle reazioni identitarie
che sono oggi rubricate sotto le etichette del "ritorno del religioso"
o del "piccolo nazionalismo". "Riguardo a tutte le
forze di astrazione e dissociazione (sradicamento, delocalizzazione,
formalizzazione, schematizzazione universalizzante, obiettivazione,
telecomunicazione…) – egli afferma – la religione è al contempo
nell’antagonismo reattivo e nel rilancio riaffermativi" (37).
Nel volume-intervista scritto insieme a Bernard Stiegler, Derrida,
riprendendo tale analisi, lucidamente rilancia: "lo chez-soi
è sempre stato tormentato dall’altro. Dall’ospite, dalla minaccia
dell’espropriazione. Non è costituito che in questa minaccia.
Nondimeno, oggi si assiste a un’espropriazione, a una deterritorializzazione,
a una delocalizzazione, a una dissociazione tanto radicale del politico
e del locale, che la risposta, bisognerebbe dire la reazione, diventa:
voglio essere chez-moi, voglio essere a casa mia infine, con
i miei, vicino ai miei cari" (38).
Argomentando
a favore di una fonte comune tra religione e tecno-scienza (39),
Derrida ritiene che la religione – da cui egli distingue la fede
– si caratterizzerebbe, specie nei nostri tempi, anche come una
resistenza o una reazione alla "disgiunzione" e all’alterità
assoluta che la tele-tecno-scienza produce nella nostra vita (ma in
tale reazione è costretta, per il suo stesso "meccanismo
teologico", a reagire anche a se stessa, immunizzandosi dalla
sua immunizzazione (40)).
Tale reattività identitaria potrebbe non solo acuire le tensioni
e i conflitti culturali e religiosi già esistenti, ma potrebbe
produrne di nuovi e più violenti.
Sulla
scorta di tali considerazioni dovremmo, forse, concludere che la tele-tecnoscienza
sia non solo inutilizzabile ma addirittura dannosa alla mediazione
tra le culture? Che, ancora una volta, è la relazione "faccia
a faccia" che bisognerebbe a tale scopo privilegiare?
Non
è ancora venuto il momento di dare una (provvisoria) risposta
a tale nostro problema di fondo. Dobbiamo fare ancora un passo nell’analisi
dell’esperienza della telepresenza.
- Media e contraddizioni cognitive
C’è
un problema fondamentale che dobbiamo affrontare. Lo potremmo chiamare
il problema delle "contraddizioni cognitive". Riprendiamo
tale espressione dall’importante volume di Jack Goody, Representations
and Contradictions (1997) (41).
In tale studio l’antropologo inglese, fondando la sua ipotesi interpretativa
su ricerche comparatistiche, espone l’idea che il diverso atteggiamento
delle culture nei confronti delle diverse forme di rappresentazione
sia causato, in ultima istanza, da un’ambivalenza strutturale – che
egli chiama appunto contraddizione cognitiva – della rappresentazione
stessa. L’ambivalenza – egli afferma – "è inerente allo
stesso processo della rappresentazione negli animali che usano il
linguaggio. […] Le rappresentazioni sono sempre rappresentazioni di
qualcosa, quindi sono ri-presentazioni, non la cosa in sé,
das Ding an sich" (42).
Le rappresentazioni sono in sé ambivalenti, poiché,
nel ri-presentare attestano un’assenza e una presenza nello stesso
momento: "si ha quindi sempre la possibilità che il significante
(parole, azioni, immagini) possa essere confuso o apertamente identificato
con il significato" (43).
Studiando
culture tipologicamente simili o le stesse culture colte in momenti
storici diversi, Goody mostra come la contraddizione cognitiva insita
nella rappresentazione possa produrre atteggiamenti opposti e intimamente
conflittuali rispetto alle diverse modalità rappresentative
(icone, reliquie, rappresentazioni teatrali, narrazioni…) o comunque
generare, sul lungo periodo, atteggiamenti fortemente instabili e
oscillanti tra il rifiuto e l’esaltazione (44).
Nel caso dell’immagine, l’ambivalenza insita in essa può generare
(ed ha generato) atteggiamenti iconofili così come atteggiamenti
iconoclasti, anche nell’ambito della medesima cultura, e ciò
sia nella stessa epoca che in epoche storiche differenti. "Le
contraddizioni cognitive – sottolinea acutamente Goody – esistono
in quelle situazioni in cui una forma di comprensione del mondo può
andare in due o più direzioni, per via della natura stessa
di quella cognizione. Queste situazioni sono necessariamente instabili
sul lungo periodo. Ciò significa che se un gruppo sceglie una
linea di pensiero, l’altra linea rimane un’alternativa potenziale,
a livello societario come a livello individuale" (45).
Facendo
tesoro di quanto Goody afferma, potremmo allargare il suo discorso
ed includere nella categoria della "contraddizione cognitiva"
l’esperienza della telepresenza. La "criticità"
cognitiva di tale esperienza è anche più radicale di
quella della "rappresentazione" studiata dall’antropologo
inglese. L’esperienza della tele-presenza non è riportabile
senza residui nell’alveo delle cognizioni "rappresentative",
così come probabilmente non è, forse, neanche più
definibile come "esperienza". Come abbiamo visto, essa è
un’esperienza di una "sconnessione" tra sensibilità
e pensiero che non è concepibile nei tradizionali termini "oppositivi"
e conflittuali; la sconnessione deriva, infatti, da due esigenze,
quella della sensibilità e quella del pensiero, che si rimandano
senza mai potersi armonizzare: si potrebbe sostenere che, in tale
esperienza, il corpo senta incomprensibilmente e la mente
pensi insensibilmente. Nell’esperienza della telepresenza non v’è
a rigore "conflitto", non accade al corpo di sentire contro
la mente; accade, invece, che esso senta nonostante la mente
e che questa pensi nonostante il corpo. Per questo motivo non
crediamo sia possibile considerare tale esperienza un’esperienza
nel senso tradizionale del termine.
Nella
possibilità della telepresenza si cela, quindi, una
contraddizione cognitiva che, come già abbiamo avuto modo di
osservare, può generare violentissimi conflitti intra- e inter-culturali.
Se le contraddizioni cognitive possono produrre comportamenti ambivalenti
e conflittuali all’interno di una medesima cultura, infatti, tale
pericolo si ripresenta senza dubbio acuito nell’ambito delle relazioni
inter-culturali.
Nel
libro di Goody, tuttavia, ritroviamo un’altra indicazione interessante.
Egli si sofferma, infatti, anche se fugacemente, su come le società
(specie quelle antiche) hanno cercato di prevenire o di regolare i
conflitti derivanti dalle contraddizioni cognitive insite nelle forme
della rappresentazione. In tal modo ci dà un’indicazione utile,
d’ordine generale, per il problema critico che stiamo affrontando.
Lo studio delle culture ci mostra, afferma Goody, che è possibile
ottenere "una relativa stabilità quando una cognizione
si protegge da un’altra riconoscendone l’esistenza, o in un atto rituale
o attraverso l’azione di alcuni individui o gruppi che adottano il
modo alternativo di comprensione[;] le scelte alternative possono
essere inserite nel sistema sociale, risolvendo forse l’ambivalenza
individuale" (46).
Le
culture, quindi, hanno cercato di proteggersi da tali conflitti tollerando,
al proprio interno, scelte alternative rispetto a quelle comunemente
accettate dalla maggioranza.
Questa
considerazione ci dà la possibilità di comprendere meglio
la definizione di "straniero" data da La Cecla come di colui
che si situa, ed è percepito, "al di fuori delle differenze
consentite all’interno di una cultura" (47).
Seguendo tali considerazioni, potremmo, infatti, affermare che il
confronto/incontro con lo "straniero" renda possibile il
disvelamento di quella virtuale alterità che alligna
nel nostro "proprio", nella nostra "propria" cultura,
nel nostro "mondo domestico", poiché in esso vi alberga
l’ambivalenza e la contraddizione. Il confronto/scontro/incontro con
lo "straniero" potrebbe disvelarci le nostre latenti contraddizioni,
rendendoci più pronti ad affrontarle. Su tale concetto critico
torneremo.
- Di nuovo, incomprensioni e traduzioni
(attraverso i media)
Riprendiamo
la riflessione sui conflitti che i media della comunicazione
possono produrre nelle relazioni tra le culture. Solo che, ora, la
questione si è ulteriormente complicata. Sappiamo due cose:
1) gli strumenti della comunicazione condizionano la nostra esperienza
del mondo; 2) la nostra esperienza del mondo è segnata da interne
e "strutturali" ambivalenze/contraddizioni cognitive, derivanti
dagli stessi media attraverso cui ci rappresentiamo/esperiamo
il mondo e gli "altri" (in tale accezione generale, all’interno
del concetto di medium comprendiamo anche lo stesso "linguaggio"
naturale). A tali acquisizioni critiche dobbiamo aggiungere una sorta
di corollario: i media sono concepibili come veri e propri
"sistemi cognitivi" che non solo strutturano la nostra conoscenza
della realtà ma condizionano anche la conoscenza degli altri
media (e della realtà conosciuta attraverso di essi).
È da sottolineare, inoltre, che ogni nuovo medium entra
in competizione con i media precedenti, specie rispetto a quelli
riguardanti lo stesso ambito sensoriale (pensiamo, ad esempio, alle
trasformazioni che il cinema ha subito, anche senza esplicitamente
volerlo, per la comparsa della televisione) (48).
Oltre
a McLuhan, il teorico che ha più coerentemente insistito su
tale aspetto dell’operare dei media, è stato Niklas
Luhmann che, in uno dei suoi ultimi libri, Die Realität der
Massenmedien (49),
concependo i media in termini costruttivistici" (come
"sistemi cognitivi"), ha affermato: "i sistemi cognitivi
non sono in grado di distinguere le condizioni dell’esistenza degli
oggetti reali dalle condizioni della loro conoscenza, perché
non hanno nessun accesso a questi oggetti reali indipendentemente
dalla conoscenza" (50).
Ponendoci da tale punto di vista, dovremmo allora ammettere che, dal
momento che i media condizionano la nostra conoscenza del culturalmente
altro, inevitabilmente lo concepiscono in base ai propri codici/schemi
costruttivi. Ciò non farebbe che generare reciproche incomprensioni
e malintesi (ma non bene-intesi); incomprensioni e malintesi che non
porterebbero neanche al "conflitto" – che è pur sempre
un contrasto che avviene sulla base di comuni regole accettate – ma
ad un infinito "torto" reciproco – che, come afferma Lyotard,
accade quando "le regole del genere di discorso secondo le quali
si giudica non sono quelle del genere del discorso giudicato"
(51).
Per
dare un’idea delle incomprensioni che, da tale punto di vista, possono
sorgere nelle relazioni tra individui appartenenti a culture "formate"
da media differenti, vorremmo citare un aneddoto e un esperimento
psicologico riportati da Derrick De Kerkhove nel suo Brainframes
(52).
L’aneddoto
narra di un topografo canadese (tale Michael Smart) che, accompagnato
da una guida algonchina (Amerinda), perlustra una zona boschiva dell’Ontario
settentrionale allo scopo di produrne una cartografia. "Ad un
certo punto – scrive De Kerkhove – Michael disse alla sua guida: ‘Hei,
ci siamo persi!’. La guida gli lanciò uno sguardo gelido e
rispose: ‘Non ci siamo persi, è il campo-base che si è
perso’. Michael si rese conto in un lampo di un aspetto fondamentale
che separava la sua visione del mondo da quella della sua guida –
per Michael, lo spazio era fisso ed egli era un agente che si muoveva
liberamente qua e là all’interno di esso […]. La guida, invece,
concepiva lo spazio come una dimensione interna anziché esterna
al corpo, un medium fluido e cangiante in cui non ci si poteva mai
perdere, in cui egli stesso costituiva l’unico punto fisso dell’universo
e all’interno del quale, anche movendo un passo dopo l’altro, non
c’era alcuno spostamento di fatto" (53).
L’altro
esempio, sempre riportato da De Kerkhove, è un esperimento
"neuro-culturale" molto interessante.
Osservate
i due rettangoli con diagonale della figura su riportata e chiedetevi
quale delle due diagonali sia quella ascendente e quale quella discendente.
Se il vostro medium di scrittura/lettura è l’alfabeto
latino allora la propensione a scrivere/leggere da sinistra verso
destra vi porterà a concludere che la linea ascendente è
quella di sinistra e quella discendente è nel rettangolo a
destra. "Nella psicologia occidentale – rileva De Kerkhove –
il passato sta a sinistra e il futuro sta dove procede la nostra scrittura,
cioè a destra" (54).
E ancora, "siamo continuamente creati e ricreati dalle nostre
stesse invenzioni. Il mito di una fondamentale uguaglianza universale
dell’umanità è solo il prodotto delle illusioni dei
filosofi del ‘700. La nostra realtà psicologica non è
cosa ‘naturale’. Essa dipende in parte dall’influsso che l’ambiente
esercita su di noi, compresi i nostri stessi prolungamenti
tecnologici" (55).
Partendo
da tale impostazione "costruttivista", il problema non verrebbe
risolto neanche se, come sembra accadere con i cosiddetti media
elettrici ed elettronici, culture profondamente diverse
utilizzassero gli stessi strumenti di comunicazione. È, infatti,
evidente, per quel che è stato fin qui affermato, che non sia
possibile decidere a priori che tali culture utilizzino i medesimi
media secondo modalità sovrapponibili. Tale difficoltà,
relativa al differente impatto dei media sulle diverse culture,
è stata sottolineata varie volte dallo stesso McLuhan. Una
cultura con forti elementi di "oralità" ed un’altra
fortemente alfabetizzata assimileranno diversamente l’introduzione
dei medesimi media della comunicazione.
Tuttavia,
l’impostazione "costruttivista", se portata alle sue estreme
conseguenze, rischia di giungere ad un radicale "relativismo"
culturale. Rischia, quindi, di concepire le culture come sistemi chiusi
e autoreferenziali. Ciò è storicamente e teoricamente
insostenibile. Le culture da un lato si sono formate attraverso continue
frammistioni e contaminazioni, dall’altro non sono strutture statiche
ma in continua trasformazione. Tuttavia, se il costruttivismo radicale
(e il suo relativismo astratto) deve essere rifiutato, non crediamo
sia giusto rigettarne la sua versione, per così dire, moderata.
Grazie agli studi "costruttivisti", infatti, siamo diventati
consapevoli delle diversità profonde (anche se non assolute)
tra culture e del "fatto" del loro "farsi torto"
e dei loro malintesi.
Il
dato delle incomprensioni ci fa, tuttavia, consapevoli anche di un
altro "fatto": la traduzione. Le culture, infatti,
pur nella reciproca incomprensione, si sono sempre reciprocamente
"tradotte" (e forse tradite). Il "fatto" della
traduzione non sconfessa il "fatto" dell’incomprensione,
ma, per così dire, lo dà per scontato. Per tale motivo
l’approccio traduttologico non è per forza di cose alternativo
a quello costruttivista. Si oppone solo alla sua versione "radicale".
Il presupposto della traduzione, infatti, è il punto d’arrivo
del costruttivismo "moderato": l’incomprensione tra
le culture.
Abbiamo
già visto come tradurre significa fare esperienza dell’alterità
dell’altro. Abbiamo anche riflettuto sul fatto che lo stesso "malinteso"
(se bene-inteso) possa essere concepito addirittura come un’occasione
di traduzione.
Partendo
da tali conclusioni possiamo ora affrontare più da vicino la
questione della mediazione culturale attraverso le reti telematiche.
- La comunicazione-via-computer e
la mediazione culturale
Non
possiamo passare in rassegna tutte le teorie sulla comunicazione
via computer (Computer Mediated Communication: CMC) che sono state
elaborate a partire dai primi anni Ottanta dello scorso secolo fino
ad oggi. Possiamo solo schematicamente ricordare che si è passati
da un paradigma "aziendalista", nell’ambito di studi tesi
a rendere la CMC quanto più efficiente ed efficace per gli
scopi produttivi, a vari paradigmi psico-sociali che utilizzano le
teorie dell’interazione sociale elaborate dai vari Mead e Goffmann
(56). Queste ultime teorie,
come abbiamo già sottolineato trattando del concetto goffmaniano
d’interazione strategica, si distinguono radicalmente dalle
prime perché partono dall’idea che ogni interazione comporti:
1) una messa in scena del Sé; 2) una trasformazione
del contesto. Anche nella comunicazione via computer, infatti, accade
(proprio come nella comunicazione "faccia a faccia") una
continua messa in scena di ruoli e di maschere psico-sociali; i ruoli
non sono fissi (se si escludono i rapporti "formali" di
tipo professionale e/o istituzionale) ma sono continuamente ri-negoziati
e ri-posizionati nel corso della tele-interazione. Ciò è
particolarmente evidente nel caso delle chat rooms e dei mud
(Multi users domain) (57).
Qui i partecipanti solo fino ad un certo punto nascondono, come si
è solito affermare, le loro vere identità sotto le maschere-ruolo
che di volta in volta si scelgono. In realtà, sarebbe più
corretto affermare che essi le "costruiscano" (continuamente
ri-negoziandole) attraverso la tele-interazione. D’altro canto lo
stesso contesto culturale della tele-interazione è continuamente
trasformato dalle azioni e dalle scelte dei partecipanti, è
continuamente modificato dalla loro interazione.
Nella
CMC accade, quindi, un’interazione sociale molto complessa, per molti
aspetti simile a quella che avviene nella comunicazione "faccia
a faccia". Tuttavia, rispetto a quest’ultima, vi sono alcune,
importantissime, differenze.
Innanzi
tutto, la CMC esclude la compresenza fisica dei corpi dei partecipanti.
Anche quando sarà compiutamente polisensoriale, la telepresenza,
come abbiamo già sottolineato, non sarà in grado di
"restituire" la connessione psico-fisica tipica della comunicazione
"faccia a faccia". La telepresenza è un’esperienza
"critica" che si fonda su di una nuova "contraddizione
cognitiva", che non sappiamo quali trasformazioni psico-culturali
potrà produrre sul lungo periodo.
In
secondo luogo, nella CMC, in particolar modo nel mondo delle chat
e dei Mud (diverso è il caso delle e-mail), non
è possibile distinguere tra comportamento e comunicazione
intenzionale (58). Nel
suo ambito sembra non valere il principio di Watzlavick secondo cui
non è possibile non-comunicare. In rete, per comportarsi
bisogna (tele)comunicare. I comportamenti di chi non
è on-line in una chat-room, letteralmente non ci sono;
chi non è on-line, semplicemente non esiste e il suo "silenzio"
non comunica nulla.
Assodato
tutto ciò, poniamoci ancora una domanda: se la rete consente
la creazione di luoghi d’interazione in cui le forme della comunicazione
equivalgono a forme di comportamento, che tipo di "luoghi"
sono le chat, i Mud, i newsgroup?
Per
cercare una risposta a tale domanda ci saranno molto utili due riflessioni
sui "luoghi-altri" della modernità, quella di Michel
Foucault sulle eterotopie (59)
e quella, molto più recente, di Marc Augé sui non-luoghi
(60).
Lo
scritto di Foucault sulle eterotopie, sugli spazi-altri è
del 1967. In esso il filosofo francese propone una riflessione di
ordine generale su una caratteristica che si ritroverebbe in ogni
società umana e in ogni cultura. Non v’è cultura e società
umana, afferma, che non tolleri accanto ai luoghi sociali per così
dire "normali", l’istituirsi di contro-spazi (reali
e simbolici ad un tempo) incompatibili coi primi. Nelle società
primitive ed arcaiche prevale una forma di eterotopia che Foucault
chiama "eterotopia di crisi": "luoghi privilegiati
o sacri o interdetti, riservati agli individui che si trovano, in
relazione alla società, e all’ambiente umano in cui vivono,
in uno stato di crisi [;] è il caso degli adolescenti, delle
donne nel periodo mestruale, delle partorienti, dei vecchi, ecc."
(61). Nelle società
moderne tali forme di eterotopie sono quasi scomparse, anche se ancora
erano visibili fino a qualche tempo fa: si pensi al collegio o al
servizio militare che nell’Ottocento erano i luoghi dove i ragazzi
facevano le loro prime esperienze sessuali; oppure a ciò che,
fino alla metà del Novecento, era il "viaggio di nozze"
per le giovani spose, spazio in cui doveva accadere la loro deflorazione.
Tali
eterotopie di crisi, nelle società moderne, sono state sostituite
da quelle di "deviazione". È questo un tema come
si sa molto caro a Foucault. Queste eterotopie sono "quelle nelle
quali vengono collocati quegli individui il cui comportamento appare
deviante in rapporto alla media e alle norme imposte [;] si tratta
delle case di riposo, delle cliniche psichiatriche e si tratta, anche,
ben inteso, delle prigioni" (62).
Foucault
elenca, quindi, una serie di principi di funzionamento sociale e culturale
delle eterotopie. Tra questi i più importanti per la nostra
indagine sono i seguenti:
- L’eterotopia "ha il potere
di giustapporre, in un unico luogo reale, diversi spazi, diversi
luoghi che sono tra loro incompatibili" (63);
- Le eterotopie sono molto spesso
anche eterocronie: "l’eterotopia si mette a funzionare
a pieno quando gli uomini si trovano in una sorta di rottura assoluta
con il loro tempo tradizionale" (64);
nella società moderna e poi contemporanea tale intreccio
spazio-temporale si è per così dire polarizzato
in una contrapposizione tra eterotopie del tempo che si accumula
all’infinito, come ad esempio i musei e le biblioteche,
e quelle del "passatempo" che sono spazi-altri correlati
all’aspetto futile, passeggero e precario del tempo; nel mondo
medievale e moderno un esempio di tale genere è da ritrovare
nelle fiere che, alcune volte l’anno, ai margini della
città, si popolavano "di baracche, di vetrine, di
oggetti eterocliti, di lottatori, di donne-serpenti, di indovine,
ecc." (65); nella
nostra contemporaneità un esempio di tale genere lo troviamo
nei villaggi di vacanze, "in quei villaggi polinesiani
che offrono tre brevi settimane di nudità primitiva ed
eterna agli abitanti delle città" (66);
- Le eterotopie "presuppongono
sempre un sistema d’apertura e di chiusura che, al contempo, le
isola e le rende penetrabili" (67);
- L’esistenza delle eterotopie agisce
sugli spazi sociali "normali" inducendo in essi delle
trasformazioni; quest’azione trasformante "si dispiega tra
due poli estremi" (68):
esse possono, infatti, "creare uno spazio illusorio che indica
come ancor più illusorio ogni spazio reale: tutti quei
luoghi all’interno dei quali la vita umana è relegata"
(69); esse possono,
al contrario, creare "un altro spazio, uno spazio reale,
così perfetto, così meticoloso, così ben
arredato al punto da far apparire il nostro come disordinato,
maldisposto e caotico" (70).
Fin
qui Foucault. Domandiamoci ora se i "luoghi d’incontro virtuali"
on-line possano essere considerati delle eterotopie (e delle
eterocronie). Ritengo che la risposta possa essere in buona
parte positiva. Il concetto foucaultiano d’eterotopia è d’estrema
utilità per la nostra indagine. È anche evidente, per
quanto finora detto, che alcune importanti puntualizzazioni debbano
essere apportate. Innanzi tutto, a differenza delle eterotopie descritte
da Foucault, i "luoghi" d’interazione resi possibili dalla
rete non sono luoghi fisici, anche se, non per questo, sono
da considerarsi meno reali. Inoltre, se si pone mente all’importanza
strategica delle comunicazioni in rete per l’economia globalizzata,
è difficile considerare gli spazi d’interazione on-line ipso
facto come "spazi-altri" e "contro-luoghi",
anche se è evidente che, come in parte la pratica hacker
ci attesta (71), essi
possono anche diventarlo, e ciò anche dal punto di vista della
loro caratterizzazione temporale (72).
Infine, i "luoghi" della rete, le chat, i mud
ecc. non possono rientrare nella rigida dicotomia proposta da Foucault,
"eterotopie di crisi" o "eterotopie di deviazione",
benché, forse, per alcuni loro aspetti, possono far ricordare
ora l’una, ora l’altra. Del resto lo stesso discorso foucaultiano,
pur prendendo avvio da quella dicotomia, sembra emanciparsene (i musei,
le biblioteche, le fiere, i villaggi di vacanze ecc., non credo possano
facilmente rientrare nella categorie delle eterotopie di deviazione
insieme al manicomio e al carcere!). È evidente che alla descrizione
foucaultiana manca una terza categoria di eterotopia/eterocronia.
Passiamo,
ora, al concetto di non luogo elaborato da Marc Augé.
Per
comprendere tale concetto bisogna partire da quello opposto di "luogo
antropologico". Augé, riprendendo un concetto di Michel
de Certeau (73), utilizza
quest’espressione per indicare quegli spazi reali e simbolici ad un
tempo che contribuiscono alla costituzione dell’identità,
del proprio delle diverse culture. Tali luoghi sono ad esempio
la propria casa, il proprio quartiere, il proprio villaggio, la propria
città, insomma tutto ciò che ci parla delle generazioni
che ci hanno preceduto e da cui abbiamo ricevuto il nome. Il luogo
antropologico, osserva Augé, "è simultaneamente
principio di senso per coloro che l’abitano e principio di intelligibilità
per colui che l’osserva" (74).
Questi luoghi "hanno almeno tre caratteri comuni [:] si vogliono
(li si vuole) identitari, relazionali e storici" (75).
Essi, cioè, coniugano identità e relazione, sono quella
stabilità culturale minima a partire dalla quale è possibile
relazionarsi agli altri. "Beninteso – osserva Augé – lo
status intellettuale del luogo antropologico è ambiguo [;]
esso è solo l’idea, parzialmente materializzata, che coloro
che l’abitano si fanno del loro rapporto con il territorio, con i
loro vicini e con gli altri [;] questa idea può essere parziale
o mitizzata [,] varia con il posto e il punto di vista che ciascuno
occupa" (76), ma
allorché tale riferimento sparisce tale assenza "non si
colma facilmente" (77).
Essi sono comunque un sistema di orientamento sia per coloro che lo
abitano sia per coloro (gli antropologi) che cercano di comprenderlo
attraverso l’interpretazione dei suoi caratteri.
Ciò
che Augé denomina "surmodernità" si caratterizza,
invece, per la proliferazione di spazi sociali completamente opposti,
di non luoghi per l’appunto. Le vie aeree, gli aeroporti, le
stazioni ferroviarie, gli ipermercati, le reti di telecomunicazione
sono tali non-luoghi: "se un luogo può definirsi come
identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi
né identitario né relazionale né storico, definirà
un non-luogo" (78).
Analizzando
i non-luoghi della nostra contemporaneità, Augé
tende ad evidenziarne soprattutto gli aspetti "critici"
e negativi. I non-luoghi sono solo luoghi di transito, luoghi
in cui non è possibile sperimentare alcuna relazione identitaria.
L’unica forma di identità sociale e culturale che in essi vale
è l’identificazione in entrata e in uscita, identificazione
puramente economica o di polizia o di un misto di tali due forme.
Per comprenderlo basti pensare al pedaggio autostradale o al controllo
dei passaporti nei grandi aeroporti internazionali, o ancora agli
ipermercati. "qui il cliente circola silenziosamente, consulta
le etichette, pesa la verdura o la frutta su di una macchina che unitamente
al peso gli indica il prezzo, poi tende la sua carta di credito ad
una ragazza anch’essa silenziosa, o poco loquace, che sottopone ogni
articolo alla registrazione di una macchina decodificatrice prima
di verificare la validità della carta di credito" (79).
Insomma, "lo spazio del non-luogo non crea né identità
singola, né relazione, ma solitudine e similitudine" (80).
Nonostante
la messa in evidenza degli aspetti destrutturati e critici dell’esperienza
dei nonluoghi, Augé ad un certo punto cambia registro
facendo un’osservazione molto interessante per la nostra indagine.
Egli la definisce come il paradosso del non-luogo: "lo straniero
smarrito in un Paese che non conosce (lo straniero ‘di passaggio’)
si ritrova soltanto nell’anonimato delle autostrade, delle stazioni
di servizio, dei grandi magazzini o delle catene alberghiere. L’insegna
di una marca di benzina costituisce per lui un punto di riferimento
rassicurante ed è con sollievo che ritrova sugli scaffali del
supermercato i prodotti sanitari e alimentari o i casalinghi consacrati
dalle marche multinazionali" (81).
Quest’osservazione è effettivamente paradossale. Ci dice qualcosa
che sfugge alla solita dicotomia tra locale e globale e di cui lo
stesso Augé non sembra cogliere fino in fondo le implicazioni.
Ci fa intravedere un orizzonte nello stesso tempo "de-simbolizzato",
an-identitario, popolato solo da puri marchi, puri simulacri di senso
che, al contempo, sembrano acquisire, in quel non-luogo, un
aspetto domestico solo per il fatto che vengono "riconosciuti".
È interessante tutto ciò. Se interpretiamo correttamente,
questo riconoscere/riconoscersi (ne)i loghi dei non-luoghi,
non sembra avere una funzione destrutturante. Attraverso i loghi
che popolano i nonluoghi, non solo l’individuo transitante
vi si riconosce, ma può riconoscere gli altri anche se solo
attraverso l’esteriore generica somiglianza di transitanti.
È quasi come un ritrovare una condizione umana comune e generica,
condizione che non ha storia, né senso, né passato né
futuro, ma solo quel transitante presente (82).
È forse solo un pregiudizio sessile (83)
quel che ci fa considerare tali nonluoghi solo nel loro
(pur reale) aspetto negativo/destrutturante. Ma è anche vero
che l’esperienza dei nonluoghi è un’esperienza che sembra
aver bisogno dei luoghi dell’identità (relativa) e della
stabilità (precaria) (84).
Non è un caso che la navigazione telematica si faccia prevalentemente
dalle proprie case, dai propri "rifugi" domestici. Una vita
completamente "autostradale" ed "ipermercatica"
(si scusi il neologismo) sarebbe l’inferno. Abbiamo bisogno di poter
scegliere i tempi del transito e dell’incontro "transitorio"
con gli altri, e lo possiamo solo potendo contare sui luoghi della
nostra identità (più o meno traballante). Rispetto ai
nostri luoghi identitari i nonluoghi sono simili a quella "terra
di nessuno" che si apre fra le frontiere e in cui è possibile
mettere in gioco le proprie identità.
Certo,
se dal piano delle relazioni individuali si passa a quello delle culture
le cose si complicano. Le culture tendono a mantenere le loro differenze
e le loro caratteristiche; "se i singoli individui possono tradire
– ha scritto Fernand Braudel – […] le civiltà continuano a
vivere di vita propria, aggrappate ad alcuni punti fissi e quindi
inalienabili" (85).
Tuttavia è vero anche che le civiltà si trasformano
attraverso l’incontro contaminante con le altre. Ciò di sicuro
non condurrà alla realizzazione di una sorta di comprensione
universale tra gli uomini (che è un’illusione etnocentrica)
ma probabilmente a forme di pacifica convivenza o, com’è spesso
accaduto, a forme di reciproca contaminazione.
Ritorniamo
ora alla comunicazione mediata dal computer, cercando di mettere a
frutto le argomentazioni svolte a partire da Foucault e da Augé.
Secondo
gran parte degli studi psico-sociologici condotti negli ultimi anni,
specie in area anglosassone, le reti telematiche hanno prodotto sia
l’aggregarsi e l’affermarsi di microculture specialistiche tra cui
è elevata la possibilità del (cosiddetto) flaming
(cioè del conflitto violento e repentino), sia l’entrata in
contatto di gruppi e comunità culturalmente molto distanti;
detto diversamente, la CMC creerebbe o una sorta di "cyberbalcanizzazione"
(86) o favorirebbe la
creazione di vere e proprie "comunità virtuali" (87).
Secondo
altri sociologi, invece, la CMC può svolgere un ruolo molto
importante nell’estendere ciò che l’analisi dei reticoli
sociali (network analysis) (88)
chiama "legami deboli". Secondo Paccagnella, "considerato
l’elevato investimento emotivo richiesto dai legami forti, il loro
numero tende ad essere relativamente stabile in qualunque condizione
[;] al contrario, il bacino di legami deboli cui una persona può
attingere può ampliarsi enormemente con l’uso di mezzi di comunicazione
come Internet" (89).
La CMC, da tale punto di vista, non deve essere considerata una forma
di comunicazione alternativa o sostitutiva rispetto a quelle "faccia
a faccia", ma come una forma concretamente interconnessa a tutte
le altre forme quotidiane di interazione umana. "Questi studi
mostrano – è sempre Paccagnella che scrive – come relazioni
on-line e relazioni off-line siano sistemi intercomunicanti: in generale,
le persone che si conoscono e diventano amiche via rete finiscono
spesso per incontrasi anche faccia a faccia e per tenersi in contatto
tramite mezzi di comunicazione tradizionali come la posta o il telefono"
(90). A volte la CMC è
solo un primo indispensabile approccio, come sembra confermare ad
esempio il progetto Shwashlock, realizzato a Los Angeles nel
1995 dal "Public Electronic Network", che ha permesso una
prima reciproca conoscenza tra cittadini "per bene" e homeless:
"in questo caso il mezzo telematico, mediando la difficoltà
del primo incontro, ha reso disponibile un’opportunità in più
di contatto tra persone diverse, di solito irrimediabilmente estranee
e separate nella vita di tutti i giorni" (91).
Questa
concezione della CMC s’integra perfettamente con quanto finora argomentato.
Negli eterotopici nonluoghi che la Rete produce è possibile
fare frontiera; è possibile, in altre parole, che individui
appartenenti a culture diverse, partendo dalla messa in scena dei
rispettivi stereotipi, possano fare esperienza di traduzione,
dando inizio ad un processo di con-fronto e reciproca trasformazione,
che se da solo non risolve tutti i possibili conflitti tra le culture,
è di sicuro l’unica strada per tentare di ridurli. Come i "pregiudizi",
secondo la nota argomentazione di Gadamer (92),
non possono essere eliminati, ma resi coscienti di sé, così
gli stereotipi e i cliché marcano l’ouverture
d’ogni incontro tra le culture. Affinché ciò sia possibile,
occorre che tra le culture si faccia frontiera e non si lavori per
la costruzione d’invalicabili "confini"; "bisogna domandarsi
– scrive La Cecla – se c’è un modo di fare le frontiere
invece dei confini che faccia di questi un luogo e non un’assurda
linea. Se le frontiere sono "il faccia a faccia" tra due
compagini, due culture, due paesi, allora è fondamentale che
esse "abbiano luogo" perché siano davvero filtro
e palcoscenico della differenza. Le frontiere dovrebbero essere il
luogo dove il confronto sostituisce lo scontro, dove la relazione
può essere appagata nella indifferenza della terra di nessuno
o nella differenza delle demarcazioni oltre le quali si trova l’altro,
lo straniero a noi" (93).
I
nonluoghi della Rete, quindi, possono dare opportunità
di mediazione culturale innanzi tutto attraverso la messa in scena
di quella forma di malinteso che Jankelevich chiamava "malinteso
(doppiamente) bene-inteso", in altre parole dello stereotipo.
Quest’ultimo è definibile come l’immagine che una cultura dà
di sé agli altri, come una messa in scena per turisti e per
stranieri; ma è una maschera che da un lato serve, alla cultura
che la esibisce, come protezione rispetto all’estraneo, dall’altro,
tuttavia, esprime anche ciò che quella stessa cultura accetta
che gli altri pensino di essa. Per tale motivo, potremmo affermare
che, negli stereotipi, è implicita l’accettazione dello sguardo
dell’altro, tanto quanto la protezione dallo stesso. E in tale
doppio aspetto di "apertura" (relativa) e d’auto-protezione,
essi possono essere l’avvio di processi di inter-traduzione
culturale.
La
rete può fornire numerose occasioni in tale senso. A patto
di concepire il cyberspazio non come un mondo chiuso in se stesso,
ma come universo di scambi individuali e culturali fatto di "legami
deboli" interconnessi al complesso tessuto delle interazioni
psico-sociali. Lo sviluppo della CMC può essere addirittura
uno strumento indispensabile all’interno delle nostre società
multiculturali. Come sottolinea Paccagnella, "le reti di legami
deboli svolgono funzioni spesso sottovalutate [;] a livello micro,
chi ha pochi legami deboli è escluso da notizie e opportunità
che non siano quelle peculiari del proprio gruppo; a livello macro,
una società con pochi legami deboli è una società
frammentata, incoerente, in cui le idee viaggiano lentamente"
(94). È quindi
una società dove le relazioni tra i diversi gruppi etnici rischiano
sempre di dar luogo al conflitto e al torto reciproco.
- Ponti e altre macchine metaforiche
È
possibile che i nonluoghi telematici possano divenire luoghi
di mediazione culturale? La risposta (provvisoria) l’abbiamo
già data, in positivo. Attraverso le reti è possibile
contribuire alla costituzione di nonluoghi comuni di transito,
in cui il "navigante" possa incontrare l’altro
nella sua differenza, fino a considerarlo come un uguale
perché, come lui, come tutti, diverso, straniero.
Nelle reti si potrebbe far esperienza di una condizione comune
d’estraneità: l’altro è a me somigliante in quanto,
come me (rispetto a lui), straniero.
Poniamoci,
ora, un’ultima domanda. Qual potrebbe essere il ruolo del mediatore
culturale nelle reti? La risposta è, a nostro parere,
duplice. Da un lato potrebbe svolgere un ruolo d’ideazione e d’organizzazione
di spazi virtuali (siti, mailing-lists, newsgroups) in cui concretamente
produrre occasioni di mediazione tra culture diverse. Dall’altro
lato – e quest’aspetto è per chi scrive quello più
importante – egli dovrebbe lavorare alla creazione di vere e proprie
macchine metaforiche, che possano contribuire a rendere meno
"esproprianti" i nonluoghi delle reti. Tali "macchine
metaforiche" dovrebbero avere come punto di partenza il "fatto"
dell’incomprensione tra le culture e, quindi, la consapevolezza
della enorme difficoltà della creazione di metafore culturali
trans-culturali. L’abbandono di tale illusione etnocentrica è
il presupposto per la definizione di tali "macchine metaforiche",
che non sono metafore ma luoghi di "transito metaforico".
Come i loghi che popolano le eterotopie della nostra post-modernità,
esse non dovranno significare altro che il transito, il loro
stesso essere transiti, ma transiti riconoscibili, in qualche
modo comuni e, paradossalmente, domestici.
Se
non ci fossero i ponti, le città, i quartieri, le
diverse comunità si chiuderebbero in un’autoreferenzialità
identitaria incapace di riconoscere l’altro come altro. E
i ponti sono forse l’unica costruzione che si ritrova in tutte le
epoche della storia dell’umanità e in ogni cultura. Abbiamo
smesso da tempo di costruire cattedrali, ma non smettiamo di costruire
ponti. Forse perché il ponte non significa altro che se stesso,
il suo "rendere possibile il transito".
C’è
un passo di Heidegger, sulla cosa-ponte, che merita di essere
qui riportato, anche perché in esso il pensatore tedesco
sembra, ad un certo punto, e sorprendentemente, abbandonare il suo
solito tono altmodisch, concedendo un importante spunto teoretico
alla nostra ricerca. "Il ponte – scrive Heidegger – lascia
libero corso al fiume e insieme garantisce ai mortali la via attraverso
cui possono andare da una regione all’altra. I ponti conducono
in vari modi. Il ponte della città collega il quartiere
del castello alla piazza della cattedrale, il ponte di accesso al
capoluogo avvia vetture e carri verso i villaggi del circondario.
Il vecchio e poco appariscente ponte di pietra che attraversa un
piccolo corso d’acqua dà il passaggio al carro del raccolto
che va dalla campagna al villaggio, e conduce il carico di legname
dal sentiero di campagna alla strada principale. Il ponte d’autostrada
è una maglia della rete delle grandi correnti di traffico,
rette dal calcolo e dal principio della massima rapidità.
In ognuno di questi casi, e in modi sempre diversi, il ponte
conduce su e giù gli itinerari esitanti o affrettati degli
uomini, permettendo loro di giungere sempre ad altre rive e, da
ultimo, di passare, come mortali, dall’altra parte" [sottolineatura
nostra] (95).
È
interessante che Heidegger annoveri anche i ponti autostradali,
nonluoghi secondo Augé, tra le diverse modalità
d’essere (e di "conduzione") della cosa-ponte.
È interessante poiché sembra accordarsi appieno con
quanto prima argomentato a proposito dell’essenza del ponte
coincidente con la sua transitività (e transitorietà).
Ecco,
i mediatori culturali in rete dovrebbero lavorare alla costruzione
di macchine metaforiche la cui essenza consista, come nel
caso del ponte, nel loro rendere possibili a chi le usa (riconoscendole
come comuni) di andare, se lo vuole, "dall’altra parte".
È necessario, cioè, che si agisca non sull’illusorio
piano dei "contenuti" culturali da "tradurre"
da una cultura ad un’altra (come decidere quali siano, tra essi,
quelli "universali" o universalizzabili?) ma sul piano
dei contesti comunicativi, sul piano dell’individuazione
dei presupposti meta-culturali delle possibili interazioni, su ciò
che Livio Rossetti ha acutamente definito la formattazione
dell’evento comunicativo (96).
La costruzione di macchine metaforiche rientra appieno in
tale compito (anche se non vi s’identifica). Come ogni altra macchina
esse potranno essere utilizzate secondo i fini propri di ciascuno
ma sempre per "passare dall’altra parte".
Forse
non vi sono metafore trans-culturali, forse ogni cultura trova la
sua origine in alcune metafore fondamentali intraducibili l’una
all’altra, o forse anche questo, col procedere della globalizzazione,
finirà con lo scomparire, ma né l’una né l’altra
possibilità contraddirebbe la creazione di tali macchine.
Anche perché il loro valore deriverebbe dal loro uso; solo
se utilizzate esse mostrerebbero la loro necessità.
Qualcosa
di simile alla costruzione di macchine metaforiche possiamo ritrovarlo
nel lavoro di alcuni "artisti della comunicazione" (97).
Come (provvisoria) conclusione del nostro discorso è proprio
a due operazioni di tale genere che vorrei rimandare, anche per
evidenziare le possibili linee di convergenza operativa tra "mediazione
culturale" e attività di sperimentazione artistica all’interno
delle reti di telecomunicazione.
La
prima operazione è un progetto telecomunicazionale dell’artista
greco Mit Mitropoulos, realizzato nel 1986 e intitolato Line
of Horizon.
Definito
da lui stesso un "progetto d’arte geopolitica", consistette
in uno scambio fax di disegni delle linee dell’orizzonte
realizzati da artisti di diverse città delle rive del Mediterraneo
(vedi figg.)
La
seconda operazione è quella realizzata da Maurizio Bolognini
nel 1997 e intitolata Antipodi. Collegandosi a webcam localizzate
in Nuova Zelanda, Bolognini ottenne che queste, per qualche giorno,
fossero "rovesciate" in modo da adottare il "punto
di vista" di un abitante dell’emisfero terrestre superiore (vedi
fig.).
In
entrambi i casi abbiamo a che fare con la costruzione di macchine
metaforiche il cui senso riposa nella messa in evidenza di alcuni
presupposti comuni alle diverse culture umane: l’esperienza
dell’orizzonte, nel primo caso, l’esperienza del pregiudizio,
nel secondo.
Non
è un caso che entrambe siano, fondamentalmente, esperienze
dell’altro. Nell’unico, ambivalente senso possibile: esperienze
sia dell’inappropriabilità dello sguardo dell’altro,
sia della sua imprescindibilità per la stessa "definizione"
del proprio.
Il
mediatore tra le culture sa che l’ambivalenza con cui l’estraneo
appare è la stessa che alligna nel cuore del proprio.
________________________________________________________________________________
(1) M. McLuhan, Understanding
Media, tr. it. di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare,
Milano, Garzanti, 1977, p. 12; per una interpretazione filosofica generale
dell’opera del sociologo canadese vedasi utilmente C. Di Martino, Il
medium e le pratiche, Milano, Jaca Book, 1998.
(2) Riguardo a tale classificazione
cfr. W. Ong, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word,
a cura di R. Loretelli, Oralità e scrittura. Le tecnologie
della parola, Bologna, Il Mulino, 1986.
(3) Secondo J.F. Lyotard,
"un torto è prodotto dal fatto che le regole del genere
di discorso secondo le quali si giudica non sono quelle del o dei generi
di discorso giudicato/i" (J. F. Lyotard, Le différend,
tr. it. di A. Serra, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 11).
(4) P. Watzlawick, J. Helmick
Beavin, Don D. Jackson, Pragmatic of human communication. A study
of interactional patterns, pathologies, and paradoxes, tr. it. di
M. Ferretti, Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli
interattivi, delle patologie e dei paradossi, Roma, Astrolabio-Ubaldini
editore, 1971, pp. 41-42.
(5) Sulle diverse dimensioni
del silenzio cfr. utilmente anche M. Baldini (a cura di), Le dimensioni
del silenzio nella poesia, nella filosofia, nella musica…, Roma,
Città Nuova editrice, 1988.
(6) J. Habermas, Theorie
des kommunikativen Handelns, 1, Handlungsrationalität und gesellschaftliche
Rationalisierung, tr. it. di P. Rinaudo, Teoria dell’agire comunicativo:
I. Razionalità nell’azione e razionalizzazione sociale, Bologna,
Società editrice il Mulino, 1986.
(7) A. Marcarino, Sociologia
dell’azione comunicativa, Napoli, Guida editori, p. 47.
(8) Secondo Habermas, i
"parlanti" "non fanno più riferimento in modo
diretto a qualcosa nel mondo oggettivo, sociale o soggettivo, bensì
relativizzano la loro espressione alla possibilità che la sua
validità sia contestata da altri attori […]. Con questo modello
di azione si suppone che i partecipanti all’interazione mobilitino espressamente
il potenziale di razionalità […] per perseguire in modo cooperativo
l’obiettivo dell’intendersi" (J. Habermas, Op. cit.,
pp. 175-176).
(9) Vedi E. Goffman, Interaction
Ritual, tr. it., Modelli di interazione, Bologna, Il Mulino,
1971; di Goffman vedasi anche il noto The Presentation of Self in
Everyday Life, tr. it., La vita quotidiana come rappresentazione,
Bologna, Il Mulino, 1969.
(10) Concetto, questo,
sviluppato negli studi d’orientamento etnometodologico (H. Garfinkel,
Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs, Prentice Hall,
1967; vedasi anche P. P. Giglioli – A. Dal Lago (a cura di), Etnometodologia,
Bologna, Il Mulino, 1983).
(11) Vedi E. Goffmann,
Modelli di interazione, cit., pp. 7-47.
(12) P. Ricoeur, Le
paradigme de la traduction, tr. it. di M. Gasbarrone, Il paradigma
della traduzione, in P. Ricoeur, La traduzione. Una sfida etica,
a cura di Domenico Jervolino, Brescia, Morcelliana, 2001, pp. 51-74.
(13) Ibidem,
p. 67.
(14) M. Cacciari, L’Arcipelago,
Milano, Adelphi, 1997, p. 33.
(15) Sulla questione
dell’ospitalità e delle parole hostis e hospes
vedi, essenzialmente, E. Benveniste, Le vocabulaire des institutions
indo-européennes, edizione italiana a cura di M. Liborio,
Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi,
1976, pp. 64-75.
(16) F. La Cecla, Il
malinteso. Antropologia dell’incontro, Roma-Bari, Laterza, seconda
ed., 1998, p. 111.
(17) Su tale questione
cruciale cfr. J. Derrida, De l’hospitalité, con A. Dufourmantelle,
Paris, Calmann-Lévy, 1997; tr. it. di L. Landolfi, Sull'ospitalità.
Le riflessioni di uno dei massimi filosofi contemporanei sulle società
multietniche, Milano, Baldini & Castaldi, 2000; sulla più
ampia riflessione etica derridiana cfr. il chiaro studio di C. Resta,
Le leggi dell’ospitalità. Etica e politica nell’ultimo Derrida,
in Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della
mondializzazione (a cura di Luisa Bonesio), Bologna, Arianna editrice,
2000, pp. 27-54.
(18) Citato da P. Ricoeur,
Il paradigma della traduzione, cit., p. 66.
(19) W. Jankelevitch,
Le je-ne-sais-quoi et le presque-rien, tr. it. di C.A.Bonadies,
Il non so che e il quasi niente, Genova, Marietti, 1987.
(20) Jankelevitch distingue
quattro tipi di malinteso: 1) il doppio malinteso; 2) L’inganno; 3)
Il malinteso beninteso; 4) Il malinteso doppiamente beninteso. Solo
nelle ultime due forme esso può divenire, come sottolinea La
Cecla, occasione di "incontro" tra le culture.
(21) F. La Cecla, Il
malinteso, cit., p. 9.
(22) P. Zanini, Il
significato del confine, Milano, Bruno Mondatori, 1997.
(23) F. La Cecla, Op.cit.,
p. 133.
(24) Ibidem,
p. 134.
(25) Cfr. su ciò
l’interpretazione mcluhaniana di C. Di Martino, Il medium
e le pratiche, cit., pp. 24 sgg.; cfr. anche R. Ronchi, La scrittura
della verità. Per una genealogia della teoria, Milano, Jaca
Book, 1996; entrambi gli studi prendono le mosse da alcuni importanti
lavori teoretici di Carlo Sini (Etica della scrittura, Milano,
Il Saggiatore, 1992; Filosofia e scrittura, Bari, Laterza, 1994).
(26) "Non possiamo
escludere il suono automaticamente. Non siamo dotati di palpebre alle
orecchie. Mentre lo spazio visivo è una continuità organizzata
di tipo uniforme e connesso, il mondo uditivo è un mondo di rapporti
simultanei" (M. McLuhan – Q.Fiore, The medium is the massage,
tr. it. di R. Petrillo, Il medium è il massaggio; Milano,
Feltrinelli, 1968, p. 112.
(27) "Tra le grandi
unioni ibride che generano furiosi scatenamenti d’energia, nessuna supera
per importanza l’incontro tra culture letterarie e culture orali. Il
fatto che l’alfabeto fonetico abbia dato all’uomo un occhio in cambio
di un orecchio rappresenta probabilmente, sul piano sociale e politico,
la più radicale esplosione che si possa dare in una struttura
sociale. […] Adesso che l’alfabetismo sta per ibridare la cultura della
Cina, dell’India e dell’Africa, ci prepariamo ad assistere a un tale
scarico di energie umane e di violenza aggressiva da far sembrare quasi
insulsa la precedente storia della tecnologia dell’alfabeto fonetico"
(M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, cit., p. 55).
(28) Secondo McLuhan
tra i media vi è sempre connessione, per cui l’introduzione
di un nuovo medium provoca non solo una ristrutturazione del
sensorio umano ma produce una ristrutturazione dell’intero sistema
dei media ("Ciò che voglio dire è che i media,
in quanto estensioni dei nostri sensi, quando agiscono l’uno sull’altro,
istituiscono nuovi rapporti, non soltanto tra i nostri sensi, ma tra
loro", ibidem, pp. 58-59).
(29) Ibidem,
p. 62.
(30) "L’accelerazione
dell’era elettronica è per l’uomo occidentale, alfabeta e lineare
[…] un’implosione improvvisa e una fusione tra spazio e funzioni. La
nostra civiltà specialistica e frammentaria, con struttura centro-marginale,
vede improvvisamente e spontaneamente tutti i suoi frammenti meccanizzati
riorganizzarsi in un tutto organico. È questo il nuovo mondo
del villaggio globale" (ibidem, p. 98).
(31) "I circuiti
elettrici hanno rovesciato il regime del tempo e dello spazio e riversano
su di voi istantaneamente e continuamente le preoccupazioni di tutti
gli altri uomini. Hanno ricostituito il dialogo su scale globale. Il
loro messaggio è la Trasformazione Totale, che mette fine al
parrocchialismo psichico, sociale, economico e politico. I vecchi raggruppamenti
comunali, provinciali e statali non funzionano più […]. Non si
può più tornare a casa." (M. McLuhan – Q. Fiore,
Il medium è il massaggio, cit., p. 16).
(32) J. Steuer, Definire
la Realtà virtuale: le dimensioni che determinano la telepresenza,
tr.it. a cura di C. Galimberti e G. Riva, in La comunicazione virtuale.
Dal computer alle reti telematiche: nuove forme di interazione sociale,
Milano, Guerini e Associati, 1997, p. 58.
(33) M. Costa, Estetica
dei media. Avanguardie e tecnologia, Roma, Castelvecchi editore,
1999, p. 42.
(34) La performance
intitolata Telephonic Arm-Wresting fu realizzata per la prima
volta a Salerno durante il convegno Artmedia II; su tale evento
vedi N. White, Telephonic Arm Wrestling, in L’estetica della
comunicazione, a cura di M. Costa, Salerno, Palladio editrice, 1987,
pp. 173-178; cfr. inoltre M. Costa, Il sublime tecnologico. Piccolo
trattato di estetica della tecnologia, Roma, Catelvecchi editore,
1998, pp. 63 sgg.;
(35) Vedi V. Cuomo, Meta(tele)comunicazione
e ritualità, in L’estetica della comunicazione. Come il
medium ha polverizzato il messaggio. Sull’uso estetico della simultaneità
a distanza, a cura di M. Costa, Roma, Castelvecchi editore, 1999,
pp. 123-137.
(36) J. Derrida, Fede
e sapere. Le due fonti della "religione" ai limiti della semplice
ragione, tr. it. di A.Arbo, in Annuario filosofico europeo,
La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza,
1995, pp. 3-73.
(37) Ibidem,
p. 4.
(38) J.
Derrida – B. Stiegler, Échographies de la télevision,
tr. it. di L. Chiesa, Ecografie della televisione, Milano, Raffaello
Cortina Editore, 1997, p. 87.
(39)
"Lo stesso movimento che rende indissociabili religione e ragione
teletecnoscientifica, nel suo aspetto più critico, reagisce inevitabilmente
a se stesso. Secerne il suo antidoto, ma anche il suo potere
di autoimmunità. Siamo in uno spazio in cui ogni autoprotezione
dell’indenne, del sano e salvo, del sacro (heilig, holy)
deve proteggersi dalla propria protezione, dalla propria polizia, dal
proprio potere di rigetto, dal proprio semplicemente, cioè dalla
propria autoimmunità. È questa terrificante ma fatale
logica dell’autoimmunità dell’indenne che assocerà
sempre Scienza e Religione"
(J. Derrida, Fede e sapere, cit., pp. 47-48).
(40) Nella
religione, secondo Derrida, bisognerebbe rendere ragione "anche
di un doppio postulato apparente: da una parte il rispetto assoluto
per la vita, il ‘non ucciderai’ (almeno il tuo vicino, se non il vivente
in generale), il divieto ‘integralista’ sull’aborto, l’inseminazione
artificiale, l’intervento performativo nel potenziale genetico, sia
pure a fini di terapia genetica, ecc. e dall’altra parte (anche
senza parlare delle guerre di religione, del loro terrorismo e delle
loro uccsioni) la vocazione sacrificale, anch’essa universale"
(Ibidem, p. 56). A motivo di tale essenza sacrificale, nella
religione, sottolinea Derrida, la vita non vale se non in quanto
(in essa si manifesta) il più della vita (la divinità,
la legge divina). Perciò la religione porta in sé anche
un movimento di auto-indennizzo, di indennizzo dal suo stesso indennizzo
della vita.
(41) J.
Goody, Representations and Contradictions. Ambivalence Towards Images,
Theatre, Fiction, Relics and Sexuality, tr. it. di M. Gregorio,
L’ambivalenza della rappresentazione. Cultura, ideologia, religione,
Milano, Feltrinelli, 2000. Su tale testo cfr. la recensione del sottoscritto
in Kainos. Rivista telematica di critica filosofica, n° 1, L’immagine,
2000-01, (www.kainos.it).
(42) Ibidem,
p. 34. Sull’ambivalenza fenomenologica dell’immagine cfr. le
importanti chiarificazioni di Eugen Fink contenute nello scritto Vergegenwärtigung
und Bild. Beiträge zur Phänomenologie der Unwirklichkeit
(1930), in Studien zur Phänomenologie. 1930-1939, Den Haag,
Nijhoff, 1966, tr. it. parz. a cura di Gabriella Baptist, Presentificazione
ed immagine. Contributi alla fenomenologia dell’irrealtà,
in Kainos. Rivista telematica di critica filosofica, n° 1, L’immagine,
cit.
(43) J.Goody, Op.cit.,
p. 34.
(44) Sul rapporto speculare
tra iconofilia e iconoclastia cfr. J. J. Wunenburger, Philosophie
des images, tr. it. di S. Arecco, Filosofia delle immagini,
Torino, Einaudi, 1999 (in particolare il capitolo IV); su tale testo
cfr. la recensione di Aldo Meccariello in Kainos. Rivista telematica
di critica filosofica, n° 1, L’immagine, cit.; nella stessa
rivista cfr. anche il saggio di G. Patella, Lo statuto dell’immagine
tra icona e simulacro.
(45) J. Goody, Op.
cit., p. 234.
(46) Ivi.
(47) F. La Cecla, Il
malinteso, cit., p. 111.
(48) Vedi su tale questione
il volume di M. Costa, L’estetica dei media, cit.
(49) N. Luhmann, Die
Realität der Massenmedien, tr. it. di E. Esposito, La realtà
dei mass media, Milano, Franco Angeli, 2000
(50) Ibidem,
p. 19.
(51) J. F. Lyotard, Il
dissidio, cit., p. 11.
(52) D. De Kerckove,
Brainframes, Technology, mind and business, tr. it. a cura di B.
Bassi, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Bologna, Baskerville,
1993
(53) Ibidem,
pp. 45-46.
(54) Ibidem,
p. 27.
(55) Ibidem,
p. 21. Partendo da tale prospettiva di studio, sarebbe interessante
reinterpretare i classici studi di E. T. Hall sulla prossemica (The
Hidden Dimension, tr. it. di M. Bonfantini, La dimensione nascosta,
introduzione di Umberto Eco, Milano, Bompiani, II edizione "Tascabili
Bompiani", 1988), cosa che, ovviamente, non è possibile
fare in questa sede. Cfr. comunque, per un primo tentativo in tal senso,
il mio Meta(tele)comunicazione e ritualità, cit.
(56) Sulle
diverse teorie della CMC, la sintesi più efficace e chiara di
mia conoscenza è quella contenuta nel bel testo di Luciano Paccagnella,
La comunicazione al computer. Sociologia delle reti telematiche,
Bologna, Il Mulino, 2000 (in particolare il capitolo II). Per un’applicazione
dei modelli "strategici" goffmaniani alla "vita in rete"
cfr. H. Miller, The Presentation of Self in Electronic Life: Goffman
on the Internet (University of London, 1995), www.ntu.ac.uk/soc/psych/miller/goffman.htm
(57) Sul mondo delle
chat, vedi il recente A. Roversi, Chat line. Luoghi ed esperienze
della vita in Rete, Bologna, Il Mulino, 2001.
(58) Vedi L. Paccagnella,
Op. cit., p. 64.
(59) M. Foucault, Des
espaces autres, tr. it. di P. Tripodi e T. Villani, Spazi altri,
in Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, a cura di S. Vaccaro,
Milano, Mimesis, 2001, pp. 19-32.
(60) M. Augé,
Non-lieux, tr. it. di D. Rolland, Nonluoghi. Introduzione
a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera,
1993.
(61) M. Foucault, Op.cit.,
p. 25.
(62) Ibidem,
p. 26.
(63) Ibidem,
p. 28.
(64) Ivi
(65) Ibidem,
p. 29.
(66) Ivi.
(67) Ibidem,
p. 30.
(68) Ibidem,
p. 31.
(69) Ivi.
(70) Ivi.
(71) Sulla pratica hacker
vedi il recente libro di P. Himanen, The Hacker Ethic and the
Spirit of the Information Age, tr. it. di F. Zucchella, L’etica
hacker e lo spirito dell’età dell’informazione, Milano, Feltrinelli,
2001
(72) Cfr. Ibidem,
pp. 26-39.
(73) M. de Certeau, L’Invention
du quotidien, 1. Arts de faire, Paris, Gallimard, 1990.
(74) M. Augé,
Op. cit., p. 51.
(75) Ibidem,
p. 52.
(76) Ibidem,
p. 54.
(77) Ivi.
(78) Ibidem,
p. 73.
(79) Ibidem,
pp. 91-92.
(80) Ibidem,
p. 95.
(81) Ibidem,
p. 97. Sarebbe interessante far "giocare" questa notazione
di Augé con quanto scrive, in tutt’altro contesto critico, Naomi
Klein nel suo noto No logo, tr. it. di Equa Trading e S.Borgo,
No logo. Economia globale e nuova contestazione, Milano, Baldini
& Castaldi, 2001.
(82) A tale comune
condizione pagine illuminanti ha dedicato G. Agamben in La comunità
che viene, Torino, Bollati Boringhieri, II edizione, 2001.
(83) Per un’analisi critica
di tale pregiudizio cfr. l’importante studio di Eric J.Leed, The
Mind of the Traveler. From Gilgamesh to Global Tourism, tr. it.
di E. Joy Mannucci, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo
globale, Bologna, Il Mulino, 1992 (in particolare il capitolo II
della Parte Prima).
(84) Sulla "mente
locale" e le culture dell’abitare vedasi l’importante libro di
F. La Cecla, Perdersi. L’uomo senza ambiente, prefazione di G.
Vattimo, Roma-Bari, Laterza, Nuova edizione accresciuta, 2000.
(85) F. Braudel, L’identité
de la France. Espace et historie, tr. it. di G. Ferrara degli
Uberti, L’identità della Francia. Spazio e Storia, Milano,
Il Saggiatore, 1988, pp. 814-15 (citato in F.La Cecla, Il malinteso,
cit.).
(86) Vedi L. Paccagnella,
Op. cit., pp. 101-104.
(87) Sulle "comunità
virtuali" cfr. anche il classico H. Rheingold, The Virtual Community.
Homesteanding on the Electronic Frontier, tr. it., Comunità
virtuali: parlare, incontrarsi, vivere nel ciberspazio, Milano,
Sperling & Kupfer, 1994.
(88) Vedi L. Paccagnella,
Op. cit., pp. 146 sgg.; sulla "forza dei legami deboli"
cfr. M. Granovetter, The Strenght of Weak Ties. A Network Theory
Revisited, in P. V. Maarsden e N. Lin (a cura di), Social Structure
and Network Analysis, Baverly Hills, Ca, Sage, 1982; sulle reti
sociali cfr. Reti. L’analisi di network nelle scienze sociali,
a cura di Fortunata Piselli, 2° edizione, Roma, Donzelli, 2001.
(89) L. Paccagnella,
Op. cit., p. 147.
(90) Ibidem,
p. 148.
(91) Ibidem,
p. 149.
(92) H. G. Gadamer, Wahrheit
und Methode, edizione italiana a cura di Gianni Vattimo, Milano,
Bompiani, 1983, pp. 317 sgg.
(93) F. La Cecla, Il
malinteso, cit., p. 134.
(94) L. Paccagnella,
Op. cit., p. 147.
(95) M. Heidegger, Bauen
Wohnen Denken, in Voträge und Aufsätze, tr. it.
a cura di G. Vattimo, Costruire abitare pensare, in Saggi
e discorsi, Milano, Mursia, 1976, p. 102.
(96) L. Rossetti, Strategie
macro-retoriche: la "formattazione" dell’evento comunicazionale,
Palermo, Centro internazionale studi di estetica, Aesthetica Preprint
n° 41, 1994.
(97) Sugli
"artisti della comunicazione" vedi i già citati volumi
di M. Costa Il sublime tecnologico e (a cura di) L’estetica
della comunicazione; vedasi anche il mio Meta(tele)comunicazione
e ritualità, cit.; cfr. inoltre il numero speciale della
rivista Leonardo dedicato a Connectivity: Art and interactive
Telecommunications, a cura di Roy Ascott, (Vol. 24, n° 2, Pergamon
Press, 1991).
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