Una delle calamità della scienza sociale è costituita da tutte quelle manifestazioni del pensiero dualista che si traducono in coppie di concetti antagonisti: interno/esterno, puro/impuro, normativo/positivo, assiologico/sociologico, comprensivo/esplicativo, Kelsen e Marx, e ogni sorta di opposizione dello stesso tipo. Per esprimere subito le mie intenzioni, dirò che il mio lavoro, senza che si sia proposto di farlo, mi sembra abbia come effetto proprio il superamento di queste opposizioni. Si prenda l’opposizione tra Kelsen e Marx, che grossomodo ricopre l’opposizione tra interno ed esterno; ebbene, è importante sapere che la si ritrova dappertutto, sotto forme simili e con delle basi sociali simili, nel dominio della sociologia dell’arte, nel dominio della sociologia della scienza, nel dominio della sociologia della filosofia, nel dominio della sociologia della letteratura, etc. Ciò permette in effetti di trasferire le esperienze da uno spazio all’altro. Penso sia da rifiutare allo stesso modo l’alternativa del diritto come ideologia o come scienza. Affermare che il diritto è un’ideologia equivale a non cogliere la logica e l’effetto specifici del diritto; detto questo, equivale anche a operare una rottura con la rappresentazione ingenua che vuole che il diritto sia universale, come scienza o come norma. Si può affermare, come Kelsen, che il diritto è un sistema normativo senza essere obbligati a dargli un fondamento trans-storico o trans-sociale. In altri termini, l’opposizione che si opera sempre tra relativismo (o storicismo) e assolutismo, o ancora, tra verità e storia, è fittizia. È possibile rifiutare il fondamento di tipo kelseniano, questa sorta di colpo di forza dell’assolutizzazione, senza ricadere nel vuoto relativista. La pretesa di universalità dei giuristi è fondata, ma in modo differente da come essi credono: non è fondata in una norma fondamentale. Bisogna abbandonare la questione del fondamento e accettare che il diritto, come la scienza, come l’arte (i problemi sono gli stessi in materia di diritto e di estetica), può non essere fondato che nella storia, nella società, senza che siano pertanto annullate le sue pretese di universalità. La nozione di campo, presa in un senso rigoroso che non ho adesso il tempo di spiegare, sta lì a ricordare che questo sistema di norme autonome che produce un effetto attraverso la sua coerenza, la sua logica, etc., non è caduto dal cielo o nato tutto armato di una ragione universale; il che non implica che sia pertanto il prodotto diretto di una domanda sociale, uno strumento docile nelle mani dei dominanti. È una falsa alternativa che impedisce di percepire il diritto nella sua coerenza di sistema di leggi come prodotto di un lungo lavoro cumulativo di sistematizzazione (ma di una cumulatività che non è quella della scienza), di un lungo lavoro di produzione di coerenza, di «razionalità», che si compie in uno spazio particolare che io chiamo appunto campo, vale a dire in un universo nel quale si gioca a un certo gioco secondo certe regole, nel quale non si entra se non pagando un certo diritto di ingresso, come avere una competenza specifica, una cultura giuridica, indispensabile per giocare il gioco, e una disposizione nei confronti del gioco, un interesse per il gioco, ciò che chiamo illusio (Huizinga, attraverso una falsa etimologia, dice che illusio viene dal latino in ludere, giocare in, ossia investire nel gioco, essere preso dal gioco). Ciò che chiede un campo, fondamentalmente, è che si creda al gioco e che gli si conceda che meriti di essere giocato, che valga la candela. Alain Baincaud (avrei dovuto dire, in apertura, che una parte importante della mia riflessione è stata ispirata dalle discussioni sorte nell’ambito del seminario che ho organizzato al Collège de France sul diritto), dunque, Alain Baincaud commenta in modo molto intelligente una nozione prodotta dai giuristi, quella di «pietosa ipocrisia», vale a dire di quella sorta di gioco di prestigio attraverso cui il giurista dà come fondato a priori, deduttivamente, qualcosa che è fondato a posteriori, empiricamente, e di cui si ritrova l’equivalente in tutti i campi professionali: è quello dell’oracolo che dice ciò che dice poiché l’ha ricevuto da un’autorità trascendente1. Questa pietosa ipocrisia è il principio stesso di ciò che chiamo violenza simbolica, dell’efficacia specifica di tutte le forme di capitale simbolico; essa consiste nell’ottenere un riconoscimento fondato sul misconoscimento, e in questo caso nel far apparire le proposizioni, le norme che in parte dipendono dalla posizione occupata in un campo giuridico da coloro che le enunciano, come se fossero fondate in un’autorità trascendente situata al di là degli interessi, delle preoccupazioni e dei problemi di colui che le formula. L’analisi della violenza simbolica permette di rendere conto dell’effetto proprio del diritto, ossia dell’effetto di auto-legittimazione attraverso l’universalizzazione, o meglio, attraverso la destoricizzazione. Ma per ottenere questo effetto di legittimazione vi è un prezzo da pagare, e i giuristi sono in qualche modo le prime vittime della loro creazione giuridica. Si tratta del senso dell’illusio: i giuristi non inducono la credenza se non nella misura in cui essi stessi vi credono. Se contribuiscono all’influenza giuridica è perché essi stessi sono presi in trappola, segnatamente al termine di tutto il lavoro di acquisizione della credenza specifica nel valore della cultura giuridica, lavoro che è estremamente importante per comprendere l’effetto esercitato dal diritto non solo su quanti sono sottoposti a giudizio, ma anche su coloro che producono questo stesso effetto. Per semplificare, e col rischio di ridurre il tutto a uno slogan, si potrebbe affermare che la rettitudine di coloro che dicono il diritto è uno dei fondamenti dell’effetto che il diritto esercita al di fuori, e allo stesso tempo è un effetto che il diritto esercita su coloro che lo esercitano, i quali, per avere il diritto di dire il diritto, devono essere «retti». Potrei riferirmi ancora una volta a quanto affermavano Alain Baincaud, Yves Dezalay o Anne Boigeol2: la costruzione dell’habitus del giurista comporta tutto un lavoro che sembra avere come fine l’acquisizione di una postura fisica, corporea, di magistrato, combinazione di ascesi, riserbo e tutto un insieme di virtù che sono la materializzazione nelle disposizioni corporee delle leggi fondamentali del campo giuridico come spazio autonomo nei confronti delle costrizioni esterne. L’autonomia del campo giuridico, come l’autonomia del campo letterario o del campo religioso, si afferma fondamentalmente in rapporto all’economia. Essere autonomo significa essere a distanza dall’economia, essere disinteressato, puro; opposizione, questa, che separa l’universo giuridico da quello degli affari, ma che si ritrova nel campo giuridico stesso sotto forma dell’opposizione tra diritto privato e diritto degli affari, sotto forma di una gerarchia interna allo spazio del diritto (il cui equivalente nel campo letterario, ad esempio, si ritrova nell’opposizione tra l’arte pura e l’arte commerciale). Questa gerarchia si stabilisce tra un diritto puro, disinteressato ed esercitato da persone che invocano la sola competenza specifica del giurista e manifestano attraverso il loro habitus tutta la loro distanza da quelle realtà temporali un po’ basse di cui si occupano gli altri giuristi, e all’altro estremo delle forme di diritto discreditate per delle ragioni differenti: vi è da un lato il diritto degli affari, di cui si dice che è corrotto, mischiato alle cose mondane, e dall’altro il diritto sociale, che è inferiore perché mischiato alle cose volgari. Si ritrova qui una legge assolutamente generale dei campi: la posizione di un campo autonomo all’interno di una gerarchia dipende in parte da quella della clientela corrispondente entro lo spazio sociale. Non è sufficiente dire che il diritto si produce e si esercita in uno spazio relativamente autonomo in cui gli effetti delle costrizioni economiche e sociali non si esercitano che in modo mediato. Bisogna anche ricordare che il campo giuridico è il luogo di lotte, ma di lotte che devono compiersi nelle regole, quand’anche abbiano di mira la trasformazione delle regole del diritto, l’attuazione di una rivoluzione giuridica (come nel caso del dominio del diritto degli affari). Le lotte di concorrenza all’interno del campo giuridico, ad esempio quelle per la conquista di mercati, assumono la forma di lotte di competenza (intendendo competenza in senso giuridico) per la competenza – vale a dire, ad esempio, il monopolio legittimo di un certo mercato –, lotte che sono a un tempo, inscindibilmente, giuridiche ed economiche. È questo uno dei meccanismi attraverso cui la logica giuridica penetra nelle condotte di coloro stessi che la trasgrediscono. Conoscete il proverbio: «L’ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù»; si potrebbe dire che la pietosa ipocrisia di cui ho parlato poco fa è un omaggio che gli interessi specifici dei giuristi rendono alla virtù giuridica; e in un certo qual modo, quando si è nel gioco giuridico, non si può trasgredire il diritto senza rafforzarlo. Quando si appartiene a un campo la cui legge fondamentale è quella del rifiuto del danaro, del disinteresse, etc., anche quando si trasgredisce questa legge, e in particolar modo quando la si trasgredisce per un interesse commerciale, si è condannati a rendere omaggio ai valori dominanti del campo perfino nel movimento stesso in cui li si contesta. Ad esempio, se anziché porre il problema dei rapporti tra il diritto e l’economia in termini astratti si studia concretamente l’evoluzione recente del diritto degli affari3, non si è più condotti a chiedersi se il diritto sia indipendente o invece determinato dall’economia, ma a osservare come il diritto penetri l’economia e come, per penetrare l’economia, debba assorbirla. Alcuni sociologi americani parlano di «litigoziazione»4, cioè di quel tipo di negoziazione tra grandi imprese che hanno come obiettivo quello di fare l’economia di un processo. Il diritto fa parte della realtà economica; un buon agente economico deve integrare nei suoi calcoli propriamente economici l’esistenza del diritto come forza sociale reale. Gli agenti giuridici hanno contribuito a produrre il bisogno dei loro prodotti producendo degli universi nei quali non si può più agire senza aver bisogno di essi. Si potrebbe prendere un altro esempio, quello dell’arbitrato5, che pone concretamente il problema molto astratto della legittimità. Nel caso degli arbitrati – in un divorzio, o per l’attribuzione di un bambino – il problema che si pone ai detentori della perizia giuridica è di formulare un verdetto che sia predittivo di quel che accadrà, e che contribuisce attraverso ciò a produrre quel che accadrà: se affido il bambino alla madre piuttosto che al padre, è in nome dell’«interesse del bambino», dunque di una predizione sulla persona più capace di occuparsi del bambino, predizione che presuppone l’intervento di un perito, della scienza. Il problema dei rapporti tra il diritto e la scienza si pone qui in modo assolutamente concreto. Sono due principi di legittimazione differenti che vengono a trovarsi in complementarità e in concorrenza, essendo la razionalizzazione una nuova arma della legittimità. La forza specifica del diritto è un qualcosa di molto paradossale, che sfiora l’impensabilità. È qui che bisogna rivolgersi a Marcel Mauss e alla sua teoria della magia. La magia non agisce che in un campo, vale a dire in uno spazio di credenza nel quale vi sono degli agenti socializzati in modo tale da pensare che il gioco al quale giocano valga la pena di essere giocato. La finzione giuridica non ha nulla di fittizio; e l’illusione, come dice Hegel, non è illusoria. Il diritto non è ciò che afferma di essere, ciò che crede di essere, ossia un qualcosa di puro, di perfettamente autonomo, etc. Ma il fatto che si creda tale, e che giunga a farlo credere, contribuisce a produrre degli effetti sociali assolutamente reali, e innanzitutto su coloro che esercitano il diritto. I giuristi sono i custodi dell’ipocrisia collettiva, vale a dire del rispetto dell’universale. Il rispetto verbale che è universalmente accordato all’universale è una forza sociale straordinaria, e come tutti sanno coloro che arrivano a porre l’universale dal proprio lato si dotano di una forza sociale non trascurabile. In quanto custodi «ipocriti» della credenza nell’universale, i giuristi detengono una forza sociale estremamente rilevante. Ma essi sono presi nel loro stesso gioco, e con l’ambizione all’universalità costruiscono uno spazio dei possibili, dunque degli impossibili, uno spazio che si impone loro, che lo vogliano o meno, nella misura in cui intendano restare in seno al campo giuridico. (traduzione di Gianvito Brindisi)
Il testo che presentiamo è la trascrizione di una relazione tenuta da Bourdieu, Les juristes, gardiens de l’hypocrisie collective, e pubblicata in F. Chazel, J. Comaille (éds.), Normes juridiques et régulation sociale, LGDJ, Collection Droit et société, Paris 1991, pp. 95-99. Si ringrazia la casa editrice LGDJ, e in particolare il prof. Jacques Commaille, direttore della collana “Droit et société”, per averci gentilmente concesso l’autorizzazione alla sua traduzione. [N.d.T.] 1 A. Baincaud, Une “constance mobile”: la haute magistrature, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 76-77 (marzo 1989), pp. 30-48. 2 Cfr. il numero dedicato a “Droit et expertise” di “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 76-77 (marzo 1989). 3 Y. Dezalay, Le droit des faillites: du notable à l’expert. La restructuration du champ des professionnels de la restructuration des entreprises, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 76-77 (marzo 1989), pp. 2-29. 4 Cfr. ibidem. 5 I. Théry, Le savoir ou savoir-faire: l’expertise dans les procedures d’attribution de l’autorité parentale post-divorce, “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, 76-77 (marzo 1989), pp. 115-117.
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