Paul Ricœur
Il Giusto Vol. I, trad. it. di Daniella Iannotta, Cantalupa (TO), Effatà, 2005, pp. 224, ISBN 88-7402-253-0, € 12,50 I dieci studi che compongono il primo volume della silloge su Il Giusto raccolgono le riflessioni ricœuriane degli anni Novanta e nascono tutti a partire dal confronto con la filosofia politica, con la pratica del diritto e con la riflessione teorica della giurisprudenza. Spesso si tratta di lezioni tenute presso l’“Institut des hautes études pour la justice”, di interventi pronunciati in occasione di incontri e convegni, di contributi pubblicati in riviste e dizionari, eppure un filo conduttore tiene insieme le varie tessere del mosaico, facendo della raccolta di saggi dall’origine spesso occasionale un vero e proprio breve trattato sul significato filosofico della giustizia, a cui si intende appunto «render giustizia» (p. 22, “Introduzione”): a metà strada tra morale e politica, l’ambito del diritto offre, secondo Ricœur, lo spazio di oscillazione tra il bene anelato e il male inevitabile, ossia lo spazio di quella convivenza civile che rifugge dalla violenza e dalla vendetta, lo spazio della pace reclamata e perseguita dalle istituzioni democratiche, lo spazio che, tra l’auspicio individuale e collettivo indirizzato alla vita buona e il formalismo procedurale della regolamentazione e della norma, è capace di tutta la saggezza del giudizio in situazione e della scelta magari sofferta, nei casi di incertezza e conflitto, ma equilibrata ed equa. Nell’ideale prolungamento della piccola etica di Sé come un altro, il testo si apre con un’interrogazione su “Chi è il soggetto del diritto?” (pp. 40-50), seguita da un’indagine su “Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica” (pp. 51-79), laddove riaffiora quel ‘soggetto capace’ non solo di dire, di agire, di raccontare, di essere responsabile e chiamato a render conto, ma anche portatore di istanze di giustizia, a partire dalla sua vulnerabilità e fragilità. Soprattutto le discussioni della filosofia politica americana del secondo Novecento sono inizialmente al centro dell’attenzione, così per esempio Rawls e la discussione seguita al suo celebre saggio, di cui si sottolineano le implicazioni etiche (“È possibile una teoria semplicemente procedurale della giustizia? A proposito di Una teoria della giustizia di John Rawls”, pp. 80-106; “Dopo Una teoria della giustizia di John Rawls”, pp. 107-127); le tesi dei comunitaristi a proposito de “La pluralità delle istanze di giustizia” (pp. 128-148, con riferimento soprattutto a Walzer, alla questione dell’egualitarismo e ai paradossi del politico, insieme parte e tutto, contenente e contenuto, istanza inclusiva e regione inclusa del vivere civile); il pensiero più tardo di Hannah Arendt (“Giudizio estetico e giudizio politico in Hannah Arendt”, pp. 149-167). Ma sono soprattutto i saggi dell’ultima parte del volume quelli in cui si concentra la riflessione ricœuriana sulla giustizia e sul giudizio. Dedicato al dibattimento nelle corti dei tribunali e inizialmente presentato ad un seminario della “École nationale de la magistrature”, il saggio su “Interpretazione e/o argomentazione” (pp. 168-188), confrontandosi con autori quali Dworkin, Habermas o Perelman, intende mostrare la dialettica necessaria ad ogni ermeneutica giuridica, analoga a quella che caratterizza la coppia comprendere/spiegare, al centro della riflessione ricœuriana fin dai suoi esordi. Una vera e propria fenomenologia della deliberazione e della decisione è quella che propone il saggio su “L’atto di giudicare” (pp. 189-195). Non restando solo opinione, valutazione, considerazione, ma diventando presa di posizione esplicita, determinazione palese, separazione tra il lecito e l’illecito, il giudizio interrompe il gioco degli argomenti, l’incertezza del dramma conflittuale messo in scena dai vari personaggi coinvolti nel processo (l’imputato, il testimone, l’avvocato difensore, il pubblico ministero, la giuria), ‘dice il diritto’ del caso singolo commisurandolo alla legge e magari creando un precedente per una successiva applicazione ulteriore. «L’atto di giudicare esprime la forza del diritto attraverso il duplice rapporto che esso intrattiene con la legge. Da una parte, infatti, esso sembra semplicemente applicare la legge ad un caso; è quello che Kant chiamava giudizio “determinante”. Ma consiste anche in una interpretazione della legge, nella misura in cui nessun caso è una pura e semplice esemplificazione della regola; restando nel linguaggio kantiano, possiamo dire che l’atto di giudicare dipende dal giudizio “riflettente”, laddove questo consiste nel cercare una regola per un caso nuovo» (p. 191). Il giudizio comunque presuppone sempre anche il conflitto, la vertenza, la controversia, il litigio, ossia la violenza alla quale si contrappone come scelta del discorso in alternativa alla vendetta (di cui la punizione pure rischia di restare una forma filtrata, attenuata, civilizzata). Così il giudizio ristabilisce di fatto una giusta distanza: né la prossimità confusa della lite, né la lontananza sterile del disprezzo, dell’odio o dell’incomunicabilità, ma la redistribuzione giusta nel quadro di uno schema di cooperazione sociale che deve essere accettato anche dal perdente. Questi sono allora per Ricœur, di nuovo nel rimando a John Rawls, gli aspetti essenziali dell’atto di giudicare: «da una parte decidere, mettere fine all’incertezza, separare le parti; dall’altra far riconoscere a ciascuno la parte che l’altro prende alla stessa società, in virtù di cui il vincente e il perdente del processo sarebbero reputati come aventi ciascuno la sua giusta parte in quello schema di cooperazione che è la società» (p. 195). Il saggio su “Sanzione, riabilitazione, perdono” (pp. 196-210) prende le mosse dalla questione della differenza tra giustizia e vendetta ed è stato inizialmente presentato ad un convegno dedicato appunto alla questione. Secondo Ricœur il processo sospende il cortocircuito tra la sofferenza subita dalla vittima e quella imposta dall’ipotetico vendicatore, frapponendo la giusta distanza del dibattimento, con i suoi rituali e i suoi attori: il terzo non coinvolto che è il giudice e che rappresenta l’istanza comune; il sistema codificato del diritto con le sue leggi scritte che prevedono in sé anche l’ipotesi dell’infrazione; il dibattimento tra l’accusa e la difesa che avviene in uno scontro di parole e di argomenti; infine la sentenza che «dice il diritto in una circostanza determinata» (p. 200), trasformando l’accusato in colpevole o innocente. In questa «cerimonia di linguaggio» (ibid.) si consuma la rottura con la vendetta e il capovolgimento della violenza in parola che ristabilisce il diritto attraverso la sanzione: la vittima è così riconosciuta pubblicamente come offesa e questo aiuta il processo terapeutico di restituzione alla stima di sé e di elaborazione catartica della ferita; ma anche l’accusato riconosciuto colpevole è perlomeno assunto come essere ragionevole responsabile dei propri atti e tenuto a renderne conto, in modo da poter essere restituito alla piena cittadinanza in un percorso di riabilitazione, di risocializzazione e di reinserimento, che deve avvenire già nello spazio carcerario, luogo ancora interno e non certo esterno alla città. Diversamente dall’amnistia e dalla grazia, che rappresentano cancellazioni ed amnesie istituzionali con intenti riconciliativi, ma attuati in genere in occasione di gravi lacerazioni e discordie collettive, il perdono postula invece la memoria ed eccede l’ordine giuridico e il piano del diritto, visto che fa capo ad un’economia del dono e della sovrabbondanza, contrapposta a quella dell’equivalenza che presiede invece alla giustizia. Eppure il perdono, spezzando il debito, guarendo la memoria dalle sue ossessioni, sfuggendo al diritto e sottraendosi persino all’etica, conferisce alla giustizia l’orizzonte di quella benevolenza e di quella compassione che le permette di sradicare davvero, anche simbolicamente, il rischio che la sanzione sia solo un modo più urbano della vendetta. Chiude la raccolta il saggio su “La coscienza e la legge. Una posta in gioco filosofica” (pp. 211-222), che esamina secondo tre livelli di analisi il rapporto tra la soggettività individuale e l’istanza universale della legge. Ad un primo livello l’identità personale si profila secondo la discriminazione essenziale del buono e del cattivo, articolato nelle sue varianti come «onorevole e vergognoso, degno e indegno, mirabile e abominevole, sublime e infame, piacevole e desolante, nobile e vile, soave e abietto, senza dimenticare la coppia del venerabile e dell’ingiustificabile» (p. 212), distinzioni rispetto alle quali si discrimina necessariamente tra il migliore e il peggiore valutando, creando gerarchie di riferimento e orientandosi nelle proprie scelte. Ad un secondo livello la regola si presenta piuttosto come divieto o interdetto con funzione strutturante, che però invita anche al rispetto per quella ‘voce della coscienza’ che è in realtà un appello al rigore, all’intransigenza e all’imparzialità. Infine, ad un terzo livello, si colloca il giudizio morale in situazione, che non è semplice applicazione di una regola già fatta o di una norma già data, come ben dimostra il diritto, con le sue operazioni complesse grazie alle quali si applica una norma al caso particolare secondo due procedimenti di interpretazione che si intersecano tra di loro: «Da una parte, quella del caso considerato, c’è il problema di ricostituire una storia plausibile, verosimile, dalla storia o piuttosto dall’intreccio di storie costitutive di quello che viene chiamato un caso, o per meglio dire una causa. Ora, il dibattimento, elemento centrale del processo, rivela quanto sia difficile evidenziare un racconto univocamente vero a partire dal confronto tra le versioni rivali, proposte dalle parti in causa. Non minore è la difficoltà dalla parte della norma: non sempre è immediatamente chiaro che tale caso deve essere sussulto sotto tale norma. Quella che viene chiamata qualificazione di un atto controverso risulta da un lavoro di interpretazione fatto sulla norma stessa» (p. 219). In particolare di fronte al tragico dell’azione, paradigmaticamente espresso dalla tragedia senza scampo di Antigone e Creonte, Ricœur rimanda ancora una volta all’ideale antico della phronesis e della prudentia, ossia della saggezza pratica che deve saper accettare ragionevoli disaccordi ed «elaborare fragili compromessi, in cui non si tratta tanto di decidere fra bene e male, fra bianco e nero, quanto fra grigio e grigio o, caso altamente tragico, fra male e peggio» (p. 222). Di fronte al tragico dell’azione il moralista deve saper assumere su di sé il peso di dire il male minore nella contingenza concreta, nell’adesione profonda ai valori del bene comune e nel rispetto rigoroso, intransigente ed imparziale delle norme condivise. (Gabriella Baptist)
Indice: Gli itinerari
della
giustizia:
Paul Ricœur (Daniella Iannotta) Chi è il soggetto del diritto? Il concetto di responsabilità. Saggio di analisi semantica È possibile una teoria semplicemente procedurale della giustizia? A proposito di Una teoria della giustizia di John Rawls Dopo Una teoria della giustizia di John Rawls La pluralità delle istanze di giustizia Giudizio estetico e giudizio politico in Hannah Arendt Interpretazione e/o argomentazione L’atto di giudicare Sanzione, riabilitazione, perdono La coscienza e la legge. Una posta in gioco filosofica Nota bio-bibliografica
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