La
pedagogia della liberazione
di Enrique
Dussel
"La gioventù non chiede più.
Esige
che le si riconosca il diritto
ad esprimere il proprio pensiero"
(Manifesto degli studenti di Cordoba, 1918)
"Ci fu una pausa.
Speranzosi, gli studenti convocarono
una riunione (non una manifestazione)
per il 2 ottobre
nella piazza Tlatelolco.
Nel momento in cui i partecipanti,
concluso il corteo,
si disponevano ad abbandonare il
luogo,
la piazza fu accerchiata dall’esercito e iniziò
l’eccidio.
Alcune ore più tardi si tolse l’assedio. Quanti
morirono?
[…] The Guardian, dopo un’indagine precisa,
considera
come una cifra possibile: 325 morti […].
Il 2 ottobre
1968
è finito il movimento studentesco […].
Fu una
riproduzione istintiva
che ha preso la forma di un rituale di espiazione"
Octavio Paz, Posdata, pp. 38-40).
Parole preliminari
La pedagogica latinoamericana della
liberazione continua il discorso già intrapreso; l’uomo è
adesso il padre, la donna è la madre, il nuovo o l’Altro
è adesso il figlio. La pedagogica non si deve confondere con
la pedagogia. Quest’ultima è la scienza dell’insegnamento o dell’apprendimento.
La pedagogica, invece, è la parte della filosofia che pensa la
relazione faccia-a-faccia padre-figlio, maestro-discepolo, medico/psicologo-malato,
filosofo-non filosofo, politico-cittadino, ecc.; cioè, il pedagogico,
in questo caso, ha l’ampio spettro di significato di ogni tipo di "disciplina"
(ciò che si riceve dall’altro) in opposizione a "invenzione"
(ciò che si scopre da se stessi). La pedagogica, inoltre, ha
la particolarità di essere il punto di convergenza e di passaggio
reciproco dall’erotica alla politica –che tratteremo in un prossimo
saggio. In effetti, la pedagogica parte dal figlio del focolare erotico
per concludere il suo compito nell’adulto della società politica;
d’altro canto, parte dal bambino nell’istituzione pedagogico-politica
(cultura, scuola, ecc.) per terminare la sua funzione nell’uomo o nella
donna preparati alla vita erotica feconda. E’ evidente che inoltre la
pedagogica parte e si conclude nella stessa erotica (dal figlio ai genitori
nell’ambito del focolare) e politica (dall’alunno fino al maestro o
pedagogo). Questa quadridimensionalità complica un po’ l’esposizione
di questo saggio, ma la natura stessa della pedagogica ce lo impone.
[…]
Descrizione meta-fisica della pedagogica
Cominciamo adesso il superamento dell’ontologia
pedagogica della dominazione, scoprendo l’esteriorità del figlio
in una pedagogica della liberazione, che è un’anti-pedagogia
del sistema, e che contro Hegel dovremmo definirla come "l’arte
di fare l’uomo non-situato [no-instalado]".
L’ontologia pedagogica è
dominazione perché il figlio-discepolo è considerato come
un ente nel quale si devono depositare conoscenze, attitudini, "lo
Stesso" che è il maestro o precettore. Quella dominazione
(freccia b dello schema 2) include il figlio dentro la Totalità
(freccia a dello stesso schema): lo aliena. In questo caso il
figlio-discepolo è l’educabile: l’educato è il frutto,
effetto della causalità educatrice. È una
causalità ontica, che pro-duce qualcosa in qualcosa. Il pro-dotto
(il "condotto" davanti alla vista o alla ragione che
valuta il risultato) è un adulto formato, informato, costituito
secondo il fondamento o pro-getto pedagogico: "lo Stesso"
che il padre, maestro, sistema che già è. Il superamento
dell’ontologia significa aprirsi a un ambito al di là
dell’"essere" pedagogico, imperante, vigente, pre-esistente.
Si tratta di una meta-fisica.
I pro-genitori, coloro che
generano qualcuno "davanti", come abbiamo visto nel
§ 44 della Erotica*, quando decidono di dare l’essere
al figlio, si aprono davanti al futuro storico propriamente detto, davanti
a ciò che av-viene come l’impossibile, come ciò che non
è possibilità a partire da me e dal nostro pro-getto.
L’"essere" del figlio è realtà al di
là dell’"essere" dell’ontologia. Il figlio è
l’Altro: altro che i pro-genitori; da sempre "altro".
Non può essere il pro-getto di loro, bensì li trascende.
Non si tratta della semplice trascendenza anche ontologica, per la quale
qualcuno, come centro del suo mondo e sempre ne "lo Stesso",
si rovescia in questo mondo, com-prendendo l’orizzonte alla luce dell’essere.
È la trascendenza meta-fisica propriamente detta, poiché
i pro-genitori vanno al di là del loro essere, del loro poter-essere,
al di là della più estrema possibilità del loro
mondo: vanno fino all’altro mondo, fino alla costituzione reale
di qualcun "altro". Riguardo al figlio i pro-genitori,
perché non sono semplici progenitori di un animale o di un individuo
zoologico (dove la specie è una totalità insuperabile),
non sono propriamente la causa, né il figlio un pro-dotto
o effetto; è figlio, non è soltanto un ente.
I pro-genitori sono pro-creanti. Con la nozione di pro-creazione
indichiamo non un atto causale, bensì un momento di fecondità.
Con la parola "fecondità" vogliamo segnalare un momento
dell’essere umano con il quale si trascende meta-fisicamente costituendo
un altro mondo, un altro uomo, o meglio: l’Altro. È un atto meta-fisico
(e non ontico; non potendo propriamente essere atto ontologico) con
il quale si vuole indicare l’abissale separazione dell’instaurazione
di qualcuno dis-tinto e non di qualcosa dif-ferente. Se
l’eros è l’amore del fratello-fratello nell’entusiasmo
dell’assemblea, l’agàpe è esattamente amore per
l’Altro che non-ancora è reale. Il Desiderio, che abbiamo
chiamato "amore-di-giustizia" (nel § 16 della Erotica),
per il nulla che non-è ancora è l’amore
gratuito per eccellenza. Il faccia-a-faccia dell’uomo-donna si trascende
nel nuovo dove gli amati vedono il volto dell’Altro, l’Altro
per eccellenza: il figlio che ancora non hanno pro-creato. Il faccia-a-faccia
del fratello-fratello, del cittadino-cittadino accetta il giovane, la
gioventù (non come gruppo di giovani, bensì come ciò
che fa tale il giovane: la giovinezza, come contraria alla vecchiaia,
per esempio), accoglie il discepolo come colui che concede spazio a
ciò che verrà a partire dall’al di là dell’essere
vigente. È certo che il figlio-bambino-discepolo non è
mai un eguale, né un differente, né un interlocutore
"all’altezza". Il figlio è dis-tinto a partire
dalla sua origine, qualcuno nuovo, storia escatologica, messianica.
La paternità o maternità
possono essere giocate come causalità. In questo caso il figlio
deve essere il pro-dotto di ciò che è disposto riguardo
alla sua vita, alla sua carriera, al suo futuro: "lo Stesso".
La filialità non sarebbe così se non la relazione,
che unisce l’effetto alla causa, il rispondere a ciò che è
pro-dotto in lui, il rispondere alle aspettative poste nell’agire pedagogico,
che piuttosto sembrerebbe addomesticamento, condizionamento ideologico,
preparazione al funzionamento dentro il sistema. Se la paternità
e la maternità sono fecondità nella gratuità meta-fisica,
il volere avere qualcun altro, l’Altro, perché affermi, confermi
e trascenda l’amore erotico, in questo la filialità è
libertà, liberazione, rispetto, novità, storia autentica.
Causalità-effetto è un agire ontico fondato ontologicamente;
paternità-filialità è un momento meta-fisico transontologico
che costruisce la novità della pedagogica. Se l’ammirazione estatica
davanti al volto dell’Altro (dell’erotica o della politica) come presenza
dell’assenza del mistero, è l’esperienza umana adulta, l’apertura
davanti al volto non-ancora del figlio desiderato, è il
rispetto davanti all’estremamente alterativo. Il figlio che già-è
è continuità storica dei pro-genitori nella tradizione
e il rischio (e in questo senso uomo e donna sono più alterativi
nel loro primo incontro), ma "davanti" (se vale la parola)
al figlio amato che ancora-non è l’amore è agàpe,
è la pienezza umana in quanto tale, è dove l’uomo semplicemente
desidera dare la realtà all’Altro; non dare una
forma all’ente (pro-dotto, in-formazione), bensì la costituzione
alterativa a qualcuno. Pro-durre, anche la più geniale opera
d’arte, è fare avanzare un ente nel mondo; pro-creare è
lasciare essere altro mondo nuovo; è aprire a partire
dalla pulsione alterativa suprema la possibilità di un testimone
che dall’al di là dell’essere è per sempre il giudizio
del mondo.
La pedagogia è essenzialmente
la bipolarità meta-fisica del faccia-a-faccia di ciò che
è precedente all’Altro, ma come davanti a ciò che
gli è sempre successivo. Il figlio, il pro-creato dai
padri (il prius) è ciò che arriva più lontano
perché è più giovane. Esiste, dunque, una diacronia
(una temporalità non coetanea o contemporanea) che è molto
diversa dalla sincronia dell’erotica e della politica, e che le rende
entrambi possibili. La discontinuità della temporalità
pedagogica è essenzialmente diacronica perché consiste,
giustamente, nella trasmissione per transustanziazione –come dice Levinas-
dell’eredità umana alle nuove generazioni: la gioventù.
Ma questa trasmissione non si realizza per differenziazione generazionale
di un’identità umana, bensì che l’eredità è
raccolta nella sua somiglianza per la dis-tinzione unica, nuova, radicale
del giovane figlio, discepolo. La nozione di tradizione vuole
negare la nozione di passiva ripetizione, imitazione, rimembranza. La
tradizione è ri-creazione nel suo doppio senso: creare di nuovo
e festeggiare celebrando l’assumere a partire dal nulla (la libertà
del figlio) la storia già costituita. Questo andare passando
dall’esteriorità in esteriorità, di totalità ad
alterità, discontinuamente, come con salti, fa della specie umana
una specie analogica: una specie storica, non semplicemente e-volutiva
e dialettica, bensì propriamente dis-evolutiva e analettica.
È per questo che la paternità-maternità
non può occultare la sua anteriorità, la sua tradizione,
il suo Stato-cultura. Il maestro non è un precettore asettico,
identificato con gli dei o la natura. Il maestro è un tale,
di un sesso, un’età determinata, un popolo e uno Stato, una nazione,
una classe sociale, un’epoca dell’umanità, con le sue dottrine
e teorie […]. Non ha quindi diritto a presentarsi davanti al discepolo
come se avesse tutti i diritti, e specialmente il diritto senza limite
di farsi obbedire, come il precettore di Emile.
D’altra parte, il figlio-discepolo
non è orfano, benché glielo abbiano detto. La pedagogia
vigente lo pretende per manipolarlo addomesticandolo. Ma non è
così. "L’Altro non esiste: tale è la fede
razionale, l’incurabile credenza della ragione [dominatrice] umana.
Identità=realtà, come se, alla fin dei conti, tutto dovesse
essere, assolutamente e necessariamente, uno e lo stesso –ci
dice Antonio Machado, il grande poeta metafisico. Ma l’altro non si
lascia eliminare; sussiste, persiste; è l’osso duro da rodere
in cui la ragione perde i denti. Abel Martín, con fede poetica,
non meno umana che la fede razionale, credeva nell’altro, nell’essenziale
Eterogeneità dell’essere, come se dicessimo nell’incurabile
alterità che affetta l’uno". Questa formidabile
formulazione filosofica del poeta ci aiuta ad esprimere il nostro pensiero:
il figlio, l’Altro della pedagogica, è qui, in tutti i
modi e contro tutte le dominazioni pedagogiche, contro le imperiali
o neocoloniali, nazionali oppressive o di classi dominatrici, della
cultura illuminata o altre. L’Altro, il figlio, non ammette il certificato
che proclama la sua morte; si ribella, si ribellerà sempre, sempre
ci saranno Riforme della Cordoba del 1918, o Cordobazos o Tlatelolcos
del 1968*. Volere eliminare il figlio altro è lo stesso
che pretendere che sia orfano. Senza precedenti gli si può assegnare
la quota dif-ferita del sistema: "lo Stesso". In questo modo,
il figlio latinoamericano per antonomasia "non [lo] si afferma
in quanto meticcio, bensì come astrazione: è un uomo.
Diventa figlio del nulla. Egli comincia da se stesso". Ma questa
impossibilità è frutto della pedagogia imperiale e illuminata,
nazionale. "Figlio di nessuno" è colui che non ha cultura
propria, né cultura popolare. "Figlio di nessuno" è
colui che ha negato la madre per il padre e il padre per qualcuno che
da parte sua lo ha dominato (il suo padre creolo è stato ugualmente
dominato). Questo "figlio di nessuno" è esattamente
l’Emile che può essere educato dominandolo. Ma non è
così. Il figlio americano ha per madre l’india, la creola, la
donna latinoamericana, la cultura popolare che genera dal suo seno la
struttura più resistente all’oppressione imperiale. Ha anche
padre: è il figlio assassinato o oppresso, dello spagnolo che
ha dimenticato suo figlio, del creolo umiliato. Per questo è
figlio dei colonizzati ed egli stesso colonizzato a metà, perché
nel corso della sua storia ha già memoria di molte liberazioni,
anche a metà.
Né il precettore è
autonomo o incondizionato, né il figlio lo è da parte
sua. Entrambi sono momenti della Totalità, ma entrambi
sono allo stesso tempo Esteriorità meta-fisica. Questa
doppia dialettica analettica costituisce l’anti-pedagogica o pedagogica
della liberazione, situazione eroticamente anti-edipica e politicamente
post-imperiale, filiale e popolare (antifiglicidio e antiplebicidio**).
Il faccia-a-faccia pedagogico è, allora, il rispetto per l’Altro,
sia questi figlio o maestro. Per il pro-genitore e maestro l’Altro è
il figlio-discepolo: il sacro davanti al quale nessun amore è
sufficiente, nessuna speranza eccessiva, nessuna fede adeguata. Per
il figlio-popolo l’Altro è il pro-genitore e maestro: il precedente,
presenza epifenomenica creatrice originaria, alla quale si deve l’essere
come realtà, e davanti al quale il pagare il debito è
meta-fisicamente impossibile. I pro-genitori concedono l’essere come
dono! Il nuovo non può mai rispondere con la stessa moneta. Solo
gli riuscirà, a suo tempo, se è suo desiderio, rovesciare
nuovamente la sovrabbondanza nella gratitudine della nuova pro-creazione,
ma dis-tinta, mai "la stessa", sempre novità
storica che impedisce che il circolo dell’eterno ritorno ontologico
ritorni ad imporre la sua ferrea dominazione nell’"essere è,
il non essere non è". Il figlio nuovo è la
effettiva dimostrazione del superamento e della morte dell’ontologia
parmenidea o hegeliana. Il pro-genitore e il maestro vecchio
è la presenza della anteriorità storica che ci nega di
essere Robinson Crusoé, "dio" idolatrico, pretesa panteistica
di eternità dominatrice. Né il precettore né il
discepolo sono incondizionati. La incondizionalità è la
falsa maniera di superare l’edipo e la dominazione politico-pedagogica,
poiché il padre si maschera dietro l’asettico precettore e l’ideale
pedagogico dello Stato neocoloniale liberale. Di fatto la imago
patris reprime il figlio, ma senza avvertirlo; lo Stato
del "centro" e neocoloniale, per mediazione della cultura
imperiale e illuminata, si identifica alla cultura universale, alla
cultura senz’altro, alla natura umana, senza ammettere coscienza
critica: è l’impero dell’ideologia attraverso la comunicazione
collettiva.
Al contrario, il padre, che si prolunga
nel precettore e lo Stato non ha motivo di interporsi tra la madre-figlio,
cultura popolare-popolo, se la madre non ha totalizzato il figlio o
la cultura popolare il popolo. Ma, lo abbiamo visto, la madre-cultura
popolare tende a totalizzarsi nel figlio-popolo quando nella relazione
uomo-donna o Stato-cultura popolare non si dà la soddisfazione
dovuta. La donna insoddisfatta totalizza il figlio: il padre si sente
sostituito; la cultura popolare totalizza il popolo: lo Stato neocoloniale
e oligarchico scopre il suo nemico potenziale o attuale (il nazionalismo
popolare di liberazione). La violenza reprimitrice del padre-Stato sottomette
al nuovo (figlio-popolo), ma allo stesso tempo produce la coscienza
morale colpevole: perché il figlio desidererebbe sua madre, così
come il popolo desidererebbe vivere la sua cultura popolare giudicata
barbara, non civilizzata, analfabeta. La repressione dell’amore-di-giustizia
verso la propria esteriorità è la violenza introiettata
dalla pedagogica nella coscienza servile del dominato (figlio-popolo).
Se, invece, il padre soddisfa la madre come uomo-donna, così
che la donna deve essersi liberata (raggiungendo nel faccia-a-faccia
la pienezza dell’orgasmo storico), la donna non totalizza il figlio.
In questo caso, il padre appare alla bipolarità mammario-boccale
(madre-figlio/figlia) come l’Esteriorità, come l’Altro, come
il povero che interpella dall’al di là del principio di
totalizzazione: implora come maestro, come pro-feta che mostra il cammino
futuro e che chiama alla "vocazione" dell’alterità.
L’uscita dall’utero, l’uscita dallo svezzamento, l’uscita dalla casa
per il gioco, la scuola, il lavoro, alcune delle tante uscite
dalla Totalità verso l’Alterità, ha il padre come suo
"con-duttore": peda-gogo (colui-che-dirige-il-bambino). Allo
stesso modo, se lo Stato nuovo, sociale, postindustriale e democratico,
il liberatore, mantiene il pro-getto del popolo oppresso, lo soddisfa
nella giustizia sociale reale, la cultura popolare non totalizzerà
il popolo come principio opposto alle istituzioni coattive, reprimitrici
o conduttore dello Stato. Al contrario, sarebbe l’istituzione che servirebbe
al fine della crescita del popolo con ciò che ha ricevuto, con
ciò che è: la sua propria cultura dis-tinta, latinoamericana,
fino adesso in parte oppressa e in maggior parte anche esteriorità
interpellante.
Il bambino, l’Altro, deve essere
un anti-Emile, "il figlio di Malinche"; l’origine non
disprezzata, bensì il modo di accettarla. Figli di madre amerindia.
Attaccati alla sua carne, allattandoci ai suoi seni, entriamo nella
storia, nella continuità-discontinuità della tradizione.
Non siamo orfani. Semplicemente riconosciamo le nostre umili e reali
origini! Amando nostra madre riconosciamo nostro padre, per molto fallocratico
e dispotico che sia stato. O meglio, amiamo nostra nonna e nostro nonno.
I nostri padri sono stati piuttosto il popolo della cristianità
coloniale, la creola che da parte sua ha avuto nuovamente per padre
l’oligarchia neocoloniale: Margherita si è trasformata in Margot.
Siamo figli oscuri dei margini della storia. Accettando la nostra origine
potremo essere il precettore di cui ha bisogno il figlio latinoamericano.
Egli, nostro figlio, figlio di coloro che hanno accettato il loro trauma,
la loro oppressione, che hanno saputo perdonare la madre e il padre,
avrà la prima madre latinoamericana che potrà allattarlo
con il soave latte dei simboli della propria cultura. Il padre, il meticcio,
figlio dei conquistatori, delle oligarchie e delle ribellioni e rivoluzioni
popolari è già il padre-Stato che non si interpone tra
il figlio che beve dal seno materno. Al contrario, li abbraccia entrambi
e li porta alla loro realizzazione piena nel proprio e alterativo compimento.
La pedagogia meta-fisica lancia
la sua interpretazione in una agonica speranza, perché:
"Qualcuno mi sta ascoltando e non
sanno,
ma quelli che canto e che lo sanno,
continuano a nascere e riempiranno il
mondo".
In effetti la pedagogica si gioca essenzialmente
nella bipolarità parola-udito, interpellazione-ascolto, accoglimento
dell’Alterità per servire l’Altro come altro. Tutto questo a
un livello erotico e politico, perché "se l’evoluzione della
civiltà è tanto simile a quella dell’individuo … non voglio
dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità
civile non avrebbe senso o sarebbe … una patologia delle comunità
civili", o una diagnosi culturale della patologia individuale.
Il passaggio del livello propriamente erotico-familiare a quello erotico-politico
è dato dalla presenza di una doppia situazione edipica: il
primo Edipo della fanciullezza intorno ai quattro anni e il secondo
Edipo dall’adolescenza alla gioventù (dove il padre è
allo stesso tempo "mio" padre e lo Stato).
Il figlio è lì; poteva
non esserci, ma semplicemente non lo ha voluto, perché glielo
è stato sempre evitato o perché è stato assassinato
nell’aborto. Ma lasciando da parte questi No-all’Altro-pedagogico
(figlicidio fisico), la perversità pedagogica per eccellenza,
consideriamo la relazione:
(Padre-maestro)à
(figlio-discepolo, l’Altro)
Il bambino che è appena nato
piange: è il suo primo segno comunicante, la sua prima parola,
anche senza senso però già gestuale e propedeuticamente
significante. Abbiamo chiamato "coscienza morale" il saper
ascoltare la voce dell’Altro. Non c’è nessuna parola tanto indigente,
di un povero tanto povero, bisognoso, mancante di ogni sicurezza, integrità,
protezione, alimento, ospitalità, che un bambino appena nato.
Per questo la posizione del bambino è bidirezionale: "nella
paura il bambino retrocede davanti all’oggetto che lo terrorizza, ma
retrocede in direzione di chi considera la sua protezione; retrocede
verso il più forte … Cerca difesa, aiuto e protezione
insieme all’adulto che gli appartiene biologicamente, cioè insieme
alla madre". Esiste, dopo essere stato partorito all’esteriorità,
un istinto specifico di criptofilia (amore di proteggersi nell’occulto,
come quando il bambino si copre con le lenzuola il volto per sentirsi
sicuro nella sua culla), pulsione di totalizzazione e anelito di ritorno
alla sicurezza intrauterina. È per questo che l’istinto di "afferarsi-alla-madre"
è il primo e più pressante; in lui si coniuga l’avere
calore, sicurezza e protezione e alimento. Afferrato con le mani, i
piedi e la bocca alla madre (alla pelle della madre primitiva e ai suoi
seni alimentatori), il bambino si apre con fiducia alla realtà.
Ma allo stesso tempo c’è un istinto
di ricerca, di curiosità, di separazione, di migrazione, di autonomia,
pulsione alterativa che si dirige alla costituzione di un proprio mondo:
le prime esperienze, il gioco, il gioco di nascondersi e ri-apparire.
In questo momento il padre, come colui che non è legato sessualmente
al bambino gioca il suo ruolo di eterogeneità pedagogica: è
l’Altro del bambino-madre, il maestro di esteriorità erotica
e politica. Il precettore, allora, non deve interporsi tra la madre-figlio
(e se si "inter-pone" è che si sono totalizzati perversamente
madre-figlio, per insoddisfazione della donna-madre davanti all’uomo-padre),
bensì che deve farsi avanti come la esteriorità interpellante.
In questa posizione di libertà e servizio gratuito (come colui
che nulla cerca per sé), che può ascoltare la voce del
figlio: "Ho fame!". Fame di essere, fame di alimento, fame
di cultura, fame di attualità. Ascoltare la voce del bambino-discepolo,
l’Altro nell’indigenza, è il primo dovere del maestro.
L’Altro della pedagogica, il bambino-discepolo
in primo luogo, nella sua posizione reale, normale o ana-edipica, dice
che ha bisogno nella sua esteriorità di quello a cui ha diritto,
oltre i diritti che gli assegna il sistema, la sua biografia, i suoi
progetti, le sue speranze, i suoi aneliti. Saper ascoltare il discepolo
è poter essere maestro; è sapere inclinarsi davanti al
nuovo; è avere il tema stesso del discorso propriamente
pedagogico. Il maestro non parlerà né sugli dei prestabiliti
né sulla natura (che di fatto è la cultura oppressiva
del precettore rousseauniano) che precede l’alunno. L’autentico maestro
prima ascolterà la parola obiettante, provocante, interpellante,
anche insolente di chi vuole essere Altro. Soltanto colui che ascolta
con pazienza, nell’amore-di-giustizia, è la speranza dell’Altro
come liberato, nella fede della sua parola. Soltanto egli potrà
essere maestro.
Il maestro, a partire dagli amautas
degli Incas o i tlamatines degli Atzechi in America latina, si
inclina con sacra venerazione davanti al nuovo, il debole. È
per questo che i primitivi saggi erano allo stesso tempo osservatori
della natura, inventori delle arti e scienze, medici e architetti, avvocati
e giudici degli ingiustamente trattati. Il sacerdote o il saggio compivano
tutte le professioni nelle prime città neolitiche. La pedagogica
non è soltanto la relazione del maestro-discepolo come oggi la
intendiamo. La relazione medico-malato, avvocato-cliente, ingegniere-popolazione,
psichiatra/analista-anormale, giornalista-lettore, artista-spettatore,
politico per professione-militante, sacerdote-comunità, filosofo-non
filosofo, ecc. ecc. sono relazione pedagogiche. Il medico è essenzialmente
il maestro del recupero della salute. Vedremo che nella dominazione
medica questi si arroga tutto il sapere e "sfrutta" il malato
nella sua malattia. In realtà, dovrebbe insegnare al malato (e
soprattutto al sano) ad evitare le malattie e a saperle curare con la
sua partecipazione attiva. L’autentico "professionista" (nel
senso nobile e non nello "strutturalismo funzionale") fa "professione"
di un servizio a colui che ha bisogno del suo "sapere".
Ogni professione è un sapere "con-durre" qualcuno verso
qualcosa (dalla malattia alla salute –il medico-, dalle intemperie alla
casa –l’architetto-, dall’opinione quotidiano al sapere metafisico –il
filosofo-, dalla fanciullezza allo stadio adulto –il padre, maestro-,
dalla "anormalità" alla "normalità"
–lo psicoanalista-, ecc.): dalla indigenza allo stato di autonomia,
realizzazione e alterità. In questo modo il padre con-duce il
figlio ad essere uguale con se stesso, un membro della città,
l’Altro adulto.
L’a priori di ogni pedagogica
è l’"ascoltare-la-voce-del-discepolo", la sua nuova
storia, la sua rivelazione, ciò che porta la generazione
senza possibile ripetizione, perché è unica. Il padre
liberatore, non il padre edipico, permette che il bambino sia partorito
in normalità (uscita dall’utero), gli si tagli il cordone ombelicale
(prima autonomia), superi l’allattamento con lo svezzamento, esca dalla
casa per andare a giocare e alla scuola, ma non a partire dal pro-getto
paterno-materno, bensì a partire dal pro-getto filiale, meta-fisico,
che si è rivelato nel silenzio del maestro.
Nell’adolescenza, quando le società
primitive incorporavano con il "rito di iniziazione" il giovane
nel mondo e le istituzioni adulte, c’era una "resurrezione del
conflitto edipico", perché l’irruzione definitiva della
sessualità (come pulsione) scinde l’identificazione con il padre
e la repressione dell’amore per la madre si manifesta esplicitamente.
Ma adesso, nella società in crisi, industriale e burocratica,
il giovane non può più prendere come suo ideale il "padre-famiglia"
né l’"autorità-sociale" perché entrambi
gli si manifestano come insicure, corrotte, immorali (specialmente nello
Stato neocoloniale). La "ribellione giovanile", la presenza
di una vera classe sociale emergente, nuova ("la gioventù"),
è un fenomeno proprio della società di consumo opulenta
e della situazione di oppressione delle neocolonie. La gioventù,
senza "il rito di iniziazione" che rifiuta, si oppone all’identificazione
con il padre e lo Stato-burocratico, il "sistema". D’altra
parte, tra i giovani, quelli che hanno più autocoscienza di queste
situazioni sono coloro che studiano. Per questo non è strano
che siano gli ambienti studenteschi, specialmente universitari, dove
la critica sociale mostra i suoi frutti positivi, che la identificazione
con l’imago patris si rende praticamente impossibile. Di fronte
a ciò il padre edipico (dominatore della madre e figlicida) può
adottare le seguenti attitudini pedagogicamente totalizzate, alienanti:
lasciare che la situazione "marcisca"; tentare di "fanatizzare"
i giovani; terrorizzarli con assassini e torture; sopprimere i più
coscienti (specialmente gli studenti). Tutti questi tipi di figlicidio
sociale si ribaltano contro lo stesso padre (specialmente quando è
neocoloniale), perché elimina la novità, la critica, la
possibilità della liberazione. Da parte sua, il giovane che non
vuole identificarsi con suo padre o è un "anarchizzante"
(che non ha giudizio sui valori popolari da liberare), o un "arcaizzante"
(come gli hippies), o direttamente un "fascista" (nel
cui caso si identifica con il padre-dominatore o, al contrario, cerca
un padre-dominatore nello Stato perché egli stesso era in crisi,
debole, in contraddizioni). In qualche modo, tutte queste sono maniere
ontologico-oppressive della pedagogia figlicida. Il figlio non può
esprimersi.
Al contrario, il maestro che ascolta
la voce del giovane, lo Stato che educa il suo popolo e la gioventù,
deve saper mantenere il silenzio per un certo tempo, deve lasciare che
la gioventù compia la sua responsabilità storica. Gli
adulti subito pensano che tutto è messo in pericolo: in verità
soltanto il Tutto come "sistema repressore" è ciò
che è posto in pericolo. Il pericolo è nel sistema repressore
perché egli stesso ha dominato il popolo (la madre) e per questo
si è interposto (tra il popolo e la gioventù) per reprimere
nel giovane l’amore al suo popolo libero. Nel primo edipo il castigo
del padre è bastato per reprimere l’amore verso sua madre. Nel
secondo edipo sarà già necessaria la repressione poliziesca
e finanche militare: non si sculaccia il giovane come un bambino, lo
si assassina in Ezeiza*, nella tortura, nel sequestro. Il
nuovo figlicidio dello Stato neocoloniale. Il padre uccide il figlio
perché prima ha represso la madre (la cultura popolare). Il maestro,
invece, deve ascoltare la voce della gioventù, "lasciarla
essere", darle tempo, spingerla all’azione costruttiva. Farla amare,
lavorare intensamente, esaurire la sovrabbondanza generosa della sua
energia al servizio del povero. Questo è ciò che essa
vuole, ma il maestro-dominatore lo impedisce.
Ma invertendo adesso le posizioni, il
maestro è adesso colui che appare come l’Altro. Nella Totalità
è il discepolo, il bambino, il giovane, che non è orfano
bensì ha madre e cultura popolare, padre e Stato. È adesso
il discepolo colui che deve ascoltare il maestro. Il maestro, essendo
condotto dalla rivelazione del discepolo, è potuto "uscire"
dal’antico sistema in cui si trovava (momento esistenziale analettico
della prassi dell’apprendimento dell’essere maestro); compromettendosi
con la sua prassi nelle esigenze interpellanti della rivelazione del
discepolo si è potuto situare nell’Esteriorità dell’essere,
del "sistema". "A partire da fuori", adesso sì,
è l’Altro del discepolo, e per questo può "parlare-davanti"
(pro-femi: profeta) per annunciare allo stesso discepolo il cammino
critico a partire dalla propria realtà verso un futuro autentico.
Il padre-Stato è maestro autentico quando, come Altro rispetto
alla madre-figlio, cultura popolare-gioventù-popolo, viene a
proporre il nuovo, ciò che manca; come fecondatore, come
pro-creatore di un nuovo processo, come critico che dà continuità
a ciò che il figlio già è. Ciò che
il maestro meta-fisico e lo Stato liberatore aggregano a loro figlio-popolo
è il senso critico di ciò che già-si-è.
Al bambino, alla gioventù, al popolo manca (se non le
mancasse non sarebbe necessaria la pedagogica: tutti sarebbero adulti
e maturi fin dall’origine: non ci sarebbe storia) di discernere in ciò
che già-possiedono tra ciò che gli ha introiettato
il sistema (e non sono se non per alienazione) e ciò che in realtà
sono. Il discernimento tra il peggiore che il discepolo-popolo
"possiede" (ciò che è introiettato che lo nega
come nuovo perché lo afferma solo come "lo Stesso")
e il migliore che già "è" (ma che deve
essere meglio ancora di più nel suo poter-essere) è ciò
che gli consegna come dono a partire dall’esteriorità il vero
maestro, il pro-feta. Discernere tra ciò che l’oppressore ha
costituito nel colonizzato come la sua maschera, e il bel volto del
colonizzato come autoctono, altro, mostrare tale distanza, fare autovalorizzare
l’Alterità è il compito del maestro. Questo maestro non
realizza il "contratto pedagogico" che il precettore ha proposto
all’Emile (che doveva obbedirgli assolutamente); quel maestro
conta già con ciò che il discepolo è, conta inoltre
con la madre, con la cultura popolare, lancia il figlio, la gioventù,
il popolo verso ciò che è, verso ciò che si ama,
verso ciò che si era dimenticato per tante repressioni, ma era
egli stesso come unico, come Altro. Ciò che il discepolo già
è non è una natura neutra (la nature di Rousseau
che maschera la cultura borghese imperiale), bensì è una
nuova storia: il figlio dis-tinto, con esigenze sacre, uniche, concrete.
L’orfano ha esigenze "universali" "umane" (quelle
della cultura di fatto sempre imperante); il figlio ha esigenze
reali, storiche, individuali, intrasferibili (quella della cultura popolare
repressa, quella delle relazioni materne negate, quelle proprie come
unto del tempo dell’origine).
Politicamente la pedagogica latinoamericana
comincia con l’accogliere la rivelazione dell’"essere latinoamericano",
la nostra voce. Lì comincia anche la filosofia che in
verità è la "pedagogica analettica della liberazione
storica". Si tratta dell’essere latinoamericano dell’essere nazionale,
della cultura, progetto ed essere dei gruppi emarginati, della gioventù,
del bambino latinoamericano (come il gamín di Bogotà)
… La simbolica all’inizio dei ultimi quattro capitoli della Filosofía
Etica de la liberación vogliono esprimere la volontà
del lasciar parlare la nostra America latina, voce in verità
spenta, roca per la sofferenza, ma piena di speranza …
Il bambino-popolo, il povero della pedagogica,
non è un ente orfano davanti ad un ego maestro
come ci insegna la pedagogia vigente. Il bambino-popolo è l’Esteriorità
originaria: fonte del futuro, del rinnovamento, della vita dis-tinta,
dell’av-ventura familiare e politica. Alterità originaria del
nuovo mondo.
(traduzione dallo spagnolo di Antonino Infranca)