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Francis Bacon, Portrait, 1949

 

 

 

 

 

 

La pedagogia della liberazione

di Enrique Dussel

 

"La gioventù non chiede più.
Esige che le si riconosca il diritto
ad esprimere il proprio pensiero"
(Manifesto degli studenti di Cordoba, 1918)

"Ci fu una pausa.
Speranzosi, gli studenti convocarono una riunione (non una manifestazione)
per il 2 ottobre nella piazza Tlatelolco.
Nel momento in cui i partecipanti, concluso il corteo,
si disponevano ad abbandonare il luogo,
la piazza fu accerchiata dall’esercito e iniziò l’eccidio.
Alcune ore più tardi si tolse l’assedio. Quanti morirono?
[…] The Guardian, dopo un’indagine precisa,
considera come una cifra possibile: 325 morti […].
Il 2 ottobre 1968 è finito il movimento studentesco […].
Fu una riproduzione istintiva
che ha preso la forma di un rituale di espiazione"
Octavio Paz, Posdata, pp. 38-40).

 

 

Parole preliminari

La pedagogica latinoamericana della liberazione continua il discorso già intrapreso; l’uomo è adesso il padre, la donna è la madre, il nuovo o l’Altro è adesso il figlio. La pedagogica non si deve confondere con la pedagogia. Quest’ultima è la scienza dell’insegnamento o dell’apprendimento. La pedagogica, invece, è la parte della filosofia che pensa la relazione faccia-a-faccia padre-figlio, maestro-discepolo, medico/psicologo-malato, filosofo-non filosofo, politico-cittadino, ecc.; cioè, il pedagogico, in questo caso, ha l’ampio spettro di significato di ogni tipo di "disciplina" (ciò che si riceve dall’altro) in opposizione a "invenzione" (ciò che si scopre da se stessi). La pedagogica, inoltre, ha la particolarità di essere il punto di convergenza e di passaggio reciproco dall’erotica alla politica –che tratteremo in un prossimo saggio. In effetti, la pedagogica parte dal figlio del focolare erotico per concludere il suo compito nell’adulto della società politica; d’altro canto, parte dal bambino nell’istituzione pedagogico-politica (cultura, scuola, ecc.) per terminare la sua funzione nell’uomo o nella donna preparati alla vita erotica feconda. E’ evidente che inoltre la pedagogica parte e si conclude nella stessa erotica (dal figlio ai genitori nell’ambito del focolare) e politica (dall’alunno fino al maestro o pedagogo). Questa quadridimensionalità complica un po’ l’esposizione di questo saggio, ma la natura stessa della pedagogica ce lo impone. […]

Descrizione meta-fisica della pedagogica

Cominciamo adesso il superamento dell’ontologia pedagogica della dominazione, scoprendo l’esteriorità del figlio in una pedagogica della liberazione, che è un’anti-pedagogia del sistema, e che contro Hegel dovremmo definirla come "l’arte di fare l’uomo non-situato [no-instalado]".

L’ontologia pedagogica è dominazione perché il figlio-discepolo è considerato come un ente nel quale si devono depositare conoscenze, attitudini, "lo Stesso" che è il maestro o precettore. Quella dominazione (freccia b dello schema 2) include il figlio dentro la Totalità (freccia a dello stesso schema): lo aliena. In questo caso il figlio-discepolo è l’educabile: l’educato è il frutto, effetto della causalità educatrice. È una causalità ontica, che pro-duce qualcosa in qualcosa. Il pro-dotto (il "condotto" davanti alla vista o alla ragione che valuta il risultato) è un adulto formato, informato, costituito secondo il fondamento o pro-getto pedagogico: "lo Stesso" che il padre, maestro, sistema che già è. Il superamento dell’ontologia significa aprirsi a un ambito al di là dell’"essere" pedagogico, imperante, vigente, pre-esistente. Si tratta di una meta-fisica.

I pro-genitori, coloro che generano qualcuno "davanti", come abbiamo visto nel § 44 della Erotica*, quando decidono di dare l’essere al figlio, si aprono davanti al futuro storico propriamente detto, davanti a ciò che av-viene come l’impossibile, come ciò che non è possibilità a partire da me e dal nostro pro-getto. L’"essere" del figlio è realtà al di là dell’"essere" dell’ontologia. Il figlio è l’Altro: altro che i pro-genitori; da sempre "altro". Non può essere il pro-getto di loro, bensì li trascende. Non si tratta della semplice trascendenza anche ontologica, per la quale qualcuno, come centro del suo mondo e sempre ne "lo Stesso", si rovescia in questo mondo, com-prendendo l’orizzonte alla luce dell’essere. È la trascendenza meta-fisica propriamente detta, poiché i pro-genitori vanno al di là del loro essere, del loro poter-essere, al di là della più estrema possibilità del loro mondo: vanno fino all’altro mondo, fino alla costituzione reale di qualcun "altro". Riguardo al figlio i pro-genitori, perché non sono semplici progenitori di un animale o di un individuo zoologico (dove la specie è una totalità insuperabile), non sono propriamente la causa, né il figlio un pro-dotto o effetto; è figlio, non è soltanto un ente. I pro-genitori sono pro-creanti. Con la nozione di pro-creazione indichiamo non un atto causale, bensì un momento di fecondità. Con la parola "fecondità" vogliamo segnalare un momento dell’essere umano con il quale si trascende meta-fisicamente costituendo un altro mondo, un altro uomo, o meglio: l’Altro. È un atto meta-fisico (e non ontico; non potendo propriamente essere atto ontologico) con il quale si vuole indicare l’abissale separazione dell’instaurazione di qualcuno dis-tinto e non di qualcosa dif-ferente. Se l’eros è l’amore del fratello-fratello nell’entusiasmo dell’assemblea, l’agàpe è esattamente amore per l’Altro che non-ancora è reale. Il Desiderio, che abbiamo chiamato "amore-di-giustizia" (nel § 16 della Erotica), per il nulla che non-è ancora è l’amore gratuito per eccellenza. Il faccia-a-faccia dell’uomo-donna si trascende nel nuovo dove gli amati vedono il volto dell’Altro, l’Altro per eccellenza: il figlio che ancora non hanno pro-creato. Il faccia-a-faccia del fratello-fratello, del cittadino-cittadino accetta il giovane, la gioventù (non come gruppo di giovani, bensì come ciò che fa tale il giovane: la giovinezza, come contraria alla vecchiaia, per esempio), accoglie il discepolo come colui che concede spazio a ciò che verrà a partire dall’al di là dell’essere vigente. È certo che il figlio-bambino-discepolo non è mai un eguale, né un differente, né un interlocutore "all’altezza". Il figlio è dis-tinto a partire dalla sua origine, qualcuno nuovo, storia escatologica, messianica.

La paternità o maternità possono essere giocate come causalità. In questo caso il figlio deve essere il pro-dotto di ciò che è disposto riguardo alla sua vita, alla sua carriera, al suo futuro: "lo Stesso". La filialità non sarebbe così se non la relazione, che unisce l’effetto alla causa, il rispondere a ciò che è pro-dotto in lui, il rispondere alle aspettative poste nell’agire pedagogico, che piuttosto sembrerebbe addomesticamento, condizionamento ideologico, preparazione al funzionamento dentro il sistema. Se la paternità e la maternità sono fecondità nella gratuità meta-fisica, il volere avere qualcun altro, l’Altro, perché affermi, confermi e trascenda l’amore erotico, in questo la filialità è libertà, liberazione, rispetto, novità, storia autentica. Causalità-effetto è un agire ontico fondato ontologicamente; paternità-filialità è un momento meta-fisico transontologico che costruisce la novità della pedagogica. Se l’ammirazione estatica davanti al volto dell’Altro (dell’erotica o della politica) come presenza dell’assenza del mistero, è l’esperienza umana adulta, l’apertura davanti al volto non-ancora del figlio desiderato, è il rispetto davanti all’estremamente alterativo. Il figlio che già-è è continuità storica dei pro-genitori nella tradizione e il rischio (e in questo senso uomo e donna sono più alterativi nel loro primo incontro), ma "davanti" (se vale la parola) al figlio amato che ancora-non è l’amore è agàpe, è la pienezza umana in quanto tale, è dove l’uomo semplicemente desidera dare la realtà all’Altro; non dare una forma all’ente (pro-dotto, in-formazione), bensì la costituzione alterativa a qualcuno. Pro-durre, anche la più geniale opera d’arte, è fare avanzare un ente nel mondo; pro-creare è lasciare essere altro mondo nuovo; è aprire a partire dalla pulsione alterativa suprema la possibilità di un testimone che dall’al di là dell’essere è per sempre il giudizio del mondo.

La pedagogia è essenzialmente la bipolarità meta-fisica del faccia-a-faccia di ciò che è precedente all’Altro, ma come davanti a ciò che gli è sempre successivo. Il figlio, il pro-creato dai padri (il prius) è ciò che arriva più lontano perché è più giovane. Esiste, dunque, una diacronia (una temporalità non coetanea o contemporanea) che è molto diversa dalla sincronia dell’erotica e della politica, e che le rende entrambi possibili. La discontinuità della temporalità pedagogica è essenzialmente diacronica perché consiste, giustamente, nella trasmissione per transustanziazione –come dice Levinas- dell’eredità umana alle nuove generazioni: la gioventù. Ma questa trasmissione non si realizza per differenziazione generazionale di un’identità umana, bensì che l’eredità è raccolta nella sua somiglianza per la dis-tinzione unica, nuova, radicale del giovane figlio, discepolo. La nozione di tradizione vuole negare la nozione di passiva ripetizione, imitazione, rimembranza. La tradizione è ri-creazione nel suo doppio senso: creare di nuovo e festeggiare celebrando l’assumere a partire dal nulla (la libertà del figlio) la storia già costituita. Questo andare passando dall’esteriorità in esteriorità, di totalità ad alterità, discontinuamente, come con salti, fa della specie umana una specie analogica: una specie storica, non semplicemente e-volutiva e dialettica, bensì propriamente dis-evolutiva e analettica.

È per questo che la paternità-maternità non può occultare la sua anteriorità, la sua tradizione, il suo Stato-cultura. Il maestro non è un precettore asettico, identificato con gli dei o la natura. Il maestro è un tale, di un sesso, un’età determinata, un popolo e uno Stato, una nazione, una classe sociale, un’epoca dell’umanità, con le sue dottrine e teorie […]. Non ha quindi diritto a presentarsi davanti al discepolo come se avesse tutti i diritti, e specialmente il diritto senza limite di farsi obbedire, come il precettore di Emile.

D’altra parte, il figlio-discepolo non è orfano, benché glielo abbiano detto. La pedagogia vigente lo pretende per manipolarlo addomesticandolo. Ma non è così. "L’Altro non esiste: tale è la fede razionale, l’incurabile credenza della ragione [dominatrice] umana. Identità=realtà, come se, alla fin dei conti, tutto dovesse essere, assolutamente e necessariamente, uno e lo stesso –ci dice Antonio Machado, il grande poeta metafisico. Ma l’altro non si lascia eliminare; sussiste, persiste; è l’osso duro da rodere in cui la ragione perde i denti. Abel Martín, con fede poetica, non meno umana che la fede razionale, credeva nell’altro, nell’essenziale Eterogeneità dell’essere, come se dicessimo nell’incurabile alterità che affetta l’uno". Questa formidabile formulazione filosofica del poeta ci aiuta ad esprimere il nostro pensiero: il figlio, l’Altro della pedagogica, è qui, in tutti i modi e contro tutte le dominazioni pedagogiche, contro le imperiali o neocoloniali, nazionali oppressive o di classi dominatrici, della cultura illuminata o altre. L’Altro, il figlio, non ammette il certificato che proclama la sua morte; si ribella, si ribellerà sempre, sempre ci saranno Riforme della Cordoba del 1918, o Cordobazos o Tlatelolcos del 1968*. Volere eliminare il figlio altro è lo stesso che pretendere che sia orfano. Senza precedenti gli si può assegnare la quota dif-ferita del sistema: "lo Stesso". In questo modo, il figlio latinoamericano per antonomasia "non [lo] si afferma in quanto meticcio, bensì come astrazione: è un uomo. Diventa figlio del nulla. Egli comincia da se stesso". Ma questa impossibilità è frutto della pedagogia imperiale e illuminata, nazionale. "Figlio di nessuno" è colui che non ha cultura propria, né cultura popolare. "Figlio di nessuno" è colui che ha negato la madre per il padre e il padre per qualcuno che da parte sua lo ha dominato (il suo padre creolo è stato ugualmente dominato). Questo "figlio di nessuno" è esattamente l’Emile che può essere educato dominandolo. Ma non è così. Il figlio americano ha per madre l’india, la creola, la donna latinoamericana, la cultura popolare che genera dal suo seno la struttura più resistente all’oppressione imperiale. Ha anche padre: è il figlio assassinato o oppresso, dello spagnolo che ha dimenticato suo figlio, del creolo umiliato. Per questo è figlio dei colonizzati ed egli stesso colonizzato a metà, perché nel corso della sua storia ha già memoria di molte liberazioni, anche a metà.

Né il precettore è autonomo o incondizionato, né il figlio lo è da parte sua. Entrambi sono momenti della Totalità, ma entrambi sono allo stesso tempo Esteriorità meta-fisica. Questa doppia dialettica analettica costituisce l’anti-pedagogica o pedagogica della liberazione, situazione eroticamente anti-edipica e politicamente post-imperiale, filiale e popolare (antifiglicidio e antiplebicidio**). Il faccia-a-faccia pedagogico è, allora, il rispetto per l’Altro, sia questi figlio o maestro. Per il pro-genitore e maestro l’Altro è il figlio-discepolo: il sacro davanti al quale nessun amore è sufficiente, nessuna speranza eccessiva, nessuna fede adeguata. Per il figlio-popolo l’Altro è il pro-genitore e maestro: il precedente, presenza epifenomenica creatrice originaria, alla quale si deve l’essere come realtà, e davanti al quale il pagare il debito è meta-fisicamente impossibile. I pro-genitori concedono l’essere come dono! Il nuovo non può mai rispondere con la stessa moneta. Solo gli riuscirà, a suo tempo, se è suo desiderio, rovesciare nuovamente la sovrabbondanza nella gratitudine della nuova pro-creazione, ma dis-tinta, mai "la stessa", sempre novità storica che impedisce che il circolo dell’eterno ritorno ontologico ritorni ad imporre la sua ferrea dominazione nell’"essere è, il non essere non è". Il figlio nuovo è la effettiva dimostrazione del superamento e della morte dell’ontologia parmenidea o hegeliana. Il pro-genitore e il maestro vecchio è la presenza della anteriorità storica che ci nega di essere Robinson Crusoé, "dio" idolatrico, pretesa panteistica di eternità dominatrice. Né il precettore né il discepolo sono incondizionati. La incondizionalità è la falsa maniera di superare l’edipo e la dominazione politico-pedagogica, poiché il padre si maschera dietro l’asettico precettore e l’ideale pedagogico dello Stato neocoloniale liberale. Di fatto la imago patris reprime il figlio, ma senza avvertirlo; lo Stato del "centro" e neocoloniale, per mediazione della cultura imperiale e illuminata, si identifica alla cultura universale, alla cultura senz’altro, alla natura umana, senza ammettere coscienza critica: è l’impero dell’ideologia attraverso la comunicazione collettiva.

Al contrario, il padre, che si prolunga nel precettore e lo Stato non ha motivo di interporsi tra la madre-figlio, cultura popolare-popolo, se la madre non ha totalizzato il figlio o la cultura popolare il popolo. Ma, lo abbiamo visto, la madre-cultura popolare tende a totalizzarsi nel figlio-popolo quando nella relazione uomo-donna o Stato-cultura popolare non si dà la soddisfazione dovuta. La donna insoddisfatta totalizza il figlio: il padre si sente sostituito; la cultura popolare totalizza il popolo: lo Stato neocoloniale e oligarchico scopre il suo nemico potenziale o attuale (il nazionalismo popolare di liberazione). La violenza reprimitrice del padre-Stato sottomette al nuovo (figlio-popolo), ma allo stesso tempo produce la coscienza morale colpevole: perché il figlio desidererebbe sua madre, così come il popolo desidererebbe vivere la sua cultura popolare giudicata barbara, non civilizzata, analfabeta. La repressione dell’amore-di-giustizia verso la propria esteriorità è la violenza introiettata dalla pedagogica nella coscienza servile del dominato (figlio-popolo). Se, invece, il padre soddisfa la madre come uomo-donna, così che la donna deve essersi liberata (raggiungendo nel faccia-a-faccia la pienezza dell’orgasmo storico), la donna non totalizza il figlio. In questo caso, il padre appare alla bipolarità mammario-boccale (madre-figlio/figlia) come l’Esteriorità, come l’Altro, come il povero che interpella dall’al di là del principio di totalizzazione: implora come maestro, come pro-feta che mostra il cammino futuro e che chiama alla "vocazione" dell’alterità. L’uscita dall’utero, l’uscita dallo svezzamento, l’uscita dalla casa per il gioco, la scuola, il lavoro, alcune delle tante uscite dalla Totalità verso l’Alterità, ha il padre come suo "con-duttore": peda-gogo (colui-che-dirige-il-bambino). Allo stesso modo, se lo Stato nuovo, sociale, postindustriale e democratico, il liberatore, mantiene il pro-getto del popolo oppresso, lo soddisfa nella giustizia sociale reale, la cultura popolare non totalizzerà il popolo come principio opposto alle istituzioni coattive, reprimitrici o conduttore dello Stato. Al contrario, sarebbe l’istituzione che servirebbe al fine della crescita del popolo con ciò che ha ricevuto, con ciò che è: la sua propria cultura dis-tinta, latinoamericana, fino adesso in parte oppressa e in maggior parte anche esteriorità interpellante.

Il bambino, l’Altro, deve essere un anti-Emile, "il figlio di Malinche"; l’origine non disprezzata, bensì il modo di accettarla. Figli di madre amerindia. Attaccati alla sua carne, allattandoci ai suoi seni, entriamo nella storia, nella continuità-discontinuità della tradizione. Non siamo orfani. Semplicemente riconosciamo le nostre umili e reali origini! Amando nostra madre riconosciamo nostro padre, per molto fallocratico e dispotico che sia stato. O meglio, amiamo nostra nonna e nostro nonno. I nostri padri sono stati piuttosto il popolo della cristianità coloniale, la creola che da parte sua ha avuto nuovamente per padre l’oligarchia neocoloniale: Margherita si è trasformata in Margot. Siamo figli oscuri dei margini della storia. Accettando la nostra origine potremo essere il precettore di cui ha bisogno il figlio latinoamericano. Egli, nostro figlio, figlio di coloro che hanno accettato il loro trauma, la loro oppressione, che hanno saputo perdonare la madre e il padre, avrà la prima madre latinoamericana che potrà allattarlo con il soave latte dei simboli della propria cultura. Il padre, il meticcio, figlio dei conquistatori, delle oligarchie e delle ribellioni e rivoluzioni popolari è già il padre-Stato che non si interpone tra il figlio che beve dal seno materno. Al contrario, li abbraccia entrambi e li porta alla loro realizzazione piena nel proprio e alterativo compimento.

La pedagogia meta-fisica lancia la sua interpretazione in una agonica speranza, perché:

"Qualcuno mi sta ascoltando e non sanno,

ma quelli che canto e che lo sanno,

continuano a nascere e riempiranno il mondo".

In effetti la pedagogica si gioca essenzialmente nella bipolarità parola-udito, interpellazione-ascolto, accoglimento dell’Alterità per servire l’Altro come altro. Tutto questo a un livello erotico e politico, perché "se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo … non voglio dire che un simile tentativo di applicare la psicoanalisi alla comunità civile non avrebbe senso o sarebbe … una patologia delle comunità civili", o una diagnosi culturale della patologia individuale. Il passaggio del livello propriamente erotico-familiare a quello erotico-politico è dato dalla presenza di una doppia situazione edipica: il primo Edipo della fanciullezza intorno ai quattro anni e il secondo Edipo dall’adolescenza alla gioventù (dove il padre è allo stesso tempo "mio" padre e lo Stato).

Il figlio è lì; poteva non esserci, ma semplicemente non lo ha voluto, perché glielo è stato sempre evitato o perché è stato assassinato nell’aborto. Ma lasciando da parte questi No-all’Altro-pedagogico (figlicidio fisico), la perversità pedagogica per eccellenza, consideriamo la relazione:

(Padre-maestro)à (figlio-discepolo, l’Altro)

Il bambino che è appena nato piange: è il suo primo segno comunicante, la sua prima parola, anche senza senso però già gestuale e propedeuticamente significante. Abbiamo chiamato "coscienza morale" il saper ascoltare la voce dell’Altro. Non c’è nessuna parola tanto indigente, di un povero tanto povero, bisognoso, mancante di ogni sicurezza, integrità, protezione, alimento, ospitalità, che un bambino appena nato. Per questo la posizione del bambino è bidirezionale: "nella paura il bambino retrocede davanti all’oggetto che lo terrorizza, ma retrocede in direzione di chi considera la sua protezione; retrocede verso il più forte … Cerca difesa, aiuto e protezione insieme all’adulto che gli appartiene biologicamente, cioè insieme alla madre". Esiste, dopo essere stato partorito all’esteriorità, un istinto specifico di criptofilia (amore di proteggersi nell’occulto, come quando il bambino si copre con le lenzuola il volto per sentirsi sicuro nella sua culla), pulsione di totalizzazione e anelito di ritorno alla sicurezza intrauterina. È per questo che l’istinto di "afferarsi-alla-madre" è il primo e più pressante; in lui si coniuga l’avere calore, sicurezza e protezione e alimento. Afferrato con le mani, i piedi e la bocca alla madre (alla pelle della madre primitiva e ai suoi seni alimentatori), il bambino si apre con fiducia alla realtà.

Ma allo stesso tempo c’è un istinto di ricerca, di curiosità, di separazione, di migrazione, di autonomia, pulsione alterativa che si dirige alla costituzione di un proprio mondo: le prime esperienze, il gioco, il gioco di nascondersi e ri-apparire. In questo momento il padre, come colui che non è legato sessualmente al bambino gioca il suo ruolo di eterogeneità pedagogica: è l’Altro del bambino-madre, il maestro di esteriorità erotica e politica. Il precettore, allora, non deve interporsi tra la madre-figlio (e se si "inter-pone" è che si sono totalizzati perversamente madre-figlio, per insoddisfazione della donna-madre davanti all’uomo-padre), bensì che deve farsi avanti come la esteriorità interpellante. In questa posizione di libertà e servizio gratuito (come colui che nulla cerca per sé), che può ascoltare la voce del figlio: "Ho fame!". Fame di essere, fame di alimento, fame di cultura, fame di attualità. Ascoltare la voce del bambino-discepolo, l’Altro nell’indigenza, è il primo dovere del maestro.

L’Altro della pedagogica, il bambino-discepolo in primo luogo, nella sua posizione reale, normale o ana-edipica, dice che ha bisogno nella sua esteriorità di quello a cui ha diritto, oltre i diritti che gli assegna il sistema, la sua biografia, i suoi progetti, le sue speranze, i suoi aneliti. Saper ascoltare il discepolo è poter essere maestro; è sapere inclinarsi davanti al nuovo; è avere il tema stesso del discorso propriamente pedagogico. Il maestro non parlerà né sugli dei prestabiliti né sulla natura (che di fatto è la cultura oppressiva del precettore rousseauniano) che precede l’alunno. L’autentico maestro prima ascolterà la parola obiettante, provocante, interpellante, anche insolente di chi vuole essere Altro. Soltanto colui che ascolta con pazienza, nell’amore-di-giustizia, è la speranza dell’Altro come liberato, nella fede della sua parola. Soltanto egli potrà essere maestro.

Il maestro, a partire dagli amautas degli Incas o i tlamatines degli Atzechi in America latina, si inclina con sacra venerazione davanti al nuovo, il debole. È per questo che i primitivi saggi erano allo stesso tempo osservatori della natura, inventori delle arti e scienze, medici e architetti, avvocati e giudici degli ingiustamente trattati. Il sacerdote o il saggio compivano tutte le professioni nelle prime città neolitiche. La pedagogica non è soltanto la relazione del maestro-discepolo come oggi la intendiamo. La relazione medico-malato, avvocato-cliente, ingegniere-popolazione, psichiatra/analista-anormale, giornalista-lettore, artista-spettatore, politico per professione-militante, sacerdote-comunità, filosofo-non filosofo, ecc. ecc. sono relazione pedagogiche. Il medico è essenzialmente il maestro del recupero della salute. Vedremo che nella dominazione medica questi si arroga tutto il sapere e "sfrutta" il malato nella sua malattia. In realtà, dovrebbe insegnare al malato (e soprattutto al sano) ad evitare le malattie e a saperle curare con la sua partecipazione attiva. L’autentico "professionista" (nel senso nobile e non nello "strutturalismo funzionale") fa "professione" di un servizio a colui che ha bisogno del suo "sapere". Ogni professione è un sapere "con-durre" qualcuno verso qualcosa (dalla malattia alla salute –il medico-, dalle intemperie alla casa –l’architetto-, dall’opinione quotidiano al sapere metafisico –il filosofo-, dalla fanciullezza allo stadio adulto –il padre, maestro-, dalla "anormalità" alla "normalità" –lo psicoanalista-, ecc.): dalla indigenza allo stato di autonomia, realizzazione e alterità. In questo modo il padre con-duce il figlio ad essere uguale con se stesso, un membro della città, l’Altro adulto.

L’a priori di ogni pedagogica è l’"ascoltare-la-voce-del-discepolo", la sua nuova storia, la sua rivelazione, ciò che porta la generazione senza possibile ripetizione, perché è unica. Il padre liberatore, non il padre edipico, permette che il bambino sia partorito in normalità (uscita dall’utero), gli si tagli il cordone ombelicale (prima autonomia), superi l’allattamento con lo svezzamento, esca dalla casa per andare a giocare e alla scuola, ma non a partire dal pro-getto paterno-materno, bensì a partire dal pro-getto filiale, meta-fisico, che si è rivelato nel silenzio del maestro.

Nell’adolescenza, quando le società primitive incorporavano con il "rito di iniziazione" il giovane nel mondo e le istituzioni adulte, c’era una "resurrezione del conflitto edipico", perché l’irruzione definitiva della sessualità (come pulsione) scinde l’identificazione con il padre e la repressione dell’amore per la madre si manifesta esplicitamente. Ma adesso, nella società in crisi, industriale e burocratica, il giovane non può più prendere come suo ideale il "padre-famiglia" né l’"autorità-sociale" perché entrambi gli si manifestano come insicure, corrotte, immorali (specialmente nello Stato neocoloniale). La "ribellione giovanile", la presenza di una vera classe sociale emergente, nuova ("la gioventù"), è un fenomeno proprio della società di consumo opulenta e della situazione di oppressione delle neocolonie. La gioventù, senza "il rito di iniziazione" che rifiuta, si oppone all’identificazione con il padre e lo Stato-burocratico, il "sistema". D’altra parte, tra i giovani, quelli che hanno più autocoscienza di queste situazioni sono coloro che studiano. Per questo non è strano che siano gli ambienti studenteschi, specialmente universitari, dove la critica sociale mostra i suoi frutti positivi, che la identificazione con l’imago patris si rende praticamente impossibile. Di fronte a ciò il padre edipico (dominatore della madre e figlicida) può adottare le seguenti attitudini pedagogicamente totalizzate, alienanti: lasciare che la situazione "marcisca"; tentare di "fanatizzare" i giovani; terrorizzarli con assassini e torture; sopprimere i più coscienti (specialmente gli studenti). Tutti questi tipi di figlicidio sociale si ribaltano contro lo stesso padre (specialmente quando è neocoloniale), perché elimina la novità, la critica, la possibilità della liberazione. Da parte sua, il giovane che non vuole identificarsi con suo padre o è un "anarchizzante" (che non ha giudizio sui valori popolari da liberare), o un "arcaizzante" (come gli hippies), o direttamente un "fascista" (nel cui caso si identifica con il padre-dominatore o, al contrario, cerca un padre-dominatore nello Stato perché egli stesso era in crisi, debole, in contraddizioni). In qualche modo, tutte queste sono maniere ontologico-oppressive della pedagogia figlicida. Il figlio non può esprimersi.

Al contrario, il maestro che ascolta la voce del giovane, lo Stato che educa il suo popolo e la gioventù, deve saper mantenere il silenzio per un certo tempo, deve lasciare che la gioventù compia la sua responsabilità storica. Gli adulti subito pensano che tutto è messo in pericolo: in verità soltanto il Tutto come "sistema repressore" è ciò che è posto in pericolo. Il pericolo è nel sistema repressore perché egli stesso ha dominato il popolo (la madre) e per questo si è interposto (tra il popolo e la gioventù) per reprimere nel giovane l’amore al suo popolo libero. Nel primo edipo il castigo del padre è bastato per reprimere l’amore verso sua madre. Nel secondo edipo sarà già necessaria la repressione poliziesca e finanche militare: non si sculaccia il giovane come un bambino, lo si assassina in Ezeiza*, nella tortura, nel sequestro. Il nuovo figlicidio dello Stato neocoloniale. Il padre uccide il figlio perché prima ha represso la madre (la cultura popolare). Il maestro, invece, deve ascoltare la voce della gioventù, "lasciarla essere", darle tempo, spingerla all’azione costruttiva. Farla amare, lavorare intensamente, esaurire la sovrabbondanza generosa della sua energia al servizio del povero. Questo è ciò che essa vuole, ma il maestro-dominatore lo impedisce.

Ma invertendo adesso le posizioni, il maestro è adesso colui che appare come l’Altro. Nella Totalità è il discepolo, il bambino, il giovane, che non è orfano bensì ha madre e cultura popolare, padre e Stato. È adesso il discepolo colui che deve ascoltare il maestro. Il maestro, essendo condotto dalla rivelazione del discepolo, è potuto "uscire" dal’antico sistema in cui si trovava (momento esistenziale analettico della prassi dell’apprendimento dell’essere maestro); compromettendosi con la sua prassi nelle esigenze interpellanti della rivelazione del discepolo si è potuto situare nell’Esteriorità dell’essere, del "sistema". "A partire da fuori", adesso sì, è l’Altro del discepolo, e per questo può "parlare-davanti" (pro-femi: profeta) per annunciare allo stesso discepolo il cammino critico a partire dalla propria realtà verso un futuro autentico. Il padre-Stato è maestro autentico quando, come Altro rispetto alla madre-figlio, cultura popolare-gioventù-popolo, viene a proporre il nuovo, ciò che manca; come fecondatore, come pro-creatore di un nuovo processo, come critico che dà continuità a ciò che il figlio già è. Ciò che il maestro meta-fisico e lo Stato liberatore aggregano a loro figlio-popolo è il senso critico di ciò che già-si-è. Al bambino, alla gioventù, al popolo manca (se non le mancasse non sarebbe necessaria la pedagogica: tutti sarebbero adulti e maturi fin dall’origine: non ci sarebbe storia) di discernere in ciò che già-possiedono tra ciò che gli ha introiettato il sistema (e non sono se non per alienazione) e ciò che in realtà sono. Il discernimento tra il peggiore che il discepolo-popolo "possiede" (ciò che è introiettato che lo nega come nuovo perché lo afferma solo come "lo Stesso") e il migliore che già "è" (ma che deve essere meglio ancora di più nel suo poter-essere) è ciò che gli consegna come dono a partire dall’esteriorità il vero maestro, il pro-feta. Discernere tra ciò che l’oppressore ha costituito nel colonizzato come la sua maschera, e il bel volto del colonizzato come autoctono, altro, mostrare tale distanza, fare autovalorizzare l’Alterità è il compito del maestro. Questo maestro non realizza il "contratto pedagogico" che il precettore ha proposto all’Emile (che doveva obbedirgli assolutamente); quel maestro conta già con ciò che il discepolo è, conta inoltre con la madre, con la cultura popolare, lancia il figlio, la gioventù, il popolo verso ciò che è, verso ciò che si ama, verso ciò che si era dimenticato per tante repressioni, ma era egli stesso come unico, come Altro. Ciò che il discepolo già è non è una natura neutra (la nature di Rousseau che maschera la cultura borghese imperiale), bensì è una nuova storia: il figlio dis-tinto, con esigenze sacre, uniche, concrete. L’orfano ha esigenze "universali" "umane" (quelle della cultura di fatto sempre imperante); il figlio ha esigenze reali, storiche, individuali, intrasferibili (quella della cultura popolare repressa, quella delle relazioni materne negate, quelle proprie come unto del tempo dell’origine).

Politicamente la pedagogica latinoamericana comincia con l’accogliere la rivelazione dell’"essere latinoamericano", la nostra voce. Lì comincia anche la filosofia che in verità è la "pedagogica analettica della liberazione storica". Si tratta dell’essere latinoamericano dell’essere nazionale, della cultura, progetto ed essere dei gruppi emarginati, della gioventù, del bambino latinoamericano (come il gamín di Bogotà) … La simbolica all’inizio dei ultimi quattro capitoli della Filosofía Etica de la liberación vogliono esprimere la volontà del lasciar parlare la nostra America latina, voce in verità spenta, roca per la sofferenza, ma piena di speranza …

Il bambino-popolo, il povero della pedagogica, non è un ente orfano davanti ad un ego maestro come ci insegna la pedagogia vigente. Il bambino-popolo è l’Esteriorità originaria: fonte del futuro, del rinnovamento, della vita dis-tinta, dell’av-ventura familiare e politica. Alterità originaria del nuovo mondo.

 

(traduzione dallo spagnolo di Antonino Infranca)