Martin Heidegger, Sulla Sistina. |
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di Vincenzo Cuomo
Il
breve ma denso testo che Martin Heidegger scrisse nel 1955
sulla Madonna Sistina di Raffaello, che qui presentiamo
nell’originale tedesco e in traduzione, compare in Aus
der Erfahrung des Denkens, tredicesimo volume della Gesamtausgabe L’interpretazione
dell’opera raffaelliana è per il pensatore tedesco
un’occasione per riflettere sull’essenza delle
immagini e sulla relazione tra immagine ed esperienza del
pensare (un aspetto, questo, non “esplicitato” Secondo
alcune ipotesi storiografiche sembra che la tavola, nota come la Madonna
Sistina e dipinta da Raffaello per la chiesa di S.
Sisto a Piacenza, tra il 1512 e il 1514, dovesse avere la funzione
di finta finestra nell’abside, anticipando in questo gli “inganni ottici”
del barocco. Il dipinto, del resto, in qualche modo riproduce, nella
sua stessa struttura compositiva, l’immagine di una finestra che apre
su di uno spazio indefinito in cui prende forma il sopraggiungere della
Madonna col Bambino. Il parapetto che compare nella parte inferiore
del quadro, nonché le tende che si aprono nella sua parte superiore,
trasformano “la cornice in una finestra e la visione in qualcosa di
separato dal nostro mondo che tuttavia può entrare in esso”[1].
Il tema della “finestra dipinta” (Fenstergemälde)
che compare più volte nel testo di Heidegger, è La
riflessione heideggeriana sulla Sistina
prende l’avvio dal destino storico del dipinto, cioè
dalla sua trasformazione da immagine sacra ad “opera
d’arte” esposta in un museo (la Gemälde
Galerie di Dresda). Questo destino di musealizzazione
e di estetizzazione dell’immagine ha certamente la sua
necessità storica, tuttavia, afferma Heidegger, determina
la sua estraneazione, il suo perdersi nell’estraneo, in
ciò che non le corrisponde, impedendole di manifestare la
propria essenza. La Sistina
non può che essere pensata/collocata in una chiesa, di
cui l’immagine sacra è, nello stesso tempo, fondamento
e compimento: essa porta a compimento la costruzione del
luogo dell’incarnazione di Dio, fondandolo in quanto
luogo del disvelamento/avvento del divino. L’essenza
dell’immagine è, infatti, la determinazione inaugurale,
“iniziale” del luogo in quanto luogo dell’Aletheia,
del “disvelante celarsi” Crediamo
sia opportuno fare qualche breve considerazione su questo primo tema,
che potremmo chiamare il tema del “luogo”, dell’Ort
(con tutto ciò che, come è noto, tale parola chiave del vocabolario
heideggeriano significa). Innanzitutto c’è da evidenziare la centralità
del concetto del “portare a compimento” (vollenden)
in quanto fondamento (Grund):
l’immagine, afferma infatti Heidegger, “fonda e porta a compimento la
costruzione della chiesa” (Es
gründet und vollendet den Bau der Kirche). Si porta a compimento
solo ciò che in qualche modo già “è”: questo è il senso del fare
dell’uomo, secondo Heidegger[2];
e l’immagine, anche quella della Sistina,
implica, benché Heidegger non nomini mai Raffaello,
un fare dell’uomo,
inteso come corrispondenza all’appello dell’essere. La storia, intesa
come Geschichte dell’accadere
dell’essere – che è sempre per Heidegger anche storia del suo non accadere,
poiché è storia del suo celarsi – è anche storia del fare umano in quanto
“portare a compimento”. Comprendere
il senso di questa concezione significa comprendere la distanza (ma
forse anche la problematica, conflittuale vicinanza) tra il pensiero
heideggeriano dell’Ereignis
(in cui il “compimento” fonda sì il processo di cui è compimento, ma
non esaurisce il “gioco” del libero donarsi dell’essere, gioco che,
pur “mettendo sulla via” il fare
“compiente” dell’uomo, continuamente lo “gioca” dis-velandosi come il
tutt’altro inizio
da quell’inizio già “portato a compimento” o che “si sta compiendo”)
e la filosofia hegeliana del Logos
(in cui il “compimento” del processo di manifestazione dell’Idea
è pensato come necessaria realizzazione dell’inizio; in cui, cioè, l’inizio
si esaurisce nel processo del suo compiersi[3] D’altro
canto ci sarebbe da problematizzare l’impianto
cristiano-cattolico del discorso di Heidegger (nel testo
hanno un ruolo forte sia il tema “cristiano”
dell’incarnazione divina, sia quello più propriamente
“cattolico” della Wandlung,
della transustanziazione
come “il più proprio” del sacrificio della messa)
specie se fatto “contrastare” con le prese di
posizione anti-cristiane contenute in altri suoi scritti,
come i Beiträge
zur Philosophie[4] Passando
ora ad un altro tema di Über
die Sixtina, al tema che potremmo chiamare dello sguardo,
ci troviamo a fare i conti con la definizione che Heidegger, proprio
all’inizio del testo, ci dà della parola Bild
(“immagine” ma anche “quadro”) riferita al dipinto raffaellesco; “immagine”
viene qui intesa come “il volto nel senso dello sguardo che si incrocia
(Entgegeblick) in quanto
avvento (Ankunft)”. Più oltre
Heidegger, riferendosi alla Madonna che, conducendo il Bambino in braccio,
cammina verso chi guarda, afferma: “il condurre in cui Maria e il fanciullo
Gesù essenzialmente sono, raccoglie il suo accadere in quel guardare
che getta lo sguardo (das blickende
Schauen) in cui l’essenza di entrambi si impianta e a partire dal
quale è configurazione”. Lo “sguardo che si incrocia” e “il guardare
che getta lo sguardo” sono due espressioni usate da Heidegger per descrivere
la modalità specifica dell’apparire dell’immagine che egli chiama Jähe,
l’improvviso (ma anche “impetuoso”,
“brusco”, “spaventevole”): l’immagine “è niente altro che l’improvviso
(Jähe) di questo apparire”;
essa non è un oggetto che noi vediamo, ma uno sguardo
che ci viene incontro cogliendoci alla sprovvista. Questo sguardo è
sempre “ora”, non “dura” (l’accadere dell’immagine
nell’ora non può essere confuso
col “durare” del dipinto); esso è l’avvento (Ankunft)
improvviso e brusco, nel tempo cronologico, dello “spazio-di-gioco-tempo”
(Zeit-Spiel-Raum)[5]
che apre al tutt’altro inizio.
Sarebbe di grande interesse confrontare criticamente questa concezione
heideggeriana con le riflessioni benjaminiane sull’aura.
In Alcuni motivi in Baudelaire
la definizione dell’aura come
“l’apparizione irripetibile di una lontananza” è introdotta da un lungo
discorso su ciò che potremmo definire la decadenza moderna dello sguardo,
intesa come decadenza dell’esperienza
(Erfahrung), fino a culminare
nella famosa espressione secondo cui “avvertire l’aura di una cosa significa
dotarla della capacità di guardare”[6].
Un altro confronto critico interessante sarebbe quello con l’Adorno
teorico dell’apparition nell’opera
d’arte (tema adorniano in cui è esplicito, d’altronde, il richiamo alla
problematica benjaminiana dell’aura), che è da lui considerata non come
imago dell’ou-topia
– perché dando a “vedere” ciò che non
è l’opera d’arte si trasformerebbe in ideologia – ma come sfavillio
di qualcosa che, nell’attimo del suo manifestarsi, si distrugge, esplodendo[7] Un
ultimo tema che vorremmo evidenziare nel testo heideggeriano sulla Sistina
è quello che potremmo chiamare il tema dell’immagine-pensiero.
Benché non esplicitato questo tema è, forse, da considerare come quello
fondamentale del testo sulla Sistina,
non a caso inserito da Heidegger in un volume dal titolo Aus
der Erfahrung des Denkens (Dall’esperienza del pensare). Il pensare
essenziale, così come l’immagine-finestra su cui egli brevemente si
sofferma, deve essere concepito come “apertura d’accesso dell’imminente
apparire” (Einlaß des nahenden
Scheinens). Qui il termine centrale utilizzato da Heidegger è il
verbo versammeln (raccogliere)
che, come è noto, è da lui assimilato al léghein
greco. Nel raccogliere/accogliente la donazione dell’essere, il pensiero,
così come l’immagine, si pongono su quel limite
che indecidibilmente è un limite del pensare (e del porre in immagine)
e un limite dell’essere, cioè In
questa non distinzione originaria e “iniziale” tra
pensiero e immagine il pensiero di Heidegger incontra, o
forse sarrebbe meglio dire condiziona, alcune delle
riflessioni più originali del pensiero novecentesco in
tema di filosofia dell’immagine[8]
[1]
Roger Jones, Nicholas Penny, Raffaello,
tr. it. [2]
Su questo tema centrale vedi, ad es., la Brief
über den “Humanismus” [3]
Cfr. su ciò, ed essenzialmente, M. Cacciari, Dell’Inizio,
Milano, Adelphi, 1990 (in particolare, su Hegel, le pp. 101-115);
cfr. ancora di Cacciari il saggio Filosofia
e teologia, in La filosofia [4]
Dei Beiträge vedasi il
famoso capitolo su l’ultimo
Dio (tr. it. a cura di Pietro Kobau nel fascicolo n° 236, marzo-aprile
1990, pp. 64-72 della rivista aut
aut. [5]
Sul concetto di Zeit-Spiel-Raum,
vedi i testi heideggeriani tradotti da Anna Calligaris nel numero
295 (2000) della rivista aut
aut
[6]
W. Benjamin, Di alcuni motivi
in Baudelaire, in Angelus
Novus, tr. it. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1976, p. 121;
sulla concezione benjaminiana di distruzione dell’esperienza cfr.
ancora molto utilmente Giorgio Agamben, Infanzia
e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia [7]
Th. W. Adorno, Teoria estetica,
tr. it. di E. De Angelis, Torino, Einaudi, 1975, pp. 113-125; “Le
opere d’arte non si limitano a preparare “imagines” come un qualcosa
di duraturo. Esse divengono opere d’arte, tramite la distruzione della
lor propria “imagerie”(ivi [8]
Cfr. su ciò l’importante libro di Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia
delle immagini, tr. it. di S. Arecco, Torino, Einaudi, 1999. |
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