La responsività del proprio
corpo.
Tracce dell'altro nella filosofia di Merleau-Ponty
di Bernhard
Waldenfels
1. Il dilemma di un'etica fenomenologica
Se si può parlare di un'etica
in Merleau-Ponty, questo è allora possibile soltanto nel senso
di una forma implicita o indiretta di etica. Merleau-Ponty attribuisce
evidentemente anche a se stesso una certa ritrosia nel formulare esplicitamente
un'etica, quindi nel giustificare fini e norme oppure addirittura nel
creare un universo di valori, quella stessa ritrosia che egli riconosce
esplicitamente in Bergson. (1) Eppure dietro a questa rinuncia si trova
ben più che non una fuga personale o il riconoscimento di una
divisione del lavoro in filosofia. Vi si trova nascosto piuttosto un
dilemma che rischia di essere dimenticato nel panorama di quel vero
e proprio boom dell'etica che caratterizza il mondo occidentale. Vorrei
innanzitutto tratteggiare brevemente questo dilemma, che forse nessuno
ha considerato più acutamente di Nietzsche, prima di affrontare
esplicitamente il problema in questione.
La fenomenologia si è proposta
come una filosofia del senso, analogamente all'ermeneutica, disciplina
ad essa strettamente imparentata, e non diversamente dalla filosofia
del linguaggio di impostazione analitica, ispirata a Frege e Wittgenstein.
Tutto ciò che è o può essere deve esser colto e
descritto così come ci si mostra a partire da se stesso e al
tempo stesso deve essere colto e descritto all'interno dei limiti e
delle condizioni in cui si mostra. La differenza significativa del 'qualcosa
in quanto qualcosa' costituisce in un certo senso l'apriti sesamo della
fenomenologia husserliana. Considerando il fatto che quanto è
per me e per noi, così come le prospettive dell'apparire appartengono
alla cosa stessa, abbiamo a che fare con una relatività senza
relativismo. Ma come stanno le cose per quel che riguarda i fenomeni
morali? La loro obbligatorietà è forse a sua volta qualcosa
che può apparire in un modo o nell'altro? Che ne è delle
vecchie figure di pensiero quali: il bene in quanto tale come
fine cui tutto tende e la legge morale incondizionata cui sottostà
ogni ente razionale, che lo voglia o no? Il dilemma di una qualsivoglia
fenomenologia morale può essere formulato in questi termini:
o si accontenta di essere una fenomenologia della morale, e quindi
tematizza semplicemente ed indaga gli ordinamenti di valore, le norme,
i costumi o le pretese di validità, così come le loro
regolamentazioni generali, che però esistono sempre solo di fatto
- oppure si potenzia fino a far diventare morale la fenomenologia
stessa, al punto che il fenomenologo finisce per collocare se stesso
tra quei valori e norme che deve invece indagare. Enunciare semplicemente
valori e norme si troverebbe ancora al di qua della giustificazione,
farvi ricorso invece già al di là. Il passaggio dal 'non-ancora'
di una descrizione neutrale al 'già da sempre' di una morale
in vigore si attuerebbe nella forma di una svolta morale, che
ha qualche tratto in comune con quella svolta teologica che Dominique
Janicaud rimprovera ad alcuni fenomenologi francesi. (2) "L'etica, già
di per se stessa è un''ottica'", sostiene Emmanuel Levinas.
(3) Altre strade sono percorribili se ci si riferisce al fatto che le
esigenze dell'etica non si esauriscono semplicemente nei diversi modi
di vedere le cose e nelle condizioni generali della visione, perché
in un modo che è loro del tutto peculiare rendono piuttosto visibile
ciò che resta invisibile allo sguardo teoretico. Le cose stanno
diversamente quando per esempio Michel Henry si autoproclama il portavoce
di una "parola (parole) della vita", oppure Jean-Luc Marion,
nella sua Fenomenologia della donazione, trasforma la datità
per una coscienza in una donazione (donation) pura ed incondizionata.
(4) Il dilemma di una fenomenologia della morale si ripete anche nella
fenomenologia della religione, in quanto quest'ultima, da fenomenologia
della religione minaccia di capovolgersi in una religione della
fenomenologia o in una fenomenologia diventata religiosa.
Per dirla in breve, il dilemma sfocia in un'alternativa: in un che di
ordinario ed ordinato senza niente di straordinario, oppure in
un che di straordinario senza alcun ordine. Giacché risulta
assai difficile sostenere l'alternativa, si oscilla allora da un estremo
all'altro, così il dilemma risulta variamente schivato grazie
ad una doppia morale, che somiglia alla doppia verità
del Medioevo. Ci si attiene a tradizioni, usanze, decisioni, preferenze
finché gli ordinamenti consueti tengono e ci si meraviglia o
indigna di fronte ad un 'male radicale' inestirpabile che affiora nei
casi eccezionali in cui l'ordine si spezza, come nel caso di Auschwitz
oppure di minorenni assassini che uccidono compagni di scuola o insegnanti.
Con il suo inimitabile fiuto per il
gioco a nascondino della morale e per le manovre ingannatrici della
filosofia morale, Nietzsche richiama l'attenzione appunto sul nostro
dilemma allorché constata che la cosiddetta fondazione della
morale è "soltanto una forma erudita della loro tranquilla
credenza nella morale dominante, un nuovo mezzo della sua espressione",
oppure quando osserva che, d'altro canto, i suoi fondatori si atteggiano
"a esecutori di ordini più antichi o superiori". (5) Che poi
sia il conformismo o il rigorismo a prendere il sopravvento, questo
dipende in vario modo dalle condizioni 'atmosferiche' della società.
Nietzsche sottolinea inoltre che il richiamo alla morale e alla sua
affermazione non deve affatto necessariamente corrispondere ai valori
morali di cui ci si riempie la bocca. Dalla morale si può addirittura
ricavare un significativo capitale di ordine politico, economico o culturale,
come peraltro sperimentiamo quotidianamente. Varrebbe la pena a questo
proposito riprendere le considerazioni che fa Merleau-Ponty in Umanismo
e terrore, per esempio a proposito del conflitto tra Yoghi e il
commissario, oppure rispetto al contrasto tra impegno e disimpegno.
Eppure occorre chiedersi lo stesso se
esistano o meno vie d'uscita che permettano di superare il dilemma di
un'etica fenomenologica. In Husserl si trova un ateismo metodico che
vieta ogni sostegno di tipo teologico. Dio non può garantire
la verità, infatti, per poterlo fare, dovrebbe rivelarsi come
tale e perciò dovrebbe già sottoporsi alle condizioni
di una verità possibile. Husserl dichiara di voler seguire personalmente
la regola di "giungere a Dio senza Dio". (6) Si può parlare allora,
mutatis mutandis, di un amoralismo metodico e di un corrispondente
tentativo di giungere alla morale senza la morale? Si incomincerebbe
allora non solo al di qua del vero e del falso, (7) ma anche al di qua
del bene e del male, senza accontentarsi della confusione di un'etica
dei valori. (8) Quali vie d'uscita dallo stallo offre il pensiero di
Merleau-Ponty? Offre davvero delle alternative? Se per Husserl esiste
una genealogia della logica e se questa si estende fino a diventare
una "genealogia dell'essere", (9) allora ci si può aspettare
anche una genealogia della morale. (10) Questa significa perlomeno
che 'c'è' ovvero 'si dà' un ordine morale, così
come si dà in generale il senso, la razionalità o l'ordine,
senza che questo poi si possa fondare su ragioni sufficienti. Così
come il vedere ed addirittura la coscienza hanno il loro punto cieco,
(11) allo stesso modo esiste anche un punto cieco della morale. Si può
certamente osservare questo punto cieco da un'altra prospettiva, come
assume per esempio la teoria dei sistemi, ma così si sposta semplicemente
il problema. La questione di un ethos in statu nascendi
adatto alla radicalità fenomenologica si pone soltanto se la
morale e l'ethos scoprono i loro propri limiti e le
loro origini più proprie. Il percorso può essere
solo indiretto, come è indiretto il discorso che parla di qualcosa
parlando d'altro e che - come sottolinea Michail Bachtin - lascia parlare
anche gli altri, non togliendo loro la parola di bocca, ma senza neanche
abbassarsi fino al punto di diventare semplicemente il portaparola di
un discorso estraneo. Se esiste in Merleau-Ponty uno stile dominante
di pensiero e di scrittura, questo è l'obliquità, (12)
la lateralità, la deviazione, l'eccedenza, vale a dire forme
che liberano qualcosa in altro senza entrarne in possesso direttamente,
(13) senza mediarlo dialetticamente con questo altro e senza neanche
capovolgere l'uno nell'altro. In questo senso non sembra affatto inopportuno
ricercare nell'ontologia indiretta di Merleau-Ponty tracce di un'etica
indiretta. (14)
2. Response e responsività
Il motivo fondamentale della responsività
attraversa l'intera opera di Merleau-Ponty come un filo rosso, sebbene
sotterraneo. Nella prefazione alla sua opera prima su La struttura
del comportamento, Merleau-Ponty si riferisce in una lunga nota
a Kurt Goldstein, pur senza nominarlo esplicitamente, e al suo motivo
secondo cui ci sarebbe un "confronto" dell'organismo con il mondo; in
fondo l'intera ricerca di Merleau-Ponty mira a formulare una teoria
del comportamento non behavioristica, all'interno della quale lo stimolo
e la risposta siano liberati dalle strettoie causalistiche e condizionalistiche.
A questo proposito Merleau-Ponty si riallaccia alla teoria della forma
e ai suoi rappresentanti quali Kurt Lewin, Wolfgang Köhler e Max
Wertheimer, che attribuiscono alle cose un carattere di sfida. Alla
medesima tradizione appartiene anche il medico Kurt Goldstein, che nella
sua opera fondamentale su La costruzione dell'organismo (1934)
definisce le malattie come "responsività insufficiente", cui
si può rimediare solo attraverso la messa alla prova di nuove
possibilità di risposta ed attraverso la creazione di un nuovo
ambiente di riferimento. Da parte americana si dovrebbe ricordare la
rilettura in chiave behavioristica della teoria del comportamento di
G. H. Mead proposta da Ch. Morris, interpretazione alla quale Merleau-Ponty
si avvicina sotto vari rispetti. Da un punto di vista linguistico si
potrebbe rimandare al fatto che nella psicologia tedesca di più
antica data 'response' è in genere reso con 'risposta
(Antwort)' e non con 'reazione'. (15) Le strutture del comportamento,
che Merleau-Ponty distingue tra di loro, possono pertanto essere considerate
senz'altro come forme del rispondere.
Si potrebbe finire per attribuire a
Merleau-Ponty una teoria del comportamento quasi dialogica e al proposito
ci si potrebbe per esempio riferire al fatto che un altro rappresentante
di quel gruppo di studiosi, Viktor von Weizsächer, abbia intrattenuto
stretti rapporti con Martin Buber. Così però si scivolerebbe
in un'etica dialogica, che assumerebbe determinate premesse tradizionali
senza indagarle a fondo. Perciò preferisco parlare di responsività,
perché quelle riformulazioni e ristrutturazioni che Merleau-Ponty
non perde mai di vista non possono fondarsi su alcun logos già
dato, che garantisca una reciprocità di posizioni e prospettive.
Il mondo-ambiente non è il partner di un dialogo nel senso proprio
del termine, piuttosto rappresenta per l'organismo una sfida permanente,
e lo stesso vale per il rapporto tra l'uomo e il suo mondo. La creazione
di un mondo contraddice ogni armonia prestabilita. L'accezione psicologica
e medica della 'response' nel rimando all'impianto di ricerca
darwiniano conferisce al rispondere una creatività che non fa
certo rimpiangere la comprensione filosofica corrente di questo concetto.
Il significato triviale del rispondere come riempimento di lacune del
sapere è purtroppo tuttora dominante. Per la concezione della
responsività è inoltre importante il rimando alla corporeità
e alla sensibilità. Alla vistosità (Auffälligkeit)
con cui qualcosa si mostra corrisponde la fragilità (Anfälligkeit)
di un essere corporeo che si rapporta ad un che di estraneo, senza che
questo abbia già un qualche senso preliminare. La marcia trionfale
della semantica, che riempie persino la percezione di contenuti proposizionali,
costringe facilmente a dimenticare che qualcosa ci deve innanzitutto
colpire, interessare e riguardare per poter essere colto, compreso ed
interpretato come un qualcosa.
Quanto si profila nella prima opera
di Merleau-Ponty, si svilupperà successivamente in ambiti diversi,
peraltro in maniera occasionale e poco appariscente, il che significa
anche senza troppe spiegazioni concettuali. Così nella Fenomenologia
della percezione il provare una sensazione, per esempio cogliere
la qualità di un colore, è interpretato come un gioco
aperto di domanda e risposta, nel quale lo sguardo "si accoppia (s'accouple)"
con il colore e senziente e sensibile entrano in uno "scambio (échange)".
In questo contesto si osserva: "Così, un sensibile che sta per
essere sentito pone al mio corpo una specie di problema confuso. È
necessario che io trovi l'atteggiamento che gli darà modo
di determinarsi e di divenire un azzurro, che trovi la risposta per
una domanda mal formulata. E tuttavia, io lo faccio solo dietro la sua
sollecitazione, il mio atteggiamento non basta mai per farmi vedere
veramente un azzurro o toccare veramente una superficie dura. Il sensibile
mi restituisce ciò che gli ho prestato, ma è dal sensibile
stesso che io lo derivavo". (16)
Qui non si tratta di un gioco a carte
coperte e nemmeno di un dialogo concordato consensualmente, ma di un
evento aperto che produce al tempo stesso le proprie unità di
misura. La risposta non colma semplicemente una lacuna, piuttosto essa
contribuisce alla formulazione di quella domanda alla quale poi risponde.
E il colore non agisce semplicemente come uno stimolo causale che produce
un determinato comportamento, ma come una sollecitazione (sollicitation)
(17) che fa vedere qualcosa, che dà inizio ad un nuovo
vedere ed ascoltare, che a sua volta è messo in scena. All'impulso
che proviene da ciò che deve essere percepito corrispondono,
da parte del percipiente, determinati "stimoli". (18) Analogamente
a come, in un altro contesto, Merleau-Ponty parla di una certa "inquietudine
nel mondo delle cose-dette", (19) così si potrebbe partire da
una inquietudine nel campo di ciò che è visto. Il vedere
originario assomiglia ad una pietra che è gettata nell'acqua,
non ad una lampadina che si accende. Il vedere eccede il visto in maniera
analoga a come il dire va oltre al detto. Questo semplice schizzo evidenzia
come nella "coesistenza del senziente e del sensibile" (20) sia in gioco
già da sempre un "qualcosa di estraneo all'io". (21) Perciò
non soltanto possiamo parlare di una risposta che le cose danno alle
domande dei nostri sensi, (22) ma anche di una risposta dei sensi. Quanto
poi questa concezione si possa estendere già a questo livello
anche alla natura nel suo complesso risulta evidente allorché
Merleau-Ponty scrive, nel medesimo contesto: "Poiché le relazioni
fra le cose o fra gli aspetti delle cose sono sempre mediate dal nostro
corpo, l'intera natura è la messa in scena della nostra propria
vita o il nostro interlocutore (interlocuteur) in una sorta di
dialogo". (23)
Qualcosa di simile accade nel campo
dell'azione, come questa è sviluppata da Merleau-Ponty
nel capitolo finale della Fenomenologia della percezione. Le
azioni non sono né automatismi meccanici, né atti totalmente
liberi, si articolano piuttosto nel corso dell'azione stessa, a partire
da situazioni aperte che "propongono un certo senso", "stimolano" la
nostra iniziativa, "ingenerano" determinate soluzioni. "In quanto noi
viviamo, la nostra situazione è aperta; ciò implica che
essa sollecita modi di soluzione privilegiati e in pari tempo che, di
per se stessa, non può procurarne nessuno". (24) La situazione
è pertanto rimessa all'iniziativa di colui che agisce e quest'ultima,
al contrario, non è che nella situazione.
Merleau-Ponty utilizza un vocabolario
simile anche riferendosi alla pittura. Il richiamo delle cose,
che lottano per ottenere l'attenzione del mio sguardo, continua ad essere
presente nell'attività del dipingere, in cui la mano e il pennello
rispondono al richiamo, alla sollecitazione, alla sfida che proviene
dal mondo del visibile. Il pittore risponde ad una sollecitazione che
precede ogni suo fare. "Nel fondo immemorabile del visibile qualcosa
si è mosso, si è acceso, che invade il suo corpo, e tutto
ciò che egli dipinge è una risposta a questa sollecitazione,
la sua mano 'non è che lo strumento di una lontana volontà'".
(25) Ciò che è da vedere si potenzia in qualcosa che è
da dipingere, dacché la visibilità stessa diventa visibile.
Come colui che prova una sensazione e colui che agisce, anche colui
che dipinge non è un soggetto demiurgico che produce autarchicamente
i suoi oggetti, piuttosto il rendere visibile si inserisce in un diventare
visibile che è incominciato fin dai tempi immemorabili della
nascita. "Nascere, è nascere dal mondo e al tempo stesso nascere
al mondo. Il mondo è già costituito, ma non è mai
completamente costituito. Sotto il primo rapporto noi siamo sollecitati,
sotto il secondo siamo aperti a una infinità di possibili". (26)
L'ontologia, che Merleau-Ponty sviluppa
infine nella sua opera più tarda su Il visibile e l'invisibile,
si presenta come un pensiero interrogante. Eppure questo domandare,
che altrove ho indagato più a fondo, non rappresenta affatto
il contrario del rispondere, ma piuttosto assume esso stesso tratti
del rispondere; infatti "nessuna domanda va verso l'Essere: sia pure
per il suo essere di domanda, essa l'ha già frequentato, ne ritorna".
(27) Possiamo caratterizzare un pensare che giunge a sé soltanto
ritornando a se stesso a partire da altrove (28) come un pensare che
risponde. La risposta non è allora già inclusa nella domanda,
come è il caso di un domandare che semplicemente riconosce qualcosa,
la riposta è piuttosto data e sempre anche inventata, diversamente
dal caso di un'umanità che, come sosteneva Marx, si porrebbe
sempre soltanto i problemi che può anche risolvere. (29) Tracce
di un tale pensiero rispondente si trovano sempre di nuovo in questa
ontologia, così per esempio in un discorso "che risponde all'altro
prima che questi sia stato compreso come 'psichismo'", (30) e così
anche nella pregnanza carica di futuro del visibile, che esige una corretta
presa di posizione alla quale 'risponda' il mio corpo: "carne rispondente
alla carne (chair répondant à la chair)", (31)
oppure nel passato che avanza una certa quale esigenza che non si esaurisce
nella coscienza del passato. (32) La responsività penetra attraverso
le giunture e le crepe di un essere che ha l'impronta della distanza,
dell'assenza, con le sue pieghe e deviazioni. Così si legge in
Paul Valéry, un autore che accompagna Merleau-Ponty come un mentore
letterario: "Anche quando chiede, la mente è risposta". (33)
Non potranno sfuggire ad una lettura attenta di Valéry, al quale
il vocabolario scientifico del suo tempo non era solo senz'altro familiare,
ma appariva anche degno di riflessione, i rimandi impliciti al problema
della risposta sollevato dalla psicologia, problema dal quale abbiamo
appunto preso le mosse.
3. Il logos della risposta
Ci si potrebbe comunque chiedere che
cosa ci sia mai di particolarmente etico in questo tipo di responsività.
Non ci siamo forse talmente allontanati dal bene in sé, dalla
legge morale o anche dalla categoricità del volto umano, al punto
che, oltre al dilemma di un'etica fenomenologica, l'etica stessa minaccia
di essere persa di vista? E la ripresa di un'ontologia non fa forse
venire il sospetto che la scintilla etica, risplendente nell'altro,
minaccia invece di soffocare, schiacciata dal potere arbitrario di un
darsi dell'essere e della sua 'cattiva totalità'? Cercherò
di rispondere a queste e ad analoghe questioni indagando passo passo
l'autonomia del rispondere alla ricerca delle sue implicazioni etiche.
Riferendomi all'atto del rispondere
non intendo semplicemente, in senso stretto, qualcosa come il riempire
una lacuna del sapere, ma intendo piuttosto, in senso lato, un rivolgersi
e prestare attenzione ad offerte e richieste estranee, laddove il termine
'richiesta' deve essere inteso nel doppio senso di appello e pretesa.
Posso indagare un qualsiasi discorso o azione non solo chiedendomi che
senso o che scopo abbia, quali regole segua o in quali condizioni abbia
luogo, ma anche, al di là di tutto questo, ponendo il problema
di quale sia l'esigenza, la sfida o la richiesta alla quale risponde.
Perciò la responsività rappresenta un tratto fondamentale
del comportamento, di rango non inferiore ai più noti aspetti
dell'intenzionalità, della regolarità e della praticabilità.
Ciò a cui rispondo è, in quanto tale, senza
senso e senza alcuna regola e non sta nemmeno a nostra disposizione,
a meno che non partiamo da una parole parlée o da una
action agie, che ha già un senso più o meno riproducibile.
Il rispondere mostra una sua propria legalità che permette di
poter parlare di un logos della risposta, cui deve essere attribuita
una certa rilevanza etica. Ciò risulta evidente se consideriamo
determinati problemi tradizionalmente posti.
La richiesta e l'appello si sottraggono
innanzitutto all'opposizione di essere e dover essere. La sollicitation
o l'exigence, di cui tratta ripetutamente Merleau-Ponty, non
si possono ridurre né ad un puro e semplice dato di fatto constatabile,
né ad una legge universale alla quale sono rimesso. In questo
senso Merleau-Ponty, nella sua riflessione politica, conduce una battaglia
su due fronti contro il pragmatismo e contro il moralismo. Ciò
che è da fare non sta né nelle cose, né nelle stelle.
Deve essere inventato, ma a partire da una inevitabilità
che non dipende dalla nostra scelta. Quando una richiesta ci investe,
non possiamo non rispondere, per variare la celebre espressione di Watzlawick.
Qui siamo costretti a confrontarci con tracce di quella non-indifferenza
che Levinas considera come una caratteristica della dimensione etica.
Questa non-indifferenza ha il doppio significato di qualcosa che non
è senza interne distinzioni e di un qualcosa che non è
indifferente. C'è qualcosa che ci inquieta, che spezza la monotonia
di un tutto-insieme come ne Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij,
in cui la richiesta disperata di una povera ragazza sveglia dal suo
sonno chi è ormai stanco della vita. Qualcosa risplende all'improvviso
come una stella nella notte, qualcosa ci fa sobbalzare come lo squillo
del telefono. Nel passaggio conclusivo della Fenomenologia della
percezione è citato Antoine de Saint-Exupéry, infatti
alla domanda su che cosa si debba fare concretamente, la risposta è
lasciata all'eroe. Così scrive Merleau-Ponty: "Ma ci sono queste
cose che si presentano, irrecusabili, c'è questa persona
amata di fronte a te, ci sono questi uomini che esistono schiavi attorno
a te, e la tua libertà non può volersi senza uscire
dalla sua singolarità e senza volere la libertà.
Sia che si tratti delle cose o delle situazioni storiche, la filosofia
non ha altra funzione che quella di reinsegnarci a vederle bene". (34)
Questa dichiarazione può oggi suonarci un po' troppo sentimentale,
ma è evidente che cosa Merleau-Ponty intendesse dire. Esistono
cose alle quali non possiamo sottrarci, richieste che non possiamo evitare.
Il fatto poi che qui Merleau-Ponty si accontenti dell'appello di Camus
a 'rapprendre à voir' non nasce certo da un atto di modestia
filosofica, ma ha a che vedere con il problema stesso che si affronta.
Si deve innanzitutto attirare l'attenzione sulle richieste che si presentano
prima ancora di poter essere esaminate o giustificate, così come,
secondo Kant, dobbiamo 'dare ascolto' alla legge morale, senza poterla
però dedurre da qualche altra parte.
La seconda revisione riguarda l'opposizione
di particolare e universale. Una richiesta che spezza la simmetria
di un determinato ordine si contraddistingue per una certa singolarità
che non deve essere confusa con l'unicità di un caso individuale,
giacché apre una nuova dimensione di senso e nuove prospettive
d'azione. Questo vale per eventi pubblici come la Rivoluzione francese,
così come per stravolgimenti che avvengono nella vita personale.
Un pensiero che attribuisce l'ordine a determinati eventi fondatori,
sottostà all'opposizione di casistica e morale della legge, in
quanto dà spazio ad una genealogia della morale. In questo caso
l'evento della fondazione non è da pensare soltanto come istituzione
o fondazione, ma anche come donazione. (35) Ci sono eventi che danno
da pensare e con questo loro dono spezzano il circolo del do
ut des. Fondazioni che non si possono basare a loro volta su ragioni
sufficienti sono in un certo senso gratis. Eppure non cadono
dal cielo come una 'donation pure', infatti ogni nuova fondazione
significa anche una deformazione, un'alterazione ed estraniazione di
ordini esistenti.
Il rispondere si contrappone infine
all'antitesi tra ciò che è proprio e ciò che
è estraneo. Nel periodo moderno la fissazione sul proprio,
data per scontata, conduce all'opposizione, del tutto opinabile, tra
egoismo ed altruismo, come se si potesse scambiare il proprio con l'estraneo.
Questa economia morale dello scambio, le cui false esigenze sono smascherate
già da Nietzsche, perde la sua forza se prendiamo le mosse da
un sentire, parlare ed agire che rispondono, che partono da altrove,
appunto da una richiesta estranea. Le figure di pensiero che si propongono
all'attenzione sono da un lato l'intreccio o il chiasmo,
che escludono la possibilità di muoversi nel proprio o nell'estraneo,
dall'altro lato troviamo und certa asimmetria che esclude la
possibilità ulteriore che ci si muova fin dal principio in maniera
comparatistica tra il proprio e l'estraneo. È certamente vero
che il pensiero dell'asimmetria sviluppa tutta la sua forza d'urto solo
con Levinas, ma certamente non manca neanche in Merleau-Ponty. Già
nella Fenomenologia della percezione l'autore considera la distanza
come l'ideale di una comunicazione simmetrica e in seguito, contro una
pura relazione reciproca, sottolinea l'"inevitabile asimmetria", (36)
la cui intrinseca reversibilità non ha bisogno di alcuno spettatore
che stia al tempo stesso da entrambe le parti. (37) In questo senso
anche per Merleau-Ponty le tracce di un qualcosa di altro non sono affatto
messaggeri di una comunità che comprende tutto, che supererebbe
in sé o perlomeno neutralizzerebbe ogni estraneità. (38)
Da questo breve schizzo si può
desumere quanto segue: esistono richieste estranee che non rientrano
nelle consuete etiche teleologiche, deontiche ed utilitaristiche, senza
tuttavia essere perciò insignificanti dal punto di vista etico.
4. Dalla circolarità allo sdoppiamento
del corpo proprio
Se poi ci chiediamo in che modo le richieste
estranee sono strettamente correlate all'essere se stessi, allora ci
imbattiamo nel ruolo inaggirabile del corpo. Il proprio corpo non è
semplicemente implicato in una qualche maniera nel comportamento del
rispondere, piuttosto costituisce il nucleo più autentico di
questo tipo di comportamento. Non basta ipotizzare che il corpo proprio
assuma tratti etici, piuttosto l'ethos stesso risulta al contrario
un ethos corporeo. In ogni caso una tale prospettiva acquista
pienamente forza in Merleau-Ponty solo poco per volta, lasciandosi alle
spalle un'iniziale 'cattiva ambiguità'. Intendo ora indagare
questo progressivo spostamento di accento.
La teoria del 'corps propre'
nella Fenomenologia della percezione non è soltanto determinata
essenzialmente dal motivo della temporalità, piuttosto questa
temporalità è pensata già qui, molto prima che
Derrida la tematizzasse, come rinvio ed indugio. "Le mie prese sul passato
e sull'avvenire sono sfuggevoli, il possesso che ho del mio tempo è
sempre differito (différée) fino al momento in
cui io mi comprenderei interamente, e quel momento non può giungere,
giacché sarebbe pur sempre un momento, circondato da un orizzonte
d'avvenire, e a sua volta avrebbe bisogno di sviluppi per essere compreso".
(39) Questa appropriazione differita, che in seguito sarà caratterizzata
come espropriazione o spossessamento, (40) fa sì che un'alterità
si insinui nel cuore stesso della presenza a sé. "Io posso" significa
sempre anche un "io non posso". Eppure questo motivo resta legato ad
un pensiero pronto a scendere a compromessi fintanto che Merleau-Ponty
non rimane ancorato ad un'esigenza di autofondazione in un "miscuglio
di finitezza ed infinità", (41) esigenza di cui egli stesso mostra
il fallimento. Finché la fenomenologia del corpo proprio non
significa nient'altro che una concretizzazione e finitizzazione della
fenomenologia trascendentale, il corpo proprio assume il ruolo di un
pre-io, che cerca invano di raggiungere se stesso, e questo pre-io
resta incatenato all'anonimità di un 'si', all'interno
del quale il proprio e l'estraneo sono sincretisticamente unificati.
La figura fondamentale di una tale fenomenologia della finitezza è
costituita dalla circolarità, quale la conosciamo in Hegel,
ma anche nell'ermeneutica. Il rapporto di senziente e sentito, di azione
e situazione significa allora un contemporaneo dare e avere,
cosicché l'alterità scade in fin dei conti a momento di
un evento complessivo. Il non poter essere un tutto resta nel quadro
di un essere se stessi e di un pensiero del medesimo. Merleau-Ponty
abbandona definitivamente questo impianto allorché, nell'opera
più tarda, giunge al corpo proprio partendo da una duplicazione
e sdoppiamento del sé. (42) Il corpo che vede ed è
visto, che tocca ed è toccato non è più chiamato
'corps propre', corpo proprio, bensì 'chair', carne.
La non-coincidenza nella coincidenza non significa una "non coincidenza
di fatto", fondata su una "coincidenza di principio o presuntiva". (43)
Non è nemmeno un semplice sigillo della finitezza, che sarebbe
poi misurato con il metro di un possibile infinito, piuttosto essa assume
un carattere costitutivo. Il rapporto a sé si realizza come
sottrazione a sé e da ciò risulta una "assenza
irrimediabile", (44) che implica una "assenza da sé", (45)
un'assenza, una distanza, una forma dell'invisibile, dell'inaudito,
dell'intoccabile, che nella loro irrevocabilità non sono più
da determinare come semplici mancanze; esiste piuttosto un "originario
dell'altrove". (46) Questo altrove esperito deve essere accuratamente
distinto da un "altrove in sé". (47) Il raddoppio del
proprio corpo si prolunga in una specie di sdoppiamento dell'estraneità.
L'alter ego non è semplicemente un duplicato dell'ego,
non è un semplice ampliamento della sfera di proprietà,
ma prende piuttosto la forma di un sosia, che può essere
potenziato fino alla paranoia. L'altro è "un doppio errante;
esso frequenta il mio ambiente più che comparirvi, è la
risposta inopinata che io ricevo altrove". (48) La sottrazione a sé
del proprio corpo si approfondisce ulteriormente nella sottrazione estranea
del corpo dell'altro. Sono presso l'altro in quanto non sono mai del
tutto in me. La fenditura che attraversa dall'interno l'essere-sé
impedisce che il proprio e l'estraneo possano essere considerati come
membri di una catena continua dell'essere, si dà al contrario
una "fenditura dell'Essere". (49)
Non si deve affatto ritenere che con
questo sia superata ogni ambiguità. Il confronto tra Merleau-Ponty
e Levinas, che ha avuto luogo in maniera solo assai rudimentale allorché
entrambi i filosofi erano in vita, è - analogamente al confronto
tra Merleau-Ponty e Foucault - aperto da entrambi i lati, come ho cercato
di dimostrare altrove. Ma ciononostante si aprono nuove strade che permettono
di venir fuori dal dilemma di un'etica fenomenologica, dilemma dal quale
siamo partiti. Diversamente da quanto assume Michel Henry, (50) la vita
ha determinate forme del 'fuori' (dehors), è una forma
di scarto (écart), è al di fuori di sé,
diverge da se stessa, e proprio per questo resta rimessa ad un qualcosa
di estraneo, che rappresenta non l'opposto, ma l'altro lato del proprio.
5. L'ethos dei sensi
Invece di indagare ulteriormente queste
questioni fondamentali, vorrei tentare di dimostrare, per concludere,
come la responsività del nostro sensorium si trasformi
da sé in una sorta di responsorium, al quale non si può
negare un certo spessore etico.
In genere si è pronti a considerare
le espressioni linguistiche come relazioni a tre componenti: qualcuno
comunica qualcosa a qualcun altro, eppure al contrario si è inclini
a caratterizzare le percezioni come relazioni che hanno due sole componenti:
qualcuno percepisce qualcosa (o un dato di fatto). Ma i caratteri dell'appello
di cui si è detto non si lasciano affatto imbrigliare in questo
schema percettivo così semplice e limitato, ma rimandano piuttosto
ad una ulteriore differenza appellativa: qualcosa si presenta
come qualcosa, in quanto chiama a qualcos'altro. L'"avere-da-essere
(Zu-sein)", che Heidegger attribuisce esclusivamente all'esserci,
parte qui dalle cose. Ciò trova espressione linguistica nella
forma infinitiva, che si trova spesso in Merleau-Ponty, quando per esempio
si sottolinea che da parte nostra resta ancora qualcosa da vedere, da
dire, da fare (à voir, à dire, à
faire); analogamente Heidegger si riferisce ripetutamente a qualcosa
che è ancora da-pensare (das zu-Denkende). (51) Se con
Karl Bühler distinguiamo tra funzione rappresentativa, espressiva
ed appellativa, allora dobbiamo riconoscere che nell'appello delle cose
la funzione rappresentativa e quella appellativa sono strettamente correlate
e che l'io compare nella forma di un "dativo di indirizzo", (52) prima
ancora di passare dall''io' al quale ci si rivolge ad un 'io' come soggetto
al nominativo. Questo è propriamente lo stimolo al quale si deve
dare una risposta. Da qui nasce l'esigenza di una eterosomatica,
che sviluppo più approfonditamente nel mio libro Antwortregister.
(53)
Incominciamo con l'ascoltare.
Prestare ascolto a qualcosa che sorge dal silenzio o dalla quiete,
che proviene da una certa direzione, ma che non è fissabile in
un certo luogo, precede sempre ogni ascoltare qualcosa di determinabile.
I tentativi di John Cage di trovare un suono sulla soglia del silenzio
sono particolarmente adatti se si vuole esercitare un tale ascolto senza
che ci sia propriamente niente da ascoltare, prima ancora che le 'orecchie
dello spirito' riconoscano nell'udire qualcosa di semplicemente udito.
L'ascoltare si raddoppia nell'eco, che risuona già nel
sentirsi parlare, nella nostra stessa voce che ci rimbomba nelle orecchie
e nell'ascolto della voce estranea. In questo caso la duplicazione non
significa che qualcosa si presenta due volte, piuttosto che qualcosa
si sdoppia, che qualcosa, come nel caso della foglia del gingko
per Goethe, "è una e doppia". L'eco somiglia allo specchio, senza
esserne peraltro del tutto simile. Nello specchio vedo il mio volto
come lo vedono gli altri, nell'eco al contrario non ascolto il mio udito,
come se l'udire avesse un lato esterno, piuttosto l'effetto dell'eco
è immediatamente presente nel parlare, senza che compaia nel
mezzo alcuno 'specchio dell'udito'. Lo specchio potenzia la vicinanza
fino al limite di una coincidenza irraggiungibile, mentre nell'eco quanto
è più prossimo scivola in una distanza non più
colmabile. L'interpretazione metafisica della voce come puro essere
presso di sé, che Derrida attribuisce in maniera forse unilaterale
al fenomeno della voce, mostra qui un barlume di verità. La voce
che - come per esempio nel caso di una telefonata anonima - affiora
senza essere già riconoscibile come voce di qualcuno, si ascolta
come qualcosa di inaudito in ciò che pure si ascolta.
Non udiamo in realtà ciò a cui prestiamo ascolto.
I tre aspetti che abbiamo considerato,
e cioè il carattere appellativo del sensibile, il raddoppio della
percezione e il momento anestetico nella aisthesis, si trovano
anche nei registri degli altri sensi, volta a volta caratterizzati da
variazioni specifiche. Anche il vedere non si risolve semplicemente
nel visto, risponde piuttosto ad uno sguardo che già le
cose ci accordano - come insegna la pittura. (54) Non c'è soltanto
lo sguardo che gettiamo sull'immagine, ma anche e innanzitutto lo sguardo
che proviene dall'immagine e che fa sobbalzare il nostro guardare più
ingenuo. Lo sguardo che si rivolge a qualcosa e lo sguardo che proviene
da altro non sono da intendere a loro volta come due singoli sguardi
che si scontrano come due palle da biliardo, piuttosto lo sguardo che
si scambia e ci si scambia significa sempre anche che lo sguardo si
raddoppia. Lo specchio acquista tutta la sua forza, che ha in sé
addirittura qualcosa di magico, proprio a partire da questo raddoppio
e non certo dal suo essere un supporto secondario che amplia semplicemente
la prospettiva del nostro sguardo. In questo punto Merleau-Ponty si
riferisce sempre di nuovo a Jacques Lacan, oltre che a Henri Wallon.
(55) All'evento del vedere appartiene infine anche la macchia cieca
del vedere stesso, coinvolta nel processo della vista come un che
di invisibile nel visibile.
Da ultimo resta il tatto e il toccare,
in cui si intrecciano il toccare se stessi e il toccare ciò che
è estraneo, senza che l'uno si risolva nell'altro. Anche il tatto
significa più che non un semplice toccare qualcosa, si
tratta piuttosto di un venire in contatto con..., che sperimenta
il suo sdoppiamento per esempio nella stretta di mano che ci
scambiamo e che in qualche modo scambiamo anche con le cose. Attaverso
questo raddoppio sperimentiamo come nel contatto ricambiato o evitato
si dia qualcosa di inattingibile in ciò che pure tocchiamo
con mano. Qui si mostrano i limiti di ogni mani-polazione e di ogni
mani-festazione.
Questo gioco di raddoppi, nel quale
l'estraneità del nostro stesso corpo si intreccia con la distanza
in carne ed ossa dell'altro, si prolunga nel desiderio del corpo libidinoso,
che si raddoppia in un desiderio del desiderio. Ciò raggiunge
il suo culmine nell'intangibilità e nell'inavvicinabilità
del volto dell'altro che mi è estraneo.
Prima di aprire un baratro tra l'ontologia
e l'etica, tra un altro che mi appare e l'altro che esige qualcosa da
me, è consigliabile fare attenzione alle tracce dell'altro che
affiorano nella corporeità. Che cosa sarebbe l'esigenza dell'altro
senza un guardare e un ascoltare che si rivolge all'altro rispondendo,
(56) che presta attenzione e rispetto a ciò che è estraneo?
Il disprezzo delle esigenze estranee non incomincia certo al livello
dei discorsi argomentativi, incomincia piuttosto nelle "lacune dei discorsi",
là dove tacere, passare sotto silenzio e mettere a tacere coincidono.
Anche lo sguardo, il re-gard, oscilla tra uno stare in guardia
ed un atteggiamento di riguardo per ciò che ci concerne. Un ethos
che non consideri la responsività ancorata nel "logos del mondo
estetico" si fossilizza in una morale che è semplicemente una
sovrastruttura e che rinnega la propria stessa origine e gli abissi
da cui proviene.
(Traduzione dal tedesco di Gabriella Baptist)
Note:
1) Cfr. l'omaggio a Bergson in M. Merleau-Ponty, Éloge
de la philosophie. Leçon inaugurale faite au Collège de
France le jeudi l5 janvier 1953, Paris, Gallimard, 1953, p. 40;
tr. it. di C. Sini, Elogio della filosofia, Roma, Editori Riuniti,
19993, p. 40.
2) D. Janicaud, Le tournant théologique de
la phénoménologie française, Combas, L'éclat,
1991.
3) E. Levinas, Totalité et Infini. Essai
sur l'extériorité, Den Haag, Nijhoff, 1961, p. XII;
tr. it. di A. Dell'Asta, Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità,
Milano, Jaca Book, 1980, p. 27.
4) M. Henry, Phénoménologie matérielle,
Paris, PUF, 1990, p. 131; tr. it. di E. De Liguori e M. L. Iacarelli,
Fenomenologia materiale, a cura di P. D'Oriano, Milano, Guerini
e Associati, 2001, p. 166. J.-L. Marion, Étant donné.
Essai d'une phénoménologie de la donation, Paris,
PUF, 1997; tr. it. di R. Caldarone, Dato che. Saggio di una fenomenologia
della donazione, Torino, SEI, 2001.
5) F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Böse.
Vorspiel einer Philosophie der Zukunft, in Kritische Studienausgabe,
a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. V: Jenseits von Gut und Böse.
Zur Genealogie der Moral, München e Berlin/New York, DTV e
de Gruyter, 19933, pp. 106 e 119-120 (§§ 186 e 199); tr.
it. di F. Masini, Al di là del bene e del male. Preludio di
una filosofia dell'avvenire, vol. VI/2: Al di là del bene
e del male. Genealogia della morale, Milano, Adelphi, 1968, pp.
84 e 97.
6) Così Husserl si esprime in una considerazione
a proposito di Edith Stein del dicembre 1935, cfr. in proposito D. Janicaud,
La phénoménologie éclatée, Combas,
L'éclat, 1998, p. 38.
7) Cfr. le dichiarazioni di Merleau-Ponty nel suo scritto
di candidatura al 'Collège de France', Un inédit de
Merleau-Ponty, a cura di M. Gueroult, "Revue de Métaphysique
et de Morale", LXVII (1962), p. 401.
8) Per quel che riguarda la problematica di un'etica
dei valori di impostazione fenomenologica, rimando alle mie considerazioni
critiche in B. Waldenfels, "Wertqualitäten oder Erfahrungsansprüche?",
in G. Pfafferot (a cura di), Vom Umsturz der Werte in der modernen
Gesellschaft. II. Internationales Kolloquium der Max-Scheler-Gesellschaft
e.V., Universität zu Köln, 7.-10. Juni 1995, Bonn, Bouvier,
1997.
9) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, Paris, Gallimard, 1945, p. 67; tr. it. di A. Bonomi,
Fenomenologia della percezione, Milano, Il Saggiatore, 1965,
p. 98.
10) Certamente Merleau-Ponty non è stato un
gran lettore di Nietzsche. Eppure egli ha fatto riferimento alla Genealogia
della morale di Nietzsche già nella recensione a Scheler
del 1935, M. Merleau-Ponty, "Christianisme et ressentiment", in Parcours
1935-1951, Lagrasse, Verdier, 1997, pp. 9-33.
11) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
suivi de notes de travail, a cura di C. Lefort, Paris, Gallimard,
1964, pp. 300-302; tr. it. di A. Bonomi, Il visibile e l'invisibile,
Milano, Bompiani, 1969, pp. 280-281.
12) Cfr. la forma grammaticale della oratio obliqua.
13) Si veda in proposito la singolare, ma perciò
tanto più significativa presa di distanza di Merleau-Ponty rispetto
al pensiero heideggeriano sul problema dell'essere in M. Merleau-Ponty,
Résumés de cours. Collège de France 1952-1960,
a cura di C. Lefort, Paris, Gallimard, 1968, p. 156, oltre che i corrispondenti
appunti per le lezioni in Id., Notes du cours sur L'origine de
la géométrie de Husserl, suivi de Recherches sur la
phénoménologie de Merleau-Ponty, a cura di R. Barbaras,
Paris, PUF, 1998, pp. 63, 65.
14) Cfr. M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 233; tr. it. cit., p. 212.
15) Anche Merleau-Ponty segue l'uso linguistico invalso
allorché parla in genere di 'réaction' nella sua
teoria del comportamento.
16) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 248; tr. it. cit., p. 291.
17) Il termine francese 'sollicitation', che
Merleau-Ponty utilizza ripetutamente, significa: 1) richiesta pressante,
domanda, candidatura per un impiego, 2) esortazione, 3) premura, sforzo,
4) rivendicazione (anche in senso tecnico); 'solliciter' significa
inoltre: attirare su di sé l'attenzione. Anche nel termine inglese
'solicitation' si ritrova qualcosa di questa plurivocità,
oltre alla sfumatura che rimanda ad un che di 'inoppurtuno'.
18) E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie
und phänomenologischen Philosophie, I: Allgemeine Einführung
in die reine Phänomenologie, a cura di W. Biemel, Husserliana,
vol. III, Den Haag, Nijhoff, 1950, p. 205 (§ 84); tr. it. di G. Alliney
e E. Filippini, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia
fenomenologica, I: Introduzione generale alla fenomenologia pura,
Torino, Einaudi, 1965, p. 188.
19) M. Merleau-Ponty, Signes, Paris, Gallimard,
1960, p. 27; tr. it. G. Alfieri, Segni, a cura di A. Bonomi,
Milano, Il Saggiatore, 1967, p. 42.
20) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 255; tr. it. cit., p. 299.
21) E. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität.
Texte aus dem Nachlass III: 1929-1935, a cura di I. Kern, Husserliana,
vol. XV, Den Haag, Nijhoff, 1973, p. 128.
22) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 369; tr. it. cit., p. 417.
23) Ibid., p. 369-370; tr. it. cit., p. 418.
24) Ibid., p. 505; tr. it. cit., p. 565.
25) M. Merleau-Ponty, L'œil et l'esprit, Paris,
Gallimard, 1964, p. 86 ; tr. it. di G. Invitto, L'occhio e lo
spirito, Lecce, Milella, 1971, p. 77.
26) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 517; tr. it. cit., p. 578.
27) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 161; tr. it. cit., p. 143.
28) Cfr. E. Husserl, Cartesianische Meditationen
und Pariser Vorträge, a cura di S. Strasser, Husserliana,
vol. I, Den Haag, Nijhoff, 19632, p. 95; tr. it. di F. Costa,
Meditazioni cartesiane con l'aggiunta dei Discorsi parigini,
con una Presentazione di R. Cristin, Milano, Bompiani, 19973,
pp. 86-87.
29) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 161; tr. it. cit., p. 143.
30) Ibid., p. 229; tr. it. cit., p. 207.
31) Ibid., p. 262; tr. it. cit., p. 241. Cfr. anche
ibid., p. 173, tr. it. cit., p. 156.
32) Ibid., p. 297; tr. it. cit., p. 276-277.
33) P. Valéry, Cahiers, vol. I,
a cura di J. Robinson, Paris, Gallimard, 1973, p. 988; tr. it. di R.
Guarini, Quaderni, vol. III: Sistema, Psicologia, Soma e CEM,
Sensibilità, Memoria, a cura di J. Robinson-Valéry,
Milano, Adelphi, 1988, p. 231.
34) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 520; tr. it. cit., p. 581.
35) M. Heidegger, "Der Ursprung des Kunstwerkes", in
Holzwege, a cura di F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. Klostermann,
1980, p. 63; tr. it. di P. Chiodi, "L'origine dell'opera d'arte", in
Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 59.
36) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 112; tr. it. cit., p. 99.
37) Ibid., p. 317; tr. it. cit., p. 297.
38) Cfr. M. Merleau-Ponty, "La perception d'autrui
et le dialogue", in La prose du monde, a cura di C. Lefort, Paris,
Gallimard, 1969, pp. 182-203; tr. it. di M. Sanlorenzo, "La percezione
dell'altro e il dialogo", in La prosa del mondo, con una Introduzione
di C. Sini, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 135-147.
39) M. Merleau-Ponty, Phénoménologie
de la perception, cit., p. 398; tr. it. cit., pp. 450-451.
40) M. Merleau-Ponty, Signes, cit., p. 215;
tr. it. cit., p. 223. Id., Le visible et l'invisible, cit., p.
319; tr. it. cit., p. 299.
41) Un inédit de Merleau-Ponty, cit.,
p. 409.
42) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., pp. 300, 317; tr. it. cit., pp. 279, 297.
43) Ibid., p. 166; tr. it. cit., p. 148.
44) Ibid., p. 211; tr. it. cit., p. 191.
45) Ibid., p. 303; tr. it. cit., p. 283.
46) Ibid., p. 307-308; tr. it. cit., p. 288.
47) Ibid., p. 300; tr. it. cit., p. 280.
48) M. Merleau-Ponty, La prose du monde, cit.,
p. 186; tr. it. cit., p. 137.
49) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 289; tr. it. cit., p. 268.
50) M. Henry, Phénoménologie matérielle,
cit., p. 7; tr. it. cit., p. 62.
51) Cfr. M. Heidegger, "Was heißt Denken?", in
Vorträge und Aufsätze, Pfullingen, Neske, 1954, pp.
123-137; tr. it. di G. Vattimo, "Che cosa significa pensare?", in Saggi
e discorsi, Milano, Mursia, 1976, pp. 85-95.
52) K. Bühler, Sprachtheorie. Die Darstellungsfunktion
der Sprache, Stuttgart/New York, Fischer, 1982, § 15; tr. it. di
S. Cattaruzza Derossi, Teoria del linguaggio. La funzione rappresentativa
del linguaggio, Roma, Armando, 1983, p. 305, nota.
53) B. Waldenfels, Antwortregister, Frankfurt
a.M., Suhrkamp, 1994.
54) M. Merleau-Ponty, Le visible et l'invisible,
cit., p. 261; tr. it. cit., p. 240.
55) Cfr. M. Merleau-Ponty, "Les relations avec autrui
chez l'enfant", in Merleau-Ponty à la Sorbonne, résumé
de cours 1949-1952, Grenoble, Cynara, 1988, pp. 303-396; tr. it.
di G. Goeta, Il bambino e gli altri, con una Introduzione di
P. Filiasi Carcano, Roma, Armando, 1968.
56) Cfr. E. Husserl, Zur Phänomenologie der
Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass III: 1929-1935,
cit., p. 462.