Georges
Didi-Huberman trad. it. di S. Chiodi, Einaudi, Torino 2001, ISBN 88-06-15968-2, Euro 17,56
La tesi intorno alla quale ruota il libro di Didi-Huberman è la dimostrazione del carattere illusorio della idealizzazione artistica del nudo. Non c’è nudo artistico, egli sostiene, che non mostri, nelle forme della dissimulazione e del mascheramento, la nudità e la sua perturbante e inquietante minaccia. Non c’è nudo che non faccia intravvedere la nudità. Non c’è idealizzazione e “costruzione” del nudo che non faccia affiorare, suo malgrado, un fondo di disordine e di violenza. Ma, potremmo anche dire, seguendo Didi-Huberman nella sua ripresa di Bataille, che, all’inverso, non c’è nudità che non si mostri attraverso la profanazione e l’effrazione della forma nuda. L’oggetto critico su cui questa tesi teorica è verificata e ulteriormente chiarita è la pittura di Botticelli e, in particolare, il famoso dipinto raffigurante la Nascita di Venere (1484-86). Da sempre considerato come un esempio di ripresa rinascimentale (e neoplatonica) del nudo come “forma d’arte ideale” di origine greca – e per tale ragione connesso con la celebre Venere dei Medici, copia greca o romana del I secolo a. C. di un prototipo di Prassitele – questo dipinto botticelliano assume un particolare rilievo come banco di prova della tesi della “impossibilità” dell’idealizzazione del nudo, cioè dell’impossibilità della sua separazione dal negativo e dalla violenza perturbante della nudità. Quando gli storici dell’arte – come ad esempio Kenneth Clark, bersaglio critico esplicito di Didi-Huberman – cercano di dimostrare la possibilità del nudo come “forma ideale”, operano, a volte senza rendersene pienamente conto, secondo la strategia dell’isolamento, concetto che Didi-Huberman riprende da Freud. In base a tale strategia, si opera una separazione tra la forma e il desiderio: «ciò vuol dire che di fronte a qualsiasi nudo si potrebbe mantenere il giudizio e dimenticare il desiderio, mantenere il concetto e dimenticare il fenomeno, mantenere il simbolo e dimenticare l’immagine, mantenere il disegno e dimenticare la carne» (p. 8). Inoltre, secondo tale strategia desessualizzante, l’immagine del nudo la si riporta alle sue fonti letterarie, in modo tale da farla apparire una semplice traduzione figurativa di una catena discorsiva. È quel che è avvenuto per la Venere botticelliana, rapidamente riportata al “letterario” e, in particolare, ad un luogo delle Stanze del Poliziano. Contro tali interpretazioni normalizzanti, Didi-Huberman riprende uno scritto di Aby Warburg del 1893 dedicato proprio alla Nascita di Venere e alla Primavera di Botticelli, in cui il geniale storico dell’arte, mostrava come nei dipinti del pittore italiano ci fossero tensioni e inquietanti contro-movimenti. Innanzitutto, notava Warburg, i soggetti appaiono “impassibili” mentre la passione è spostata all’esterno, spesso molto vicino al limite dei corpi, secondo una tecnica omologa a quella poi descritta da Freud come “spostamento dell’accento psichico” – come accade per il vento che agita i capelli di Venere o le vesti delle tre Grazie nella Primavera. Inoltre, riflettendo sul riferimento del dipinto a Poliziano, egli interpreta questa fonte letteraria così come farebbe un mitologo (o uno psicoanalista con il materiale onirico), vale a dire senza omettere nulla della catena associativa, quindi senza romperne le polarità e le interne tensioni dialettiche. Nelle Stanze di Poliziano, infatti, i termini che esprimono gioia e felicità di fronte alla nascita della dea della bellezza, si trovano in un contesto di «un’autentica visione d’orrore, cosmica e organica al tempo stesso» (p. 25): la visione della castrazione di Urano da parte del figlio Saturno. Letta all’interno del suo contesto, la stessa immagine di Venere nascente assume tutt’altra connotazione e l’ambivalenza costitutiva della nudità si impone al di là della copertura idealizzante. Partendo da tale scritto di Warburg e citando il De pictura di Leon Battista Alberti e un famoso studio di Edgar Wind sul Rinascimento (Misteri pagani nel Rinascimento), Didi-Huberman ha, così, la possibilità di esplicitare la sua tesi teorica di fondo sul rapporto tra crudeltà e bellezza. Nel testo albertiano, infatti, si raccomanda al pittore lo studio dell’anatomia delle ossa e dei muscoli, affermando che «come a vestire l’uomo prima si disegna ignudo, poi il circondiamo di panni, così dipingendo il nudo, prima pogniamo sue ossa e muscoli, quali poi così copriamo con sue carni che non sia difficile intendere ove sotto sia ciascuno moscolo» (cit. a p. 28). Secondo Didi-Huberman, Alberti inaugurerebbe qui «un’autentica fenomenologia dell’apertura nel momento stesso in cui esige un atto di vestizione, necessario, a suo dire, alla “composizione delle membra”» (ibidem). Secondo tale concezione, dipingere un nudo «è di conseguenza assimilabile a un’operazione di progressivo rivestimento» (ibidem). Anche altri testi degli umanisti-filosofi del Rinascimento, come ad esempio quelli di Pico della Mirandola o di Leone Ebreo, sostengono un’idea di bellezza come internamente impura: “concordia discors” la definiva Gaffurio nel suo trattato musicale. L’origine del mondo è “mista”, sosteneva Pico della Mirandola, citando Eraclito ed Empedocle, per cui «non vi è bellezza in una natura semplice […] Venere ama Marte poiché la Bellezza, chiamata Venere, non può esistere senza questa contraddizione» (cit. a p. 31). La bellezza, in quanto principio composito, non può che nascere da una materia informe, cui essa, come forma bella, continuamente rimanda. Come Botticelli sapeva, e come attesta il suo dipinto Marte e Venere, non c’è bellezza corporea che non rimandi a una lacerazione originaria e che non imponga, fatto ancora più inquietante, di essere crudelmente “aperta” e profanata. Questo spiega anche il titolo del libro: aprire Venere. È lo stesso Botticelli che dà a Didi-Huberman la possibilità di verificare il nesso tra l’esibizione della nudità e la pulsione crudele della sua “apertura” e profanazione. Al museo del Prado vi sono quattro tavole che mostrano, in apparente contrasto con la Venere “eternamente nascente” degli Uffizi, una Venere “eternamente messa a morte”. In queste quattro tavole, è raffigurata una giovane donna nuda che fugge inseguita da un cavaliere armato e da due cani da caccia. In uno dei quadri si vede la giovane uccisa dal cavaliere, che le tira fuori le interiora da una lunga ferita nella schiena. In un altro riquadro vengono raffigurati i due cani che divorano le interiora della giovane. Ma, sullo sfondo di tale macabra raffigurazione, si intravvede la medesima fanciulla inseguita ancora dal cavaliere. Tutto è congegnato, commenta Didi-Huberman, come in una scena onirica; ritroviamo, del sogno, l’insensibilità alla contraddizione, il lavoro incessante dello spostamento, l’apparizione dell’informe. Sembra la raffigurazione di un incubo, eppure i pannelli erano stati commissionati per decorare una camera nuziale, come regalo di nozze, nel 1483, a Giannozzo Pucci e alla sua sposa. I dipinti riprendono un racconto di Boccaccio, la Storia di Nastagio degli Onesti, tratto dalla quinta giornata del Decameron. Perché la giovane inseguita dal cavaliere è nuda, si chiede Didi-Huberman? Rifacendosi ai cosiddetti “sogni di nudità” descritti da Freud, egli risponde che «la donna – ma è un’immagine – è nuda perché è l’oggetto del desiderio, vale a dire un oggetto psichico» (p. 67). Ma i pannelli mostrano, in particolare, che «la nudità è intessuta di sogno e di crudeltà» (p. 69). E qui il riferimento a Bataille diventa del tutto esplicito. Nel famoso racconto Madame Edwarda, Bataille «pone esplicitamente sullo stesso piano fenomenologico la nudità, nel senso in cui egli la intende, e la “sospensione” del soggetto “di fronte a ciò che è”: una sospensione che fa tendere l’essere nudo, privo di tutto, verso ciò che lo rovescerà» (p. 73). In senso batailleano, quindi, la nudità sarebbe tutto ciò che si sottrae ad una rappresentazione definita, per il fatto che essa «apre il nostro mondo» (p. 74). Che cosa significa qui “aprire”? Significa, sottolinea Didi-Huberman, che l’esperienza della nudità apre all’infinità del possibile; ma significa anche che essa apre perché “ferisce”, nel senso in cui si ferisce un corpo, attentando alla sua integrità. «Il momento della nudità dovrebbe essere qui inteso – conclude Didi-Huberman – come il perno dialettico di un paradosso centrale in tutto il pensiero di Bataille, ciò che egli chiama […] la “fondamentale contraddizione dell’uomo”: contraddizione tra la “volontà di durare”, lo sforzo per mantenere le forme dell’essere […] e una “sovrabbondanza dell’essere che si lacera e si perde”» (ibidem). Bataille, tuttavia, dice qualcosa di ancora più radicale ed inquietante, che appare nella sua crudezza nelle parole che, correttamente, Didi-Huberman cita subito dopo: l’essenziale, nell’esperienza della nudità, è quel movimento secondo cui la bellezza di un bel volto, di un bel corpo, richiede di essere profanata: «l’importante è profanare quel volto, la sua bellezza. Profanarlo in primo luogo mettendo a nudo le parti segrete […] Maggiore è la bellezza, più profonda è la sua profanazione» (cit. a p. 75). «Non vi è immagine del corpo – chiosa Didi-Huberman – senza immaginazione della sua apertura» (p. 77). Dopo aver verificato ulteriormente questo assunto attraverso Sade e attraverso la descrizione della Venere dei medici di Clemente Susini (1781-82), una Venere anatomica apribile che mostra le sue interiora, Didi-Huberman non può che parlare del fantasma perverso che, in tutta evidenza, inquieta tutte le raffigurazioni di corpi nudi e, in particolare, quelle prodotte dall’umanesimo fiorentino, nella sua lunga storia dal Trecento al Settecento. La tesi sostenuta dal filosofo e storico dell’arte francese non può essere etichettata come un semplice contributo interpretativo alla storia della cultura moderna. Col fantasma perverso e crudele dell’apertura di Venere, egli sembra dirci, dobbiamo fare i conti tutti, eruditi pittori rinascimentali e uomini comuni.
Vincenzo
Cuomo
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