Jacques Derrida, L'animale che dunque sono Jaca Book, Milano 2006, ISBN 88-1640751-4, Euro 26,00 Come ricorda nella Prefazione Marie-Louise Mallet, non sapremo mai che cosa sarebbe potuto diventare questo libro postumo, che Derrida aveva in mente di ampliare e che raccoglie due testi già pubblicati separatamente ed integrati dalle due parti ancora inedite del suo intervento al seminario di Cerisy del luglio 1997 su L’animale autobiografico. La questione dell’animalità attraversa in realtà la produzione derridiana fin dai testi degli anni Settanta e fin dai ripetuti confronti con Heidegger, affidata in genere a testi disparati che l’autore intendeva integrare e raccogliere in un saggio, la cui preparazione fu però sempre rimandata per mancanza di tempo, fino alla soglia ultima della malattia e della morte. Parole nude, per incominciare, annunciano fin dall’inizio che attraverso una riflessione sull’animalità si tratterà innanzitutto del nudo in filosofia (p. 35; 15). È di fronte all’animale, in effetti, allo sguardo della sua gatta, che – con una messa in scena solo apparentemente sartriana, in realtà post-heideggeriana, post-levinasiana, post-lacaniana – Derrida stesso scopre il disagio, il pudore, l’imbarazzo del sapersi nudo e trovarsi rispecchiato e osservato dalla nudità dell’altro, nudità che riteniamo strutturale e inconsapevole (e quindi propriamente neanche davvero tale), nell’atteggiamento pieno di vergogna di chi si sente come una bestia e perciò, sapendo di esser nudo, invece pudicamente si riveste: “L’animale sarebbe in situazione di non nudità in quanto nudo e l’uomo in situazione di nudità dal momento che non è più nudo. Ecco una differenza, un tempo o un contrattempo tra due nudità senza nudità” (p. 40; 20). E se il punto di vista del gatto, dell’altro assoluto e totalmente altro che non solo mi guarda, ma che reclama forse anche qualcosa, fosse invece proprio quello da cui occorre partire per tematizzare, rivelandola finalmente, la sua e la mia paradossale nudità/non nudità, oltre che la bestialità soltanto mia? La questione riporta al mito della Genesi, ad Adamo che dà il nome agli animali prima della caduta e della vergogna nel sapersi nudo, ma anche ai molti animali che costellano letterature, filosofie, tecniche, pratiche e saperi, con una consistente accelerazione di frequenze negli ultimi due secoli. A partire da Bentham e dalla sua sfida a chiedere non se gli animali pensino o parlino, ma se soffrano come noi – ovvero se possano non potere, se possano paradossalmente essere impotenti nella loro vulnerabile passività che condividono con la nostra finitezza e se perciò meritino compassione (cfr. p. 66; 49) – si snoda una riflessione che, da un’altra prospettiva sull’animale e sulla nudità sua e nostra, indaga in realtà una diversa genesi del pensiero: “L’animale ci guarda e noi siamo nudi davanti a lui. E pensare comincia forse proprio da qui” (p. 68; 50). Non è solo l’animale nella storia della filosofia ad essere in questione, da Aristotele che gli nega la capacità di linguaggio e mimesis, attraverso un Cartesio animalier con i suoi discorsi e meditazioni convocati già nel titolo, passando per l’antropologia di Kant, fino a Nietzsche e oltre, laddove magari si reanimalizza il concetto per impazzire poi abbracciando un cavallo; si tratta anche del bestiario filosofico che caratterizza la stessa autobiografia dell’autore, costellata di formiche, ricci, bachi da seta, ragni, api, serpenti, lupi, cavalli, asini, pesci, aquile, cani e perfino virus, e poi addirittura chimere, mostri, draghi, oltre al solito Pegaso. Nel porre il problema della differenza e dell’identità tra l’uomo e l’animale (l’animale che sono e non sono, l’animale che dice ‘io sono’, je suis, e dicendolo persegue ed insegue evidentemente qualcosa o qualcuno – si noti che suis in francese è anche la prima persona singolare di suivre –, magari proprio quell’animalità che doma e neutralizza o che attiva nella seduzione e nella vitalità), la questione se l’animale mi veda nudo e si veda nudo costringe a riflettere lacanianamente a partire da un qualche altro stadio dello specchio o levinasianamente su un faccia a faccia responsivo o meno che farebbero eventualmente la differenza. Ma non dice in fondo ‘eccomi’, a suo modo, anche l’animale, indicandosi autodeitticamente in un: ‘sono qua’, ‘sono io’, quando obbedisce mansuetamente alla mia convocazione? E l’esibizione seduttiva che nel mondo animale si dispiega in parate, musiche e colori non è forse anche un modo di automostrarsi che suscita variamente riservatezze, ritrosie, pudori? E viceversa non esistono forse movenze gregarie in ogni contesto sociale e politico? Non si mantiene un animale in ogni uomo, nonostante tutti i tentativi di esorcizzarlo facendone un tabù – per esempio denigrando la femminilità e l’infanzia? Perfino il pensiero più rispettoso dell’alterità la nega poi comunque all’animale: per Levinas, ad esempio, nonostante le celebri pagine autobiografiche sul cane del Lager, ultimo kantiano nella Germania nazista, “l’animale non ha volto, non ha il volto nudo che mi guarda e di cui io dovrei dimenticare il colore degli occhi. La parola così frequente di ‘nudità’, così indispensabile a Lévinas per descrivere il volto, la pelle, la vulnerabilità dell’altro o del mio rapporto con l’altro, della mia responsabilità per l’altro quando dico ‘eccomi’, non riguarda mai la nudità nella differenza sessuale e non compare mai nel campo del mio rapporto all’animale. L’animale non ha un volto e nemmeno una pelle, nel senso che Lévinas ci ha insegnato a dare a queste parole. Che io sappia non si prende mai seriamente in considerazione lo sguardo animale come nemmeno la differenza tra gli animali, come se io non potessi essere più guardato da un gatto, un cane, una scimmia o un cavallo come da un serpente o un qualche protozoo cieco” (pp. 158-159; 148). Per Lacan, come ricorda Derrida (cfr. pp. 173-198;163-191), l’animale sarebbe, sì, capace di finte strategiche (per esempio inseguimenti di tipo predatorio o seduttivo, depistaggi), ma non di inganni, né di menzogne o infingimenti, giacché non potrebbe accedere all’ordine simbolico, che lo renderebbe capace, attraverso la parola, di fingere una finta altrettanto bene che capace di dire o cercare la verità, la legge o la giustizia. Ma si può davvero dimostrare che un animale sia incapace di fingere una finta? E come distinguere tra la finzione semplice, che comunque si confronta con l’altro, e quella doppia? L’assunzione di Lacan, basata sulla distinzione tra un campo dell’immaginario senza alcuna alterità, cui gli animali attingono, e un campo del simbolico esclusivamente umano, è per Derrida del tutto arbitraria e ancora in debito verso la vecchia impostazione del cogito cartesiano e della sua eccellenza. Variando e capovolgendo il celebre verdetto heideggeriano esposto al § 42 dei Concetti fondamentali della metafisica secondo cui l’animale sarebbe senza mondo o povero di mondo, ovvero avrebbe e non avrebbe il mondo alla maniera di una privazione, Derrida si interroga piuttosto se sia mai possibile un mondo umano senza animali o povero di animali, un mondo dopo l’animale, dopo la sua passione e il suo sacrificio definitivo, gradito alla divinità ed anzi istituente la dimensione di quell’altro non umano che è il divino È in fondo il problema della finitezza, che accomuna e non accomuna l’uomo e l’animale, a stare al centro dell’attenzione di Heidegger e del suo lettore-interprete, quella tesi vertiginosa secondo cui l’animale non morirebbe propriamente, come sostiene Essere e tempo, ma cesserebbe semplicemente di vivere (verenden), oltre che quell’altra tesi sorprendente per cui il cane o il gatto sarebbero e non sarebbero con noi. Affrontando la questione dell’animale, si è in realtà al centro di un discorso ben più ampio sulla vita e sull’essere stesso: “Ne va della ‘differenza ontologica’, della ‘questione dell’essere’, di tutta l’impalcatura del discorso heideggeriano” (p. 222; 219). Nell’Introduzione
all’edizione italiana Gianfranco Dalmasso
sottolinea come sia la mancanza
il vero punto in questione nella definizione stessa dell’uomo, come
dimostrerebbe senza equivoci l’esperienza del pudore, visto che
nella propria nudità l’uomo si avverte come “mancante
a se stesso” (p. 9), identificando in
questo mancamento una colpa originaria. Attraverso la nudità e la
mancanza si ripropone allora l’umano nella sua fragilità come
vivente e come finito, magari proprio attraverso quella povertà
attribuita all’animale e attraverso la sua ostinazione a non
rispondere e a guardarci nella sua alterità, rimandando come in uno
specchio la nostra immagine capovolta di dominatori vinti. Jacques
DERRIDA, L’animale
che dunque sono,
edizione stabilita da Marie-Louise Mallet, introduzione all’edizione
italiana di Gianfranco Dalmasso, trad.
it. di Massimo Zannini, Milano, Jaca Book, 2006 (Di fronte e
attraverso, 751), pp. 224, Indice: Gianfranco Dalmasso, Introduzione all’edizione italiana: Il limite della vita Marie-Louise Mallet, Prefazione I: L’animale che dunque sono (segue) II III: E se l’animale rispondesse? IV (a cura di Gabriella Baptist)
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