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Forum: L'immagine digitale Introduzione L’immagine digitale è ormai da vari anni tema d’accese discussioni critiche e di tentativi d’interpretazione teorica. Avendo scelto di dedicare alla questione dell’immagine il primo numero di Kainos, non potevamo non trattarne la tipologia digitale, che è la più recente e la più inquietante di tutte. Abbiamo, quindi, deciso di realizzare un forum su di essa, in cui poter confrontare le molte ipotesi interpretative e tentare di fissare le poche (presunte) certezze. Molti sono i problemi che l’immagine digitale pone all’estetica e al pensiero filosofico in generale. Di essa inquieta innanzitutto il suo essere numerico. Paradossalmente l’immagine digitale non è un semplice "prodotto" di calcolo numerico ma è il calcolo stesso che si rende sensibile. Una decina d’anni fa Philippe Queau, per descrivere la fenomenologia di tali immagini, scomodava Platone e la sua dottrina degli enti numerici come intermediari tra il sensibile e l’intelligibile. Negli stessi anni Mario Costa proponeva il concetto d’epifania in sé ritratta, per dar conto del loro aspetto ambivalente, massimamente chiaro e, proprio per tale ragione, massimamente oscuro. Un'altra caratteristica dell’immagine digitale è il suo sfuggire alla dicotomia icona/simulacro. La loro strutturale interattività di fruizione ne fa delle cose, delle neo-realtà, come ha ben visto Fausto Colombo. Una conseguenza di tutto ciò è che forse di tali immagini non si può neanche dire che siano "immagini"; non solo perché si danno come cose con cui fare i conti ma anche per il fatto che il loro apparire non è "ontologicamente" legato al visibile, come non lo è all’udibile o al toccabile (e, perché no, all’annusabile). Si tratta piuttosto di strutture generative di possibili sensibili. Nel mondo numerico di questi nuovi sensibili è come se la grande "utopia" pitagorica dell’universale commensurabilità degli enti trovasse finalmente realizzazione. Tuttavia, come quell’antica anche questa modernissima si caratterizza come tentativo di eliminare dalle cose la loro irrazionalità generata dalla loro relativa incommensurabilità. Abbiamo pensato di organizzare il forum a partire dal polemico/dialogo di alcune voci, quelle di Diana Danelli (già autrice del breve saggio La realtà alleggerita ospitato nella sezione Ricerche), di Paolo Marocco, di Andrea Bonavoglia, di Daniele Dottorini, di Robero Diodato e dello scrivente (Vincenzo Cuomo) in qualità di moderatore. Speriamo che ad esse possano aggiungersi altre voci dalla rete. V.C.
Interventi
Andrea Bonavoglia Ho letto l'articolo "La realtà alleggerita" di Diana Danelli e l'ho trovato di estremo interesse. L'argomento è nuovo e denso di possibili diramazioni culturali, che vanno dall'estetica alle tecniche riproduttive, dalla creatività alla sfera scientifica. La novità dell'argomento sottende l'uso di termini ancora da definire in modo definitivo. Il termine stesso di immagine può essere usato comunemente in un senso generico di "visione" o "trasmissione di immagini" o addirittura come un'unione tra "supporto fisico" e "immagine"; d'altro canto, nel contesto dell'immagine trasmessa attraverso codifiche numeriche, la varietà dei significati e delle implicazioni può creare un prevedibile accavallarsi e confondersi di definizioni specialistiche tra tecnici della comunicazione, della visione e della trasmissione. Per uno specialista nell'interpretazione delle immagini, la codifica numerica può difatti restare un mistero o un dato superfluo; mentre per un tecnico di telecomunicazioni, il significato viene sicuramente dopo la qualità visiva della trasmissione. Eppure, secondo me esiste un dato su cui vale la pena di soffermarsi tanto se si avverte la novità del dato visivo quanto quella del dato tecnico. E voglio in modo rapido, forse superficiale, ma credo stimolante per eventuali riflessioni, spiegare perché, partendo da alcune considerazioni storiche riassuntive. La fisica distingue tra sistemi discreti e continui. Per capirci, una linea tracciata con la matita è un sistema continuo; le estrazioni del lotto, numero per numero, sono un sistema discreto. La matematica classica ha leggi che prevedono l'esistenza di sistemi continui, e sono sistemi continui tutti i sistemi della geometria classica. Nel mondo digitale (dall'inglese digital: in italiano, numerico) non esistono sistemi continui. La definizione geometrica classica per cui il punto non ha massa, non ha peso e non è misurabile, in informatica è assurda: il punto informatico è misurabile, esso è l'unità di misura e coincide visivamente con il pixel dello schermo o con il dot della stampante o con il bit del processore. L'immagine digitale è per definizione discreta, cioè non continua, tanto che i programmatori grafici di tutto il mondo lavorano da almeno dieci anni principalmente per ottenere una minor spezzettatura dell'immagine, per ottenere cioè una fluidità apparente. L'immagine digitale non è fluida dal punto di vita della visione; può esserlo nel succedersi e nel variare illusorio dei quadri e può esserlo nell'alternarsi egualmente illusorio delle situazioni. Ma di illusioni si tratta. La fine della matematica del continuo è un fatto dei nostri giorni. A me sembra un argomento enorme. Se ci ricordiamo cha tutti i filosofi, fino al XVIII secolo circa, erano di norma anche dei matematici, l'argomento dovrebbe rappresentare un tema di grande interesse per entrambi i campi. Faccio alcuni esempi: il cinema nasce nel 1895, l'animazione (illusoria) è ottenuta attraverso alcuni fotogrammi in rapida sequenza: è un sistema discreto! Tra fine ‘800 e inzio ‘900 la fisica classica (continua) viene soppiantata da quella quantistica (discreta). Nel corso del secolo la statistica ( che è scienza di numeri interi e di approssimazioni discrete) si afferma come la principale estensione della matematica pura. Alla fine del ‘900 l'informatica si pone come scienza basata sul discreto, sulla totale discontinuità del reale. La geometria basata sulla matematica continua non esiste in informatica, esiste invece una geometria (e quindi una visibilità descrittiva basata su questa geometria) che si basa su punti concreti, i pixel del monitor o i dot della stampante, misurabili, fisici, concreti! e quindi: discreti. Si va allora verso una cultura discreta
e non continua? sembrerebbe di sì, e le immagini numeriche, la struttura
ipertestuale di Internet e la frammentazione sistematica delle nostre
fonti di conoscenza potrebbero essere viste come una diretta conseguenza
di questa trasformazione epocale, o viceversa come una delle sue cause
prime.
Paolo Marocco Vorrei anch’io intervenire, come Andrea Bonavoglia, partendo dal saggio di Diana Danelli. Innanzitutto, se è vero che l’immagine digitale può essere ricondotta a primitive formali in maniera più "semplice" dell’immagine analogica, e sicuramente a strutture più facilmente manipolabili, ma già qui il discorso sarebbe lungo e non scontato (il digitale simula l’analogico, nel senso che sostituisce a figure continue d’onda altre segmentate, riconducibili a sommatorie di unità discrete), non è affatto vero che questa maggiore semplicità e gestibilità dell’immagine digitale (nel cambiare parametri grafici, formati, modalità di visualizzazione, ecc.) sia direttamente riconducibile a una complessità più facilmente "riducibile" in termini estetici. Faccio un esempio: una pagina ipertestuale (Web), anche la più complessa, è riconducibile alle unità di un alfabeto e alla grammatica di qualche linguaggio formale (più o meno: non è rigorosissima la mia affermazione, ma prendiamola per sufficientemente corretta), ma questa operazione, che mi può essere utile se devo definire la semantica (in termini formali) della pagina ipertestuale, non mi è di nessun aiuto se la mia intenzione è quella di cercare un particolare significato artistico o iconico della stessa pagina. L’organizzazione formale che ho dedotto (e che non avrei potuto dedurre per una pagina analogica) rimane staccata, e relegata ad un ambito proposizionale, rispetto al valore che la pagina avrebbe in una comunità di giudizi e significati estetici. Il discorso somiglia un po' a quello della mappa genetica: il progetto genoma è classificatorio prima che generativo di nuovi saperi e interventi costruttivi (ossia capaci di intervenire, non sulla base dell’esperienza e della cultura sul campo, ma a partire da sistemi formali che interpretano la complessità molecolare): le pagine ipertestuali sono oggi classificabili, mentre le videate delle TV degli anni sessanta non lo erano, ma la fruizione dei contenuti rimane su un altro piano, indipendente dalla grammatica e dagli algoritmi utilizzati. In parole povere: il bello/brutto della TV e il sano/malato del nostro fegato sono molto ma molto distinti, per ora, dalla loro organizzazione strutturale (grammaticale/algoritmica) definibile e classificabile. Mi venivano in mente due cose: il discorso sul proposizionale/iconico (a partire da Wittgenstein) e quello sull’aspetto tecnologico del digitale (ossia il fastidioso connubio del digitale con il mercato dell’informatica, mentre l’analogico apparteneva ancora alla cultura proto-industriale della lampadina, ovvero accendi e segni, con la radio-TV che avevano aggiunto, al più, le ghiere del volume e dei canali). Il primo punto, proposizionale/iconico, può suggerire una direzione d’indagine: quanto il digitale abbia contribuito a nuove interpretazioni dell’opposizione, oppure perché il digitale proceda in una direzione rigidamente legata alla cultura algoritmico/informatica: sono praticamente inesistenti i tentativi di costituire delle grammatiche dei sistemi digitali capaci di tener conto anche di parametrizzazioni come quelle del gusto e del bello. Il punto attuale dello stato dell’arte, si potrebbe dire quello definito dallo standard MPEG-4 che non è soltanto un formato di compressione (come i precedenti, p. es.: l’MPEG-2 utilizzato nel DVD), è di avere immagini e strutture in un ambiente unico, in modo tale da poter gestire modalità multimediali fin dalle riprese video. La tendenza sarà quella di organizzare, fin dalla sorgente, la struttura descrittiva delle immagini, che, magari, potrà "pesare" il loro destino, e anche la loro iconicità. Il problema però è la proliferazione tecnologica degli strumenti di manipolazione di ambienti digitali (programmi, sistemi, ecc.) all’interno dell’economia di mercato che l’informatica ha stabilito da vent’anni. Ovvero, siamo ancora troppo in una fase dove N soluzioni di carattere qualitativo (innanzitutto la definizione dell’immagine in movimento nei diversi supporti) sono aggredite da M prodotti, presenti sul mercato e associati a K standard differenti. In una tale confusione, una certa cultura tecnocratica della soluzione possibile o migliore (in termini di qualità fotografica o meglio televisiva, dieci anni fa si diceva broadcast) tende a trascurare altre forme d’approccio, più lente e radicali come quelle che il dibattito filosofico sull’iconico/digitale potrebbe portare. Vorrei ora dire qualcosa sul rapporto tra il cinema e il digitale. A partire dall'interessante volume di Pierre Sorlin "I figli di Nadar" (Einaudi, 2001), in cui il critico e sociologo, analizza, sulla scia di Benjamin e Kracauer, lo sviluppo del cinema come paradigma interpretativo della modernità, mi venivano in mente alcune cose poco originali, ma a cui nessuno sa bene come rispondere. Il cinema si è imposto nel giro di pochissimo tempo come fenomeno mondiale, come invenzione assoluta di fine secolo, imponendo, come la fotografia non era mai riuscita a fare, l'immagine analogica come l'immagine del secolo che stava nascendo. In misura ben più radicale di come abbiano fatto i dispositivi che, nel corso dei decenni, hanno arricchito il fenomeno: è vero, la televisione impone la diretta e il presente diffuso, la multiprogrammazione e lo zapping aprono il percorso alla multimedialità, ma niente come il cinema è stato così radicale, né, oggi, s'intravede un fenomeno capace di sostituirlo. I modelli ideologici e classificatori delle immagini e delle scene, come rileva Sorlin, non sono mutati da quando il cinema ha messo a punto un proprio linguaggio, almeno un linguaggio di base, attorno agli anni dieci. E continuano a rimanere. Il digitale, al cinema, è cresciuto molto nell'ultimo decennio, non solo come supporto agli effetti speciali; pian piano sta coprendo tutte le fasi del ciclo di vita del dispositivo, dalle riprese al montaggio per finire con la distribuzione e proiezione (queste ultime due ancora a livello pionieristico), ma tutto ciò somiglia più a un processo tecnologico di mutazione, e poco di cambiamento: il digitale si presta molto più a simulare che a inventare qualcosa di nuovo. E poi c'è la rete che ha costituito il rilancio del mercato dell'informatica dopo almeno 15 anni di rilassamento (ossia dopo la nascita del Personal Computer): la Rete è un fenomeno nuovo, è interattiva ed enciclopedica, eppure, fin dalla nascita, ha il sapore dell'integrazione e non della cometa che piomba sul pianeta, come è avvenuto per il cinema. Viene anche da chiedersi se sia possibile, nella società postmoderna, l'avvento immediato di un fenomeno. La multitecnologia specialistica, complessa, farragginosa e piena di problemi non favorisce certo il clima: i Lumière hanno montato insieme due o tre intuizioni (la pellicola a sviluppo rapido, perfezionato un meccanismo di sincronizzazione che c'era già, messo a punto un congegno di illuminazione, ...) e hanno fatto una scoperta che non era data dalla somma delle componenti, ma le trascendeva. Forse le soluzioni ottiche e meccaniche di fine Ottocento avevano una maggiore facilità di inventare mondi nuovi, possedevano uno statuto naturale capace di una maggiore evocazione poetica, e di stimolare una maggiore sorpresa percettiva, rispetto alle tecnologie attuali, peggio che mai quelle digitali, così controllate e controllabili, ma nemmeno questo è del tutto vero, perché il dinosauro numerico imprime una forza verosimile all'immagine, ed è capace, almeno, sulla carta di inventare delle nuove scenografie, dei nuovi mondi possibili. ma qualcosa delude. Sempre. Ancora peggio vanno le cose, nella direzione della multimedialità digitale e Internet, che continuano a integrare, e male, le diverse componenti che costituiscono l'insieme, offrendone soltanto un aspetto limitato e ridotto: non si sa se la direzione della scoperta del fuoco del tremila sia proprio questa.
Diana Danelli Sottrazione di peso, leggerezza, nella materia, nella forma. Flusso, densità della realtà, flusso delle forme. Ma anche stratificazione: le architetture spaziali, mentali, informazionali si intersecano in una trama sempre più fitta, ma al contempo più fluida e più alleggerita. L'introduzione nella realtà di elementi più "leggeri", anche digitali, provoca questo complessivo alleggerimento della materia ma può anche produrre una maggiore densità formale di essa. In sintesi questo è il quadro di riferimento del mio articolo, punto di partenza per un ulteriore svolgimento, riproducibile qui brevemente affinché risulti più comprensibile il concetto di fluidità associato all'immagine digitale, con il rischio di allargare molto l'ambito di discussione. Fluidità e non continuità. È bene ricordare con Bonavoglia la discretizzazione quale componente intrinseca del digitale, ma è importante aggiungere quanto nella percezione di fenomeni digitali il fattore analogico sia sempre discriminante. Sono due le linee di lettura per quanto riguarda l'alleggerimento: la prima è relativa alla produzione di nuove forme numeriche che hanno una propria autonomia nell'ambiente in cui sono introdotte, è il caso di ciò che è definibile come "robotica immateriale"; l'altra è quella di "ombra digitale", intesa come aggiunta di una funzione digitale agli oggetti fisici. Esistono oltre a sistemi di scansione laser per l'acquisizione di modelli tridimensionali, sistemi per la restituzione di oggetti tridimensionali "immateriali" da modelli numerici, la robotica immateriale si colloca in questo secondo ambito di ricerca, dove l'oggetto risulta per il fenomeno della persistenza della visione, in quanto il punto generato dal fascio di luce viene percepito come una linea solida luminosa perché mosso velocemente da appositi dispositivi. Così l'oggetto è visibile nello spazio "reale" grazie all'addensamento dell'atmosfera. La sfida della robotica immateriale non si ferma alla restituzione degli oggetti nello spazio ma tenta di aggiungere funzioni a questi, rendendo intelligente lo spazio stesso o la forma in esso contenuta, introducendo cioè relazioni tra aree di questa e possibili azioni di utenti presenti o remoti. Le nuove interfacce, fisiche, biologiche, ambientali, sono quindi meno evidenti, più distribuite. Softwear, non più solo un substrato morbido ma ora più propriamente indossabile. Interessante è anche il concetto di "rete somatica", ossia la rete che permette di collegare varie parti del corpo senza bisogno di cavi, variando il voltaggio da un lato all'altro. Questo tipo di rete traduce i gesti fisici in logici e qui c'è il concetto di fusione della componente fisica con quella logica della realtà, nozione che promuove pure la ricerca dei cosiddetti "materiali intelligenti", incorporando direttamente le informazioni negli oggetti attraverso materiali sottoposti a trattamenti particolari o anche usando dei chip ridotti. È ciò che Gershenfeld (direttore del Physics and Media Lab del MIT e promotore del Consorzio TTT, Things That Think) chiama "ombra digitale" poiché si affianca una nuova funzione logica alle esistenti. L'interscambio di descrizioni sistemiche rende le varie "realtà" più assimilabili e omologabili, questo è un ulteriore passaggio alla "fluidità". Il modello del flusso di dati proprio del digitale diventa un modello applicabile, riduttivamente. Flusso: dati nel tempo t. Il livello di digitalizzazione sarà così elevato che ogni elemento del reale potrà apparire come riducibile a una sequenza di dati, un flusso e come tale riproducibile attraverso i vari supporti quali il digitale stesso con una simulazione, oppure nel caso del biologico con una duplicazione-riproduzione di una copia dell'originale o di una nuova entità. Se lo spostamento dal biologico al numerico è possibile, lo è anche nella direzione contraria: esiste una reversibilità che permette di passare dal numerico al biologico (sarebbe interessante anche seguire il procedimento che dall'informazione genetica particolare ossia individuale, attraverso le opportune ricodifiche, si giunga a una mappa cromatica: ogni essere potrebbe avere una immagine digitale che lo rappresenti a livello genetico. Immagini dell'uomo, immagini nell'uomo. Ma ci saranno già esperimenti in tal senso). Quest'ultima direzione è stata variamente sperimentata: ad esempio il digitale può essere convertito in biologico e quindi questo fornisce una diversa modalità di immagazzinamento dell'informazione, con una totale trasformazione; oppure impiantabile nel biologico, con aggiunta di funzionalità in tale substrato; o fuso con materiali biologici sintetici, con incrocio di funzioni. Le prossime generazioni di prodotti varieranno complessivamente la realtà e la nostra visione di essa. Lo scenario sarà complesso, variamente stratificato con un certo grado di reversibilità. Ci saranno aree protette, di "salvaguardia" dove sarà pressoché nulla la presenza digitale, saranno delle aree di realtà non aumentata, aree di "sottrazione". Inoltre ci saranno delle "aree da risanare" dove si richiederà un'azione di riduzione dell'inquinamento numerico. I codici non pesano: cambiando di livello, cambiano le caratteristiche della realtà, anche il peso; ecco la "realtà leggera".
Daniele Dottorini Di fronte ad una problematica aperta, attuale e interdisciplinare come quella riguardante l’immagine digitale, la vasta produzione critica sull’argomento può secondo me essere divisa in tre filoni principali (che possono anche coesistere in alcuni autori). Da una parte vi è il tentativo di interpretare il fenomeno (sottolineandone i mutamenti epistemologici e strutturali ad esso connessi) come "evento" della contemporaneità, come segno evidente delle mutazioni della società post industriale, come dissolvimento di un concetto forte di reale o come problema della materialità dell’immagine o della crisi dell’unità del soggetto. Dall’altra, vi è il tentativo di "spiegare" il fenomeno attraverso categorie interpretative appartenenti alla tradizione filosofica occidentale (l’immagine numerica come momento particolare, storicamente determinato della storia dell’immagine, problema che attraversa, come sappiamo, tutta la storia della filosofia). Infine, esiste un terzo tipo di approccio che rifiuta, in tutto o in parte, una "traduzione" del fenomeno all’interno di un discorso – come quello filosofico – ad esso estraneo, in favore di una autonoma riflessione che tenga conto della particolarità del fenomeno e della sua specificità tecnica. Si potrebbe fare un lungo elenco di studiosi che, a vario titolo, si possono collocare all’interno di questi tre filoni. Rimanendo all’interno dei contributi per ora presenti nel forum, mi sembra che (mi rendo conto delle forzature di questa suddivisione) il testo di Danelli, possa in parte rientrare all’interno del primo, mentre quello di Marocco nel secondo. Le problematiche, in questo senso sono numerose: da una parte Danelli mette l’accento sulla considerazione dell’immagine come realtà numerica, che solo nella fruizione finale assume l’identità di immagine; dall’altra Marocco individua in questo un falso problema Ma, al di là di queste considerazioni, potremmo iniziare a individuare anche una quarta possibilità di approccio: ed è quella di tentare di attraversare il problema al fine di una ricerca di nuovi concetti, non tesi ad una "spiegazione" del fenomeno, ad una sua unitaria interpretazione, ma ad un arricchimento concettuale del discorso filosofico. È una quarta possibilità che non si contrappone alle tre precedenti, ma è spesso ad esse implicita, le attraversa tutte (così come attraversa anche gli interventi presenti all’interno del Forum). Per far questo è opportuno sgombrare il campo da ogni eccessivo entusiasmo nei confronti di un fenomeno che sin troppo facilmente si offre come "segno di", evento epocale, figura rappresentativa della contemporaneità. Soprattutto nel momento in cui, come sottolinea giustamente Marocco, la velocità della "pratica" tecnologica si contrappone alla lentezza della "pratica" filosofica. Allo stesso tempo è
necessario sottolineare che la critica all'entusiasmo filosofico per l'immagine
numerica nasconde l'insidia di un'eccessiva sottovalutazione del fenomeno
e della sua portata. Lo sforzo teoretico in questo caso dovrebbe essere
rivolto ad una sorta di esercizio "atletico" (direbbe il Deleuze di Critica
e clinica) nel mantenere aperti e intersecati i due piani del discorso:
quello "tecnico", sempre scettico nei confronti di qualsiasi approccio
non "iniziatico" al "mondo" dell'immagine numerica, vale a dire qualsiasi
approccio che non ne condivida la sapienza; e quello "filosofico", il
cui rischio è quello di elaborare concetti a partire da una sostanziale
"ignoranza" del fenomeno. La sfida è quindi
quella di ricercare, attraverso lo studio dell'avvento delle nuove tecnologie
dell'immagine, strumenti concettuali in grado di "dire" la contemporaneità. Mi spiego meglio: sta emergendo con sempre più forza, all’interno del dibattito filosofico, un pensiero della "spettralità" (penso soprattutto all'ultimo Derrida: Spettri di Marx, Ecografie della televisione, Tourner les mots), legato in qualche modo anche al fenomeno dell'immagine digitale, in cui il riconoscimento di una sempre maggiore precisione nella costruzione di "simulacri" di realtà, e quindi in una maggiore intellegibilità dell'immagine, apre ancora di più il problema del non-senso, dell'inintellegibile che sta dietro l'immagine, che si fa sempre più "spettrale", cioè, allo stesso tempo, visibile e invisibile, fenomenica e non fenomenica. Se è vero quanto dice Marocco, che dal punto di vista della percezione estetica dell'utente non cambia molto rispetto alle tecniche tradizionali di produzione dell'immagine, è vero che di fronte ad una immagine digitale ci poniamo con una precognizione, con un sistema di attese diverso rispetto ad altri tipi di immagine. Vediamo quell'immagine sapendo che essa "è e non è allo stesso tempo", è spettrale. Si potrebbe obiettare che la spettralità è insita in ogni immagine, è implicita nello statuto stesso dell'essere immagine, ma è proprio ora - in questo momento, a questo grado di sviluppo tecnologico - che essa (mi si perdoni il gioco di parole) si fa visibile, porta a compimento cioè un processo di sterminio pianificato dei corpi, della materialità che, come dice Godard, è "l'origine stessa del XXI° secolo". In questa direzione, per quanto si tratta solo di un accenno da offrire alla discussione, la ricerca mi sembra feconda e ricca d’implicazioni.
Vincenzo Cuomo Come moderatore, cercherò d’essere breve ma, al contempo, di stimolo all’approfondimento della discussione. Innanzitutto devo dire che concordo con quanto afferma Daniele Dottorini riguardo all’opportunità di elaborazione di concetti filosofici, interpretativi della "cosa" (l’immagine numerica), che la attraversino, per così dire, e non le parlino "sopra". Al riferimento, d’obbligo, a Benjamin io aggiungerei anche quello ad Adorno (che ha scritto cose molto interessanti ed illuminanti, in tale prospettiva, sul disco). Sono sicuro che le argomentazioni contenute negli interventi precedenti non mancheranno di suscitare riflessioni critiche, com’è giusto che sia. Vorrei, tuttavia, che la discussione vertesse anche su un aspetto della questione appena accennato da Daniele Dottorini (ma sfiorato anche dagli altri). Mi riferisco al problema dell’esperienza dell’immagine numerica: se è possibile farne esperienza; di che tipo di esperienza si tratti; quali siano le sue differenze rispetto all’esperienza che abbiamo e che facciamo con altre tipologie d’immagini (televisiva, cinematografica, fotografica, pittorica…). Quando parlo di esperienza non mi riferisco, come è naturale, alla sola esperienza percettiva (anche non escludendola) ma a quel concreto relazionarsi del soggetto alla cosa che trasforma le "determinazioni" della cosa stessa trasformando il soggetto con esse. Che (con) dell’immagine numerica sia possibile fare esperienza, è questo il quesito di cui propongo l’approfondimento.
Robero Diodato Vorrei tentare di allargare
il discorso fin qui fatto. Credo, infatti, che l'immagine digitale e,
più in generale, la "realtà virtuale", impongano, in quanto "fatti", una
nuova progettualità all'estetica. I concetti di"virtuale"
e di "realtà virtuale" occupano nell'odierna riflessione filosofica alcuni
luoghi teorici a mio parere rilevanti per l'estetica, distribuiti a differenti
livelli. In primo luogo, dal punto di vista della teoria della computazione
studio della realtà virtuale significa indagine delle condizioni di possibilità
(logiche e fisiche) di un generatore di realtà virtuale, eventualmente
realizzabile tramite elaboratore elettronico. Generazione di "realtà virtuale"
significa generazione di qualsiasi situazione in cui a un utente si fornisca
l'esperienza di essere in un ambiente specifico, e quindi per "generatore
di realtà virtuale" s'intende una macchina capace di far provare all'utente
l'esperienza di tale ambiente. Ora, poiché abbiamo esperienza di un ambiente
anche e forse innanzi tutto attraverso i nostri sensi, un generatore di
realtà virtuale è concepibile come un manipolatore di percezioni sensibili,
e più precisamente come un "generatore d'immagini sensibili" (cioè d'immagini
visive, sonore, tattili ecc.) capace di simulare un ambiente reale con
sufficiente fedeltà. Ora un ambiente rappresentato è fedele nella misura
in cui "risponderebbe" (e non solo risponde) nel modo desiderato ad ogni
possibile azione dell'utente. La sua fedeltà, pertanto, non dipende soltanto
dalle esperienze che gli utenti hanno effettivamente, ma anche da quelle
che avrebbero avuto se avessero scelto di comportarsi in maniera diversa;
ciò è una conseguenza diretta del fatto che la realtà virtuale è, al pari
della realtà, interattiva (D. Deutsch, La trama della realtà, trad. it.,
Einaudi, Torino, 1997, p. 105). La valutazione di questa "sufficienza"
di fedeltà è problematica: se sia possibile simulare una realtà senza
scarto, o costruire una "illusione perfetta" è un interessante problema
logico-fisico; d'altro canto è un dato che l'ambiente virtuale tende a
produrre l'esperienza di un'immersione pervasiva e persuasiva e insieme
relativamente consapevole del proprio particolare statuto ontologico.
Dario Villa L’immagine digitale si differenzia da quella analogica (che, si badi, è tale solo a posteriori) per una fluidità morfologica senza precedenti. Essa può incarnarsi, a seconda degli scopi, in un insieme di pixel oppure su una copertina patinata. E quindi: come discriminare tra analogico e digitale in base alla semplice osservazione? Questo dubbio testimonia di una preoccupata sensazione di non-autenticità che, fin dalle sue prime applicazioni, accompagna l’immagine digitale. Se la storia dell’immagine è iniziata come percorso di riscatto nei confronti della celebre condanna platonica, le odierne tecnologie digitali sferrano un nuovo attacco, che rischia di fare dell’immagine qualcosa che è non solo tre, ma addirittura quattro o cinque volte lontano dal vero. Il digitale trasforma l’immagine in un’entità spettrale, indipendente da uno specifico substrato e disponibile a mille incarnazioni, tale per cui non vi è più ragione di distinguere tra originale e copia. In questo senso, Warhol lavorava già con immagini digitali: secondo Baudrillard la sua è una "immagine senza oggetto, a cui manca l’immaginario del soggetto", definizione che si presta molto bene anche al tipo di immagine di cui stiamo parlando. L’unica aura ancora attribuibile (ovviamente in senso negativo) all’immagine digitale consiste nella sua garanzia di una fredda quanto perfetta omogeneità d ripetizione. L’immagine digitale infatti non perde di definizione passando di supporto in supporto, di riproduzione in riproduzione. Essa è anzi, essenzialmente, la riproducibilità. Ma tale facilità di distribuzione e riproduzione non garantisce affatto una fedeltà di contenuti, perché a essa si collega, in maniera altrettanto democratica, una estrema disponibilità alla manipolazione e alla falsificazione (con evidenti risvolti problematici anche a livello di tutela del copyright). Proprio in questo senso, l’immagine digitale è la connotazione per antonomasia, perché qualsiasi operazione compiuta su (o tramite) essa comporta una modificazione del messaggio veicolato. Si prenda ad esempio la pratica del fotomontaggio/fotoritocco, che di certo non è cosa nuova, essendo nata assieme alla fotografia. Ciò nonostante, un abisso differenzia quel che negli anni ‘30 un fotografo come Herbert Bayer produceva nel suo studio da ciò che oggi, con l’unico ausilio di Photoshop, chiunque può divertirsi a fare davanti al computer. La fruizione delle immagini via computer - penso alla crescente diffusione delle macchine fotografiche digitali, ma anche alla semplice fruizione di immagini che accompagna ogni navigazione nell’internet - rappresenta una pratica (si badi, non necessariamente attiva e volontaria) di interpretazione e manipolazione. In questo senso si può davvero parlare di un capovolgimento del normale rapporto tra autore e pubblico (tesi che al contrario non può affatto essere sostenuta - così come fa Lévy - riguardo l’internet in generale). Anche evitando di far riferimento alle molteplici possibilità di manipolazione volontaria, la semplice "materializzazione" di una immagine su un monitor è già una reinterpretazione di essa, dipendente com’è da tutta una serie di fattori, magari semplicemente tecnici (risoluzione, profondità di colore, sistema operativo, velocità di connessione ecc.), che modificano e condizionano la fruizione dell’immagine. Non a caso, chiunque lavori nel campo della grafica digitale sa bene che una stessa immagine difficilmente apparirà in maniera identica a fruitori diversi (sia su monitor che su carta). L’immagine digitale, caratterizzata da una indecisione di forma e da una poco controllabile tendenza alla mutazione e alla proliferazione, potrebbe paradossalmente definirsi - parafrasando una celebre definizione di Barthes - un codice senza messaggio, giocando sia sulla sua mancanza di un significato univoco, sia sul fatto che il suo substrato è di tipo binario-alfanumerico. Per concludere con una provocazione, ispirata allo spirito dell’opera di Magritte e alla brillante lettura che ne diede Foucault, si potrebbe immaginare di "idealizzare" l’immagine digitale in questo modo: un monitor, dalla risoluzione abbastanza bassa da rendere evidente la grana dei pixel, presenta una finestra di browser il cui contenuto è un’immagine. Questa immagine bitmap (che come sappiamo è generata da un codice), presenta una semplice scritta rasterizzata (cioè non un font tipografico) che recita: ceci n’est pas une texte. Dunque: la scritta è in realtà un’immagine, che però è a sua volta un codice inserito in altro codice. Senza contare quel che la scritta dice...
Vincenzo Cuomo Mi sembra che l’intervento di Dario Villa riapra il dibattito (un po’ troppo "monologante") del nostro forum, attraverso sollecitazioni teoriche che, a loro volta, trovano implicite connessioni con altri interventi già on-line (penso a quelli di Bonavoglia e di Danelli, ad esempio). La più importante tra tali sollecitazioni, anche per le implicazioni filosofiche generali, mi sembra essere la definizione (barthesiano-parafrasata) dell’immagine numerica come codice senza messaggio. Credo sia una definizione molto appropriata, in quanto ne mette in evidenza l’essenza puramente logica e non più analogica (cfr. su ciò anche il lucido intervento di Bernard Stiegler, L’immagine discreta, in J.Derrida - B.Stiegler, Ecografie della televisione, tr. it., Cortina, 1997). Per fare ulteriore chiarezza su tale questione bisognerebbe riflettere ancora su ciò che in genere si intende per immagine analogica. Mi sembra che l’uso critico di tale nozione risenta sempre di un’ingenuità di fondo, che consiste nel ritenere tale immagine un analogon di un fuori reale. Così facendo, non credo ci si muova di un solo passo dalla svalutazione platonica delle immagini. Tuttavia, a ben guardare, il fuori dell’immagine è sempre stato un dentro, un suo raddoppiamento riflessivo; anche in Platone, a leggerlo senza ingenuità, è possibile ritrovare tale concetto, nella relazione tra immagine-modello e immagine-copia. Forse c’è solo un’immagine indissolubilmente legata al fuori, ed è l’immagine-specchio. È la più difficile da comprendere e la più enigmatica: immagine, nello stesso tempo, massimamente ingannevole e massimamente veritiera; massima illusione e massima "mostrazione" del reale (cfr. su ciò A.Tagliapietra, La metafora dello specchio, Feltrinelli, 1991). Quando Roland Barthes definiva l’è stato come il noema della fotografia, sono convinto che pensasse fondamentalmente alla sua vicinanza all’immagine speculare (cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, tr. it., Einaudi, 1980). Ecco, con l’immagine numerica abbiamo a che fare con un’immagine che ha definitivamente ed integralmente ridotto il "fuori" al suo dentro e alla sua logica, tagliando definitivamente i ponti sia con la "specularità" (e con l’inquietante doppiezza dello specchio) sia con l’è stato. Anche quando l’immagine numerica trae origine da una digitalizzazione di una precedente immagine tecnico-analogica (fotografica, filmica, televisiva), la sua integrale codificazione logica le consente di svincolarsi dall’analogon; prova ne che, di tale immagine digitalizzata, possiamo vedere tutto, anche i lati "nascosti" alla ripresa analogica originaria; possiamo girarvi intorno ed entrarvi dentro; possiamo modificarne le proporzioni ecc. Ciò dimostra che essa è puro modello, immagine assoluta, pura idealizzazione del reale (l’originario è stato), puro reale essa stessa, ma reale integralmente saputo, visto, prodotto. Inoltre essa non è più un’immagine che ci guarda; non possiamo ritrovarvi più lo sguardo d’incontro di cui parlava Heidegger nel testo sulla Sistina di Raffaello. È integralmente il nostro sguardo tecnico che è diventato mondo.
Forum sull'Immagine Digitale
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