Bruno
Moroncini Moretti & Vitali, Bergamo 2008, ISBN 878-88-7186-375-7
I cinque saggi di cui si compone questo nuovo libro di Bruno Moroncini – quattro dei quali già pubblicati in rivista, ma che qui appaiono in versione aggiornata – hanno come filo conduttore quello del legame tra la scrittura filosofica e un particolare genere di scrittura letteraria che è l’autobiografia. Il legame tra queste due tipologie di scrittura, in apparenza quasi opposte – essendo la scrittura filosofica passione per l’essenza e quella autobiografica (e in generale biografica) passione per l’accidente – è duplice: entrambe sono “scrittura”, per quanto di genere differente, ed entrambe asseriscono di mostrare la “verità”. In quanto scrittura, sono tutte e due senza un’origine che non siano altre scritture e altre narrazioni; in quanto passioni della verità, sono passioni per lo svelamento, per la luce che illumina i “fatti” e i “dati”. Commentando la Folie du jour di Blanchot – in particolare una sua frase, questa: “la fine comincia” – Moroncini lega narrazione e filosofia. «La filosofia non è un genere letterario – egli scrive – è un genere di scrittura, una flessione del narrare. La filosofia è la narrazione dell’essenza. Vale anche per il narratore: vi racconterò come sono andate veramente le cose. Non i fatti (quelli sono finiti, non interessano nessuno), ma la verità dei fatti […] che li ha fatti venire alla luce, che li ha disposti in quel modo, la ragione per cui sono stati proprio quelli e non altri. Vi racconterò perché Achille s’infuriò e Ulisse ci mise tanto per tornare a casa. Ma anche come e perché c’è il mondo, quali sono i suoi elementi e come si compongono, le forze che li stringono e quelle che li sciolgono. Perché le cose esistono, dove stavano prima, dove staranno dopo. Perché gli uomini nascono e poi muoiono, perché soffrono e gioiscono, perché parlano e sognano. Perché si narra? Perché la follia della luce laceri il buio. Come i bambini: raccontami una storia, se no ho paura» (pp. 130-131). La parola della filosofia non ci dice niente di più sul piano del “sapere”, è una parola “supplementare” “inutile” e “risibile”. Tuttavia, è una parola che risponde ad una legge: «non devi narrare il giorno, ma la sua follia» (ibidem). La filosofia si connota così come passione dell’inizio, che si spinge a narrare come tutto abbia avuto inizio e come l’inizio sia iniziato; la filosofia, come passione della verità è il tentativo di corrispondere all’inizio della fine, a quell’evento che, accadendo, ha reso possibile l’inizio dell’inizio e l’inizio della sua fine (“la fine comincia”). Qui la scrittura filosofica incontra quella autobiografica. Anche per l’auto-biografia si tratta di narrare l’inizio della fine, l’autos, ciò che riesce a rendere ragione di quel che l’io narrante è diventato, della sua individualità personale. Il punto di connessione tra passione filosofica e passione auto-biografica – se interpreto correttamente il pensiero di Moroncini – è quello del “soggetto della verità”. Sia la narrazione filosofica che quella autobiografica, in quanto narrazioni del vero, implicano un soggetto, non di un “sapere”, ma della verità. Ma chi è il soggetto della verità? Come deve essere, per esserlo? La risposta è che «il soggetto della verità non è un dato, è un compito, è un effetto della legge, della legge della follia del giorno» (p. 128). Il soggetto che sarà capace di corrispondere alla “follia del giorno”, dovrà forse essere folle? Ma allora come potrà dar ragione, secondo il retto dire, secondo il bene-dire, dell’essenza dell’essere o dell’essenza dell’io, di quell’io che dice “io”, volendo dire la verità su di sé? Nell’auto-biografia, nel movimento stesso di una scrittura che è mossa dal desiderio di dire la verità c’è, sembra dire Moroncini, il movimento stesso della filosofia. I cinque saggi, benché rivolti ad autori per molti versi distanti tra loro, sono accomunati da tale questione. Potremmo dire che essi, seguendo l’ingiunzione autobiografica, trattando di Leopardi, di Nietzsche, di Benjamin, di Blanchot o di Dostoevskij, seguono solo la “legge del giorno”, mostrando come questa legge possa essere attuata, come ogni legge, solo attraverso la sua trasgressione. Dando per scontato che l’autore di un’autobiografia non sia affatto più “veritiero” e affidabile dell’autore di una biografia dedicata ad altri e che in questo genere di scrittura ci sia tanta “costruzione” quanta ce n’è negli altri generi, Moroncini approccia autori chiave per quel che potremmo chiamare interpretazione “biografica” delle loro opere. Quale rapporto c’è la poesia di Leopardi e la sua (vera o presunta) deformità? Quale relazione è giusto stabilire tra il pensiero di Nietzsche e la sua incipiente malattia mentale? In che modo l’esperienza della epilessia ha segnato l’opera di Dostoievskij? Quale connessione è possibile stabilire tra il carattere “celibitario” di Benjamin e la sua idea della felicità? Sono queste le domande centrali intorno alle quali i saggi si snodano, e in cui Moroncini sembra prendere per buona e feconda la tesi secondo la quale la malattia e il disadattamento sociale siano stati nella modernità condizioni di invenzioni artistiche, letterarie e filosofiche e forse anche politiche. Leopardi è il primo degli autori su cui Moroncini si sofferma. «Se l’individuo vivente – afferma l’autore – l’individuo della specie, nasce nudo, il soggetto, invece, per dirla con Cartesio, entra, nella scena del mondo, mascherato [..] Il soggetto fa finta, è colui che si lascia ingannare veritieramente dalla sua finzione e che, proprio per questo, inganna l’altro; ciò che caratterizza la finta, infatti, è che non potrete mai decidere se è una finta o no. E tuttavia è solo nella finta che si manifesta per lui la verità» (pp. 17-18). E la «maschera di Leopardi è il suo corpo, il suo corpo malato, il suo corpo deforme, questo suo corpo così stupidamente sopravvissuto» (p. 18). Questo corpo lo «significherà come soggetto nei confronti dell’altro in generale: non solo nei confronti dei contemporanei, ma anche nei confronti dei posteri» (ibidem). Nel medesimo tempo, solo attraverso questa finta soggettiva, « Leopardi farà della scrittura – poetica, prosastica e filosofica – il luogo in cui, lottando per e contro il proprio nome, per e contro il nome del padre, porrà all’ordine del giorno la questione: che cos’è il desiderio? Domanda che ne nasconde un’altra, decisiva: qual è il mio desiderio? » (ibidem). Moroncini mostra, lacanianamente, come questa lotta ingaggiata da Leopardi sia l’unica strada che il soggetto ha per non soggiacere alla legge del desiderio dell’altro, dietro cui si cela la legge mortifera del desiderio della madre. Il soggetto non può che sopravvivere come “resto” in tale lotta, sottraendosi sia alla distruttività del desiderio materno, grazie al “nome del padre”, sia alla legge simbolica del “nome del padre”, attraverso la scrittura e l’invenzione di metafore dell’impossibile, come è quella famosa della ginestra, il fiore del deserto. Solo attraverso la scrittura e l’invenzione di metafore dell’impossibile, infatti, che possano “significare” la sua stessa impossibilità, l’impossibilità del suo desiderio, cioè di un desiderio che non soccomba del tutto alla legge dell’altro, il soggetto può sopravvivere, esistendo come «un di-più-di-morte» (p. 22). Tutte le “scritture” che metaforizzano l’impossibile sono allora auto-biografiche, perché in esse ne va, per così dire, della possibilità dell’impossibile esistenza del soggetto. Questo significa che non a tutti è dato divenir soggetti, o meglio, per utilizzare un termine meno ambivalente, non a tutti è data l’esperienza della singolarità, che è la via strettissima attraverso cui il soggetto può sfuggire alla soggezione all’altro. Il divenir-singolarità, nel saggio dedicato a Nietzsche, assume le caratteristiche di una doppia discendenza, di una doppelte Herkunft. Il saggio è dedicato specificamente ad uno dei testi apparentemente più auto-biografici del pensatore tedesco, Ecce homo, in un passo del quale troviamo scritto: «[…] io, parlando per enigmi, come mio padre sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio. Questa doppia discendenza, come dire dal più alto e dal più basso germoglio sulla scala della vita […] questo solo, se mai, può spiegare quella neutralità, quella libertà di fronte al problema generale della vita, che forse mi contraddistingue» (p. 59). Anche qui Moroncini ritrova il medesimo movimento “singolarizzante”, che ha i connotati della sopravvivenza. Se esistere, per Nietzsche, non può che voler dire sopravvivere, per farlo egli ha bisogno certamente di “vivere”, di continuare a vivere la vita ricevuta dalla madre (la discendenza materna), ma la continuazione della vita non è affatto sopra-vivenza. Questa non può che aver a che fare con la morte, ma con una morte che non è un dato biologico, ma con la morte del padre, cioè con la morte di quell’altro simbolico che lo ha sottratto al desiderio materno, dandogli un nome e inserendolo nella catena simbolica. La morte del padre è, per Nietzsche, l’evento singolarizzante, l’evento che lo apre all’esistenza, rendendolo sopravvivente. Solo in tal modo, solo attraverso la stretta strada della sopravvivenza alla “doppia discendenza”, è possibile pensare l’oltreuomo nicciano, capace di crearsi liberamente le sue discendenze false ma “elettive”, come fa Nietzsche quando ad esempio scrive «io sono un nobiluomo polacco pur sang» o quando sostiene che «tutti i concetti dominanti sui gradi di parentela sono un insuperabile controsenso fisiologico […]. L’affinità con i propri genitori è minima: sarebbe un segno estremo della volgarità essere affini ai propri genitori. Le nature superiori hanno la loro origine più indietro, per arrivare ad esse si è dovuto raccogliere, risparmiare, accumulare come per nessun altro […] Giulio Cesare potrebbe essere mio padre, o anche Alessandro, questo Dioniso in carne e ossa» (cit. p. 73). La figura di Nietzsche ritorna anche alla fine del saggio intitolato Anima idiotica e dedicato sostanzialmente alla figura dell’idiota in Dostoieskij. Potremmo dire a questo punto che il soggetto della verità, il soggetto che, anche attraverso la malattia, ha fatto esperienza della singolarizzazione, è un soggetto idiota. Ricongiungendosi ad una lunga tradizione che va da Tertulliano al san Francesco giullare di Dio, il romanziere russo tratteggia la sua figura dell’idiota, legata anche all’esperienza devastante dell’epilessia, come colui che fa esperienza della verità e del desiderio. In quanto segnato dalla verità, l’idiota è colui che non-sa, perché folle ed ebbro; in quanto segnato dal desiderio, l’idiota è colui che mostra pietà del desiderio dell’altro, desiderando che si realizzi contravvenendo a qualunque “etica dei beni”. «La pietà dell’idiota – scrive Moroncini – è impietosa, essa denuda l’altro, lo pone di fronte a se stesso. Come Cristo porta la spada che separa, l’idiota apre il dissidio dentro l’altro, lo spacca lungo la linea che divide in ciascuno di noi il desiderio e il bene» (p. 91). Myskin, il protagonista dell’Idiota di Dostoievskij, ad esempio, in Nastasia, donna “perduta”, ama il suo perdersi. In Gania ama il suo gusto truffaldino. In Aglaia il suo infantilismo capriccioso. Egli «ama in loro l’abiezione, perché sa che nell’abietto, nell’oggetto abietto, il cui esemplare è il corpo di Cristo abbandonato alle potenze della morte, riluce l’aura, il brillio del desiderio. Ed è per questo che si oppone al loro tentativo di umiliarsi, di svilirsi, al loro bisogno di espiazione» (p. 92). L’idiota di Dostoievskij, il santo idiota che è tale da poter essere identificato col “grande criminale”, sposandone l’abiezione e, quindi, in ultima istanza il desiderio che in quella si nasconde, forse può essere concepito, attraverso Nietzsche, come una figura preparatoria all’oltreuomo. Nel saggio
dedicato a Walter Benjamin (Il nome segreto), attraverso
un’acuta ricostruzione dei rapporti ambivalenti del filosofo
tedesco con i suoi “nomi” (il nome paterno, i nomi “segreti”,
i falsi nomi, gli pseudonimi) la questione di chi sia il “soggetto
della verità” diviene la questione di cosa sia la felicità.
Questa non può che essere rintracciata sul terreno della storia, se
vogliamo sottrarci all’illusione (pessimistica) che essa possa
essere solo “promessa” e mai sperimentata. La felicità, per
Benjamin, non può che «articolarsi fra gli estremi dell’unicità,
della novità e del non ancora vissuto da un lato e della
ripetizione, del recupero, del vissuto dall’altro» (p. 118). Essa,
come scrive lo stesso Benjamin a proposito di Proust, «può assumere
la figura dell’inno e dell’elegia» (p. 119). O meglio, commenta
Moroncini, essa è sempre “sintesi” di entrambi, di unicità e
ripetizione, di inno e di elegia. La felicità, per gli umani, può
essere vissuta solo se rivolta al passato, ad un passato perduto,
mancato o vissuto a metà, può essere vissuta solo se rivolta ad un
passato che può essere così “redento”. L’origine è la meta:
«così come il vero amore non è quello che si vive al presente ma
quello che ci trascina indietro verso tutti gli amori mancati e
incompleti e nella sua caducità li porta a compimento: nell’amore
di una donna giungono alla loro verità tutti gli amori del passato»
(p. 121). E con una frase di Benjamin, rivolta ad una donna di cui si
sarebbe innamorato ad Ibiza nel 1933, «non appena ti ho veduta per
la prima volta, ho fatto ritorno con te colà donde sono venuto»
(cit. ibidem). (Vincenzo Cuomo)
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