Giorgio
Agamben
Nudità
Roma,
nottetempo, 2009, pp. 170, ISBN 978-88-7452-151-7, Euro
15,00
Un
duplice filo conduttore teologico ed etico-politico tiene
sotterraneamente insieme i diversi saggi che Giorgio Agamben
raccoglie nel volume Nudità
e che completano indagini precedenti integrandole con prospettive a
volte curiose, a volte sorprendenti, ma sempre attente a cogliere i
risvolti impensati di una riflessione sul corpo e sull’opera. Che
si tratti di rimandi alla tradizione rabbinica, alle distinzioni
teologiche dei Padri o al pensiero islamico, che si rifletta invece
sul significato della calunnia nel diritto romano e nell’opera di
Kafka o sulla pratica della tortura nel suo legame con la ricerca
della verità, che si indaghi il profetismo e il messianismo, la
spettralità e l’intempestivo, il potere e l’impotenza, oppure
che si mediti sulle nuove tecniche poliziesche di identificazione e
riconoscimento – dalle misurazioni segnaletiche, attraverso i
dispositivi biometrici fino alla riduzione biologica dell’individuo
al suo codice genetico, ovvero ad una nuda vita di impronte criminali
e controlli repressivi –, in realtà nei diversi contributi è
sempre in questione la dimensione creaturale del finito, destinato
inevitabilmente a soccombere, e la necessità di salvare comunque ciò
che è stato prodotto, redimendolo dalla perdita che lo sommerge e
rinegoziando sempre di nuovo i legami e i confini tra l’alto e il
basso, il divino e l’umano.
Il contributo che dà il nome alla raccolta (“Nudità”, pp. 83-128) è anche il più ampio e il solo ad essere accompagnato da immagini in bianco e nero e a colori che mostrano corpi nudi esposti e variamente svestiti o rivestiti dall’opera dell’artista, del creatore, dell’angelo o del demone. Lo spunto è dato dalla performance berlinese di Vanessa Beecroft, che l’8 aprile 2005 aveva collocato in posa alla ‘Neue Nationalgalerie’ cento donne nude (in realtà coperte da collant trasparenti), immobili e indifferenti, offrendole allo sguardo incuriosito, ma anche imbarazzato dei visitatori. Più che una messa in scena voyeristica, più che un rituale sadomaso o una promessa orgiastica, secondo Agamben l’artista aveva voluto puntare il dito su paradossali inversioni di prospettiva: “non vi era nulla di più perfido dello sguardo annoiato e impertinente che soprattutto le ragazze più giovani sembravano a ogni istante gettare sugli inermi spettatori” (p. 84), quasi si assistesse ad una scena capovolta del Giudizio universale, in cui in realtà le ragazze “erano gli angeli, implacabili e severi, che la tradizione iconografica raffigura sempre coperti di lunghe vesti, mentre i visitatori – esitanti e imbacuccati com’erano in quello scorcio d’inverno berlinese – impersonavano i risorti in attesa del giudizio, che perfino la più bigotta tradizione teologica autorizza a rappresentare in tutta la loro nudità” (pp. 84-85). Forse allora, secondo Agamben, della nudità non era rimasta paradossalmente alcuna traccia, nonostante tutte le indubitabili evidenze, e così l’evento si produceva nel non aver luogo davvero, anche se inequivocabilmente si metteva in questione ed anzi si esponeva appunto la nudità del corpo umano, ma attraverso un suo uso estraniante. Qualcosa del genere era stato già proposto nel novembre 1981 dal celebre They are coming di Helmut Newton, a sottolineare da un lato che la nudità non è uno stato, ma un evento, un denudamento o una messa a nudo, per cui si mantiene comunque sempre una qualche traccia della veste; dall’altro lato evidenziando peraltro che la nudità può essere indossata come un vestito sontuoso che si porge senza alcuna sfacciata spudoratezza, ma solo con disinvolta indifferenza. Una esplicita segnatura teologica aleggia evidentemente intorno al nudo fin dal racconto della Genesi e fin da quella veste sovrannaturale di grazia e di luce che aderisce come un abito glorioso ai corpi di Adamo ed Eva prima che il peccato li spogli, costringendoli a scoprirsi nudi. Con la tradizione teologica da Agostino a Peterson si tratta perciò di riflettere sulla nudità e la veste, ovvero sul rapporto tra natura e grazia, su ciò che può essere tolto alla corporeità umana e che solo nel suo sottrarsi la esibisce come nuda, ma si tratta anche di ripensare il nesso tra la nudità e il vero nel suo mostrarsi aggraziato ed innocente, anche se la violenza sadica può certo oscenamente sfigurare e il disincanto della bellezza può velare ed offrire all’apparenza (come evidenziano Sartre e Benjamin, eredi contemporanei di una teologia della veste tuttora all’opera, secondo Agamben, perfino nella moda). Anche il saggio successivo (“Il corpo glorioso”, pp. 129-146) continua a riflettere sul nesso tra il corpo e la gloria, in realtà per riproporre in maniera paradigmatica la questione dello statuto etico e politico della vita corporea. A partire dalle sottili distinzioni dei teologi a proposito della corporeità dei risorti (dal Paradiso di trentenni prefigurato da Tommaso, ai dilemmi posti dalla costola di Adamo o dalle eventuali molteplici resurrezioni della carne dell’antropofago; dagli imbarazzi che causano le secrezioni e deiezioni corporali ai già platonici dubbi a proposito dei peli, dei capelli e delle unghie) Agamben centra l’attenzione in particolare sulla problematica inutilità degli organi riproduttivi e digestivi dei beati e sulla loro possibile glorificazione ostensiva nell’inoperosità e nella separazione dalla funzione fisiologica (cfr. pp. 139 e 141): “Il corpo glorioso non è un altro corpo, più agile e bello, più luminoso e spirituale: è lo stesso corpo, nell’atto in cui l’inoperosità lo scioglie dall’incanto e lo apre a un nuovo possibile uso comune” (p. 146). Del resto il significato originario della festa è precisamente nella sospensione della pura funzionalità di ogni operazione, nella liberazione da ogni prospettiva finalizzata meramente ad uno scopo (“Una fame da bue. Considerazioni sul sabato, la festa e l’inoperosità”, pp. 147-159). Nel sabato ebraico “se si mangia, non lo si fa per assumere cibo; se ci si veste, non lo si fa per coprirsi o ripararsi dal freddo; se si veglia, non lo si fa per lavorare; se si cammina, non è per andare da qualche parte; se si parla, non è per comunicarsi delle informazioni, se ci si scambiano oggetti, non è per vendere o per comprare” (pp. 156-157). Indipendentemente dal fatto che il riposo festivo sia poi da intendersi come secolarizzazione o addirittura profanazione della solennità liturgica o che viceversa sia stata la ritualità religiosa ad aver catturato nella sua sfera la neutralizzazione già sempre resa possibile dalla festa, secondo Agamben occorre guardare all’inoperosità secondo “una dimensione della prassi in cui il quotidiano, semplice fare degli uomini non viene negato e abolito, ma sospeso e reso inoperoso per essere, come tale, festosamente esibito” (pp. 158-159). Con garbo e discrezione il testo si conclude nel rimando alle marionette di Kleist – anche una riflessione sulla grazia e l’innocenza, sulla conoscenza e la naturalezza, sulle cose ultime e prime –, quasi a suggerire il compito di ripensare la sottrazione né come oscurità, né come arcano, né come fantasma, ma in quell’armonica relazione con ciò che sfugge, resa possibile soprattutto dalla bellezza e dall’arte, ossia come paradigma paradossale del sapere e della conoscenza, oltre che della condivisione. Si tratta allora di contrapporre una nuova reticenza alla sguaiata sfrontatezza di un presente che si reputa capace di tutto, ma in realtà si piega alla flessibilità e si adagia nell’irresponsabilità, occorre tentare un altro viaggio attraverso il mondo che trovi un qualche varco aggirando la chiusura del Paradiso.
Indice: Creazione
e salvezza
(a cura di Gabriella Baptist)
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