Antoine Garapon
Del
giudicare. Saggio sul rituale giudiziario
Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 291, ISBN 9788860300737,
€ 26,00
Il
processo è un addomesticamento della violenza
per il tramite del rito
(p. 230)
Elegantemente tradotto da Daniela Bifulco, Del
giudicare costituisce un testo destinato a diventare un classico,
imprescindibile strumento per chi voglia riflettere, oltre che sulla
scena giudiziaria – cioè sulla intrinseca teatralità del
processo, che l’apparenta al tragico –, sul senso profondo, cioè politico,
del rendere giustizia in una democrazia moderna,
dunque sui limiti e le insidie nascosti nell’atto del giudicare. Un
simile percorso, all’incrocio tra la storia, la sociologia e la
filosofia del diritto, non poteva che essere offerto da colui che
giudica, per mestiere e per vocazione: Antoine Garapon dirige
attualmente l’Institut des Hautes Études sur la Justice, a Parigi,
ma è un ex giudice dei minori; la sua esperienza professionale
emerge ad ogni pagina, unita ad una raffinatissima analisi
psicologica degli attori coinvolti nel giudizio – mentre è già
nota ai lettori italiani la sua disamina sul futuro della democrazia
occidentale, a partire dal (più o meno efficace) esercizio della
giustizia nella società contemporanea: cfr. A. Garapon, I custodi
dei diritti. Giustizia e democrazia, Feltrinelli 1997.
I primi capitoli del volume, assai denso
ed
articolato, sono dedicati ai luoghi, ai tempi e alle forme estetiche
dell’evento-processo: radicandola nella storia delle istituzioni
occidentali, Garapon descrive la simbologia dell’architettura
giudiziaria (ovvero l’impianto scenografico dei palazzi di
giustizia, dalla scalinata d’accesso alla ‘sala dei passi
perduti’ antistante l’aula, dalla sbarra al coro della giuria);
analizza la funzione svolta dalla specifica, eternamente separata dal
mondo in cui si è consumato il delitto e quindi ‘sacra’
temporalità dell’udienza; infine si sofferma sull’abito ascetico
del magistrato – la toga nera, di derivazione sacerdotale, che
riveste dunque una coscienza morale, oltre che professionale –,
nonché sulle diverse posture piscofisiche assunte dagli attori della
scena giudiziaria, dall’avvocato al pubblico ministero, dalle
guardie al pubblico, dal giudice all’imputato.
In particolare è la figura dell’accusato,
in
quanto vittima sacrificale offerta in pasto agli spettatori del
processo riuniti simbolicamente nella comunità fondativa, a
costituire il perno del ragionamento di Garapon intorno all’esercizio
della giustizia in uno stato democratico, a sua volta fondato sul
potere performativo del linguaggio istituzionale. Dal punto di vista
teorico, la tesi centrale del libro appare infatti costruita
sull’asse Austin-Ricoeur-Girard: se giudicare vuol dire, nei
termini di Austin “fare cose con le parole”, se in quelli di
Ricoeur “compiere un rito vuol dire fare qualcosa con la
potenza”, dunque istituire un racconto inquisitoriale che,
ricreando artificialmente il crimine, purifichi tutti gli officianti
dalla sua violenza (compreso il giudice ed il reo), allora l’atto
del giudicare appartiene ed emerge originariamente dalla sfera del
sacro: concepito, secondo la sua genealogia, come un rituale,
il processo svolge una funzione protettiva nei confronti della
“violenza senza ragione” (Girard); esso serve a canalizzarla, ad
espellere l’immondo dalla società per ricostituirne la purezza e
la coesione ed allontanare così lo spettro della crisi sacrificale:
“la società rievoca il crimine in quanto elemento fondatore che
occorre, al tempo stesso, celebrare ed esorcizzare” (p. 48).
Anche se Garapon presenta la giustizia come né buona né malvagia,
ma semplicemente come “la possibilità di separare il bene dal
male” (p. 13), ciò presuppone a sua volta la possibilità di
separare una violenza immediata, contagiosa e perciò “cattiva”,
quella del crimine o del conflitto sociale non regolato da alcuna
legge, da una violenza mediata, raffrenata, simbolica e perciò
“buona” (una violenza culturale, fondata sul primato della
parola), esercitata prima dal potere sacerdotale e poi dal potere
giudiziario, allo scopo di ricompattare la comunità intorno al capro
espiatorio: l’accusato del processo moderno.
Ora, soprattutto nel capitolo dedicato
all’Archeologia della scena giudiziaria (pp. 173-200) ed
alle origini religiose del giudizio nella civiltà
occidentale, Garapon appare ben consapevole di tale
raddoppiamento-spostamento rituale della violenza, che, continuando a
fungere nella sfera secolarizzata del politico, rischia di mettere
tra parentesi il concetto razionale di responsabilità giuridica
individuale – l’unico ad aver cacciato dai tribunali moderni la
brutalità dell’ordalia e del giudizio di Dio. Nella misura in cui
il giudice, col suo corpo togato e seppure in maniera inconscia e/o
velata dall’ascetica professionale, incarna, più che
l’imparzialità del Terzo (cfr. pp. 83-86), l’assurda –
kafkiana – superiorità della Legge rispetto all’accusato (cfr.
p. 67), il suo spettacolare potere di condanna non sembra molto
distante dalle “antiche trame ordaliche e dall’ambivalenza del
sacro” (dalla Prefazione di D. Bifulco, p. XVII). Siamo cioè
di fronte al paradosso per cui la violenza processuale, che in quanto
forza e autorità (cfr. in tedesco l’asse semantico Gewalt >
Macht) pretende di fondare la democrazia e lo stato di diritto
ovvero la trasparenza della responsabilità giuridica, può essere
solo teatralmente – dunque tragicamente e mai del
tutto – distinta dall’altra violenza pre- o infra-giuridica, che
etichettata come ‘crimine’ minaccia la comunità: in fondo, si
tratta della stessa violenza, che solo il rituale giudiziario,
con le sue maschere e la sua differenziazione dei ruoli, permette di
trasformare in qualcosa di lecito e giusto, dunque di democratico.
In quanto ex giudice, Garapon non formula mai direttamente la
questione in questi termini, i quali, oltre a mettere in crisi
l’identità sociale del magistrato, metterebbero in discussione i
fondamenti dell’intero edificio statuale come weberiano monopolio
della violenza (appunto il “mito democatico”, p. 87), ma il
lettore non può non percepirne il tormentoso fantasma: uno spettro,
letteralmente drammatico (cfr. pp. 259 e sg.), che pervade
l’intera argormentazione del libro, fungendo in particolare da
pungolo nella seconda parte, dedicata alla possibile eliminazione
dell’ormai millenaria “messinscena” del processo, con il
conseguente svuotamento del suo senso simbolico.
Dopo una profonda comparazione tra il rituale giudiziario
francese
e quello anglosassone, colti proprio nella loro diversa “teatralità”
(cfr. pp. 137-169), Garapon passa infatti ad esaminare alcuni
fenomeni di deriva o degradazione del rituale medesimo. I primi due
sono strettamente legati all’attualità. 1) Com’è noto, in
alcuni gradi di giudizio e in alcuni tribunali (ad es. quelli dei
minori) si assiste oggi alla diffusione della “giustizia
informale”, tesa ad attenuare, in quanto obsoleto, il rigore
linguistico ma al contempo ludico della procedura a favore di una
pratica del giudizio che annulli il pathos della distanza,
vanificando però in tal modo, secondo Garapon, la forza simbolica e
la funzione catartica dell’udienza – una funzione di cui il primo
a beneficiare, nella già ricordata struttura ricoeuriana del libro,
sarebbe proprio l’accusato, poiché gli conferirebbe una dignità
di ruolo altrimenti impossibile da esperire (cfr. pp. 201-218). 2)
Garapon si scaglia inoltre, con un certo moralismo, contro la
“delocalizzazione” della scena giudiziaria operata dai media, i
quali, celebrando il processo fuori del suo tempo regolamentare –
quello dell’udienza – e del suo spazio sacro – l’aula del
tribunale –, suscitano sulla carta stampata e in televisione le più
rozze, elementari emozioni dell’opinione pubblica: distorcendo i
fatti attraverso una accecante visibilità, sottraendoli quindi alla
ordinata ricostruzione linguistica del dibattimento, i media
riflettono e amplificano la violenza psicologica e sociale del
processo, rappresentando perciò secondo Garapon i principali
responsabili della crisi del sistema giudiziario nelle democrazie
occidentali (cfr. pp. 219-241). 3) Il terzo esempio, squisitamente
letterario, di metamorfosi negativa del rituale, è offerto dal Processo
di Kafka. Nel breve capitolo a lui dedicato (pp.
245-257), senza nulla aggiungere alle interpretazioni canoniche,
Garapon legge il capolavoro del praghese come un’allegoria onirica
del “dissolvimento della Legge” (p. 245), ormai vanificata –
per non dire ridicolizzata – dalla esasperante assurdità della
procedura. La straordinaria capacità kafkiana di deformare in
immagine, e quindi impedire, durante la lettura, la funzione
comunicativa e giustificatrice del simbolo (l’accesso al simbolico,
in termini lacaniani, cfr. pp. 249-251), rende Il Processo un
testo chiave per comprendere emotivamente e in condizioni
d’inferiorità, dunque dal punto di vista dell’accusato,
sino a che punto gli elementi rituali nonché gli attori della Legge
– tribunale, giudici, avvocati, emissari e officianti tutti –
siano catturati e sprofondino nella dimensione femminile, demonica,
dunque infra-giuridica, della giustizia: “Per Kafka [...] la
giustizia è senza principi: i libri di diritto dei giudici
istruttori, che K. apre surrettiziamente, non contengono che
oscenità” (p. 249).
Ma ciò significa che Kafka, molto più
della
giustizia informale o della manipolazione mediatica del segreto
istruttorio, spalanca un abisso sotto i piedi del giudice, facendogli
perdere, insieme al carattere benevolmente materno della
Legge, anche le coordinate di riferimento linguistico-culturali,
capaci di ancorare il rito del processo alla sua funzione sociale di
garante dell’ordine, della stabilità, della ‘rispettabilità’
e quindi della (in realtà molto paterna, nonché, in termini
derridiani, logocentrica) sacralità della Legge. Se quella
contemporanea è una crisi culturale della credenza, o meglio della fede
nel valore divino o almeno para-divino (cioè
piccolo-borghese) della Legge, e se questa crisi era in un certo
senso inscritta nel destino dello stato moderno proprio a causa della
sua lenta, ma inesorabile e demistificatoria secolarizzazione, cioè
dello spostamento del sacro dall’àmbito del religioso a quello del
politico (e del giudiziario), allora Garapon, sulla scia di Girard,
non può che tentare di porre un argine all’erosione malefica del sacro
giuridico. Quest’argine – motivato
dall’esigenza etico-politica di “ben giudicare” (bien juger,
cfr. pp. 268 e sg.) – è in fondo il processo stesso, còlto nel
suo carattere magico-rituale, dunque preservato nella sua forza
linguistica – nella sua gloriosa tradizione retorica, figlia del
testo (su ciò cfr. pp. 117 e sg.; pp. 196 e sg.). Il carattere
“divino” e in ultima analisi insensato del processo, che sospende
il tempo e “l’economia della vita” (Satta) in un mortale
abbraccio con il sacro (simboleggiato dal nero della toga del
giudice), non è secondo Garapon eliminabile o sostituibile con altre
forme; disfarsi del theatrum giudiziario equivarrebbe infatti,
aggiungerei, a svelare la violenza processuale per ciò che è: un
gioco crudele in cui, nelle vesti di giudice, un uomo svilisce ed
umilia un altro uomo, davanti a tutti e perché tutti ne godano.
Nel complesso, si può affermare che
l’autore
oscilli, dall’inizio alla fine del testo qui recensito, tra due
opposte, e a mio giudizio inconciliabili consapevolezze: da una parte
sta la sua magistrale (!) demistificazione della violenza simbolica,
quindi artificiale, sin troppo umana, insita nel rituale
giudiziario, nella sua infondata eppure fondativa messinscena;
d’altra parte, egli insiste sul carattere catartico, quindi
democraticamente necessario della stessa messinscena, postulando,
come valore politico da tutelare nello spazio pubblico del
processo, qualcosa – la democrazia moderna – di cui ha però
svelato l’illusorietà scenografica, nonché il carattere meramente
procedurale, proprio analizzando le dinamiche rituali della
giustizia. Da questo punto di vista, nonostante l’acume profuso nel
mostrare il lato oscuro del diritto, Garapon rimane forse prigioniero
di una visione ingenua dell’origine e della struttura del
potere di giudicare, una visione già superata, ad esempio, tanto da
Nietzsche quanto da Foucault (quest’ultimo più volte menzionato
nel testo ma mai teoricamente affrontato): per entrambi, la violenza
e il potere sono soltanto una questione di posizione – una
questione strategica, prospettica, relazionale, che giace al di sotto
di ogni menzogna metafisica.
(Eleonora de
Conciliis)
Indice del volume:
Prefazione di Daniela Bifulco
Introduzione. L’evento del giudicare
Parte Prima. I rituali del processo
1. Lo spazio giudiziario
2. Processo e tempo
3. La toga del giudice
4. Gli attori del processo
5. Il gesto giudiziario
6. La parola giudiziaria
7. Rituale francese e rituale americano
Parte Seconda. La giustizia può fare a meno
della messinscena?
1. Archeologia della scena giudiziaria
2. Giustizia senza scena?
3. La delocalizzazione della scena giudiziaria nei
media
4. Il non-luogo del processo
5. Il dramma della giustizia
Conclusioni. Costruire la democrazia
Bibliografia tematica