di Judith Butler L’antropologo Talal Asad ha scritto di recente un libro sugli attentati suicidi. Non si tratta di un libro che si può portare con disinvoltura su un aereo, e il titolo di per sé suscita tutta una serie di sospetti. In effetti il titolo del libro è, semplicemente, Suicide bombing (Attentato suicida)1, e così non si capisce immediatamente che idea abbia l’autore rispetto a questo fenomeno. Il termine è, come minimo, destabilizzante, tuttavia eccolo lì, stampato a chiare lettere. La questione centrale del libro sta nel domandarsi se si possa concepire, pensare “un attentato suicida”, e di quali mezzi si necessita per farlo. Forse questa non è una domanda sorprendente, o forse, invece, lo è. Non è sorprendente perché il terrorismo suicida è un fenomeno sociale e dovrebbe perciò essere sottoposto ad analisi come qualsiasi altro. Ma per molti, in questo caso, c’è come una sorta di resistenza all’analisi, dal momento che i lettori vogliono essere informati, fin dal principio, che Asad, uno studioso con un nome arabo, è contrario a tale pratica. Ovviamente Asad ne è consapevole, ed è questo il motivo per cui senza dubbio chiarirà, per inciso, di non approvare la pratica del terrorismo suicida. Ma ciò nonostante vuole procrastinare il giudizio normativo rispetto a tale pratica, in nome di una “comprensione” di ciò che tale pratica è, di come funziona, e, soprattutto, su come viene interpretata all’interno di un certo pensiero occidentale, laico e liberale. Il motivo per cui egli vuole differire il problema del giudizio è complicato, ma non è di certo perché, segretamente, ci vuole celebrare la pratica del terrorismo suicida. In un certo senso, ci sta provocando, per vedere se sappiamo oppure no prenderci il tempo di considerare questo fenomeno, per impegnarci nel cercare in qualche misura di comprenderlo, prima di formulare un giudizio. In particolare, egli ci ferma precisamente nel momento in cui dobbiamo prendere in considerazione l’urgenza morale della nostra stessa reazione. Vogliamo sapere dove ci troviamo, per essere ben certi che egli giudica sbagliato il terrorismo suicida. Non vogliamo dover prendere in considerazione questa necessità, perché la consideriamo semplicemente giustificata, semplicemente giusta, in quanto ci si trova di fronte a qualcosa di semplicemente ingiustificato e ingiusto. Il compito di comprendere questo modo di reagire, tuttavia, è per l’appunto ciò che il libro ci propone. Nel corso della sua analisi, Asad cerca di comprendere l’“orrore” che si prova di fronte al terrorismo suicida, e si dimostra in grado di sottolinearne molti aspetti. Ma pone un problema in particolare che per me è interessante, in questa sede, poiché offre una chiave per pensare alla vulnerabilità, che propongo di prendere in considerazione stasera. Egli domanda: perché proviamo orrore e repulsione morale di fronte al terrorismo suicida, mentre non sempre proviamo lo stesso orrore e la stessa repulsione di fronte alla violenza di cui è responsabile lo stato? Egli pone il problema non tanto per dire che queste violenze si trovano sullo stesso piano, o, per insinuare perfino che si dovrebbe provare lo stesso sdegno morale di fronte ad entrambe. Ma trova curioso, e su questo punto lo seguo, che le nostre reazioni morali, reazioni che in principio si presentano in forma di percezione, di emozione, vengano tacitamente regolate da un certo tipo di griglia interpretativa. La sua tesi consiste nell’asserire che noi proviamo più orrore e repulsione morale di fronte a vite perse in modo brutale e in certe condizioni e in certi modi piuttosto che in altri. Se qualcuno viene ucciso oppure si trova ad uccidere in guerra, e la guerra è finanziata e condotta dallo stato da noi legittimato, allora tale morte viene considerata come deplorevole, triste, sfortunata, ma non certo radicalmente ingiusta. Tuttavia, se la violenza viene praticata da gruppi di insorti considerati fuorilegge, allora la nostra percezione cambia invariabilmente, o per lo meno così suppone Asad. Naturalmente è un problema giudicare chi potrebbe essere questo “noi”, di cui si dice che reagisce alla violenza con disgusto morale in un caso, ma non in un altro. Confesso di avere delle difficoltà proprio riguardo all’assunzione di questo “noi”, dal momento che sono incerta se Asad si consideri come parte di questo “noi”, e se esiste un sistema preciso per definire chi fa parte di “noi” e chi no. Analogamente confesso di sentirmi men che lieta nel ricorrere al termine “l’Occidente”… Dove inizia e dove finisce questo topos? Nello stesso tempo, mi sento incerta quando ci si riferisce a un qualcosa chiamato “democrazia liberale”, che sembra ricoprire con questo termine una quantità di forme politiche che più spesso anzi che no onorano i principi della democrazia liberale, violandola. Secondo il punto di vista di Asad, fanno parte di un insieme di presupposti che riguardano la legge e la modernità. Sebbene Asad ci chieda di pensare al terrorismo suicida – cosa che non farò oggi – è altrettanto chiaro che sta dicendo qualcosa di importante sulla politica di una reazione morale, cioè, che ciò che noi sentiamo è in parte condizionato da come interpretiamo il mondo che ci circonda, e che tale interpretazione di ciò che sentiamo può realmente alterare e in effetti àltera la percezione stessa. Ciò suggerisce che l’interpretazione aiuta a produrre e ad alterare la percezione. Non è che la percezione costituisca un’attività e l’interpretazione un’altra, ma quanto più le nostre interpretazioni vengono motivate da emozioni che possono essere o non essere a noi accessibili, tanto più quelle emozioni possono cambiare quando arriviamo a prenderle in considerazione in modo nuovo. Ho sempre apprezzato quel distinguo che alcuni filosofi compiono tra emozione e sensazione. La sensazione è accessibile, la sensazione viene appunto definita per mezzo della sua disponibilità a percepire l’esperienza attraverso i sensi. Ma potrebbe darsi che noi abbiamo emozioni che non percepiamo, le quali costituiscono una formazione psichica complessa e men che conscia. Alcuni, di fatto, hanno dimostrato che il senso di colpa (guilt) non è una sensazione, proponendo che si tratta di un complesso spostamento psichico, un modo di impedire alla sensazione di venire punto registrata. Altri hanno invece proposto che il senso di colpa sia, a tutti gli effetti, una sensazione, ma, ancora una volta, uno spostamento di un qualche altro conglomerato di emozioni, come per esempio dolore, nostalgia, o perfino paura. Se si accetta che la percezione è strutturata in base a sistemi di interpretazione che non comprendiamo interamente, questa consapevolezza può aiutarci a comprendere perché si dà il fatto che si può provare orrore di fronte a certe perdite e poi indifferenza, o giustificazione a tutti gli effetti, di fronte ad altre? La mia proposta è che nell’attuale situazione di guerra e di crescente nazionalismo si immagini che la nostra esistenza dipenda da altri con cui possiamo scoprire un’affinità nazionale, da noi riconosciuta, e che si conformano a certe specifiche nozioni culturali su ciò che è riconoscibile come umano da un punto di vista culturale. Questa specie di griglia interpretativa sottintesa funziona nel marcare una differenza tra quei popoli da cui dipende la mia vita e la qualità di essa, e quei popoli che invece ne rappresentano una minaccia. Potrebbe sembrare strano rivolgersi a Melanie Klein, a tal proposito, ma credo che si potrebbe vedere nel suo approccio ai sentimenti morali, specialmente nel suo trattamento del senso di colpa, un insieme di presupposizioni sulla sovranità politica che si iscrivono a un livello psichico. Naturalmente Klein non era affatto una sociologa, ma la sua teoria psicoanalitica porta con sé delle risonanze di una cultura politica più ampia. Inoltre, inconsapevolmente, presenta una teoria sull’interdipendenza sociale che il suo stesso impegno per una sovranità psichica sembrerebbe negare. Ci si dovrebbe leggere la sua teoria, rivolgendola contro essa stessa, per comprendere come Klein presenti un’idea dell’Io (self) come insieme di relazioni sociali e di dipendenze reciproche, nello stesso momento in cui avanza un’idea dell’ego (ego) che tende a rinnegare quelle relazioni sociali da cui dipende la sovranità psichica. Per Melanie Klein si può intendere il senso di colpa come una formazione psichica che non è commisurata a delle azioni date, ma funziona invece come modalità per disciplinare sopravvivenza e perdita. È importante notare come il suo scritto più complesso su senso di colpa e potenza distruttiva si trovi in un saggio intitolato Amore, Senso di Colpa e Riparazione, che venne pubblicato nel 1937. Anche se l’analisi kleiniana qualche volta ha fama di essere priva di mondo (world-less), per il fatto di concepire la psiche come sempre e soltanto guidata dai suoi propri impulsi, non c’è nessuna ragione di restringere la lettura delle opere di Klein ad un protocollo kleiniano. In verità si dovrebbe poter leggere Klein contro se stessa, per rendere il suo lavoro accessibile ad un’analisi politica e sociale. Non è ciò che farò questa sera, se non in modo appena accennato. Ma desidero far rilevare la differenza posta dal fatto che Klein stia scrivendo questo saggio nel 1937, mentre il nazismo sta iniziando a minacciare l’Europa, con il militarismo e un antisemitismo in crescita e progetti di espansione coloniale che stanno emergendo nella Germania fascista. Klein si chiede attivamente nel 1937 che cosa, se mai, potrebbe frenare la spinta alla distruzione. Su quali vincoli, se pure ce ne sono, si può contare mentre si osserva la crescente minaccia della guerra? Che cosa, se mai, ci fa venir voglia di conservare piuttosto che distruggere un’altra vita umana o un insieme di vite umane? Melanie Klein può certamente porsi questa domanda come se la risposta vada trovata all’interno della psiche. Ma credo che si dovrebbe trovare un modo di ripensare alla psiche come ad un fenomeno di relazioni, come una relazione con il mondo, in effetti, come un problema eterno posto da quell’insieme complesso di relazioni in contatto fra loro. È interessante, per esempio, che Klein scriva in modo eccessivo del potere distruttivo, ma che non lo faccia partendo dalla prospettiva del soggetto che teme di venire distrutto, che sa che può essere distrutto, o che vive una certa vulnerabilità nei confronti della distruzione in quanto parte della vita quotidiana. Se le nostre reazioni morali e affettive vengono condizionate da sistemi di interpretazione, e questi sistemi sono parte della regolazione della percezione attuata all’interno dell’operazione del potere – e del campo del politico –, allora avremo bisogno di un’altra griglia per seguire ciò che Klein ci deve dire. Ma seguiamo per un attimo la sua logica e poi ritorniamo al problema del controllo della percezione e, in particolare, sui modi, diversi tra loro, con cui si fa esperienza e si prende in considerazione la vulnerabilità alla distruzione. Seguendo la riflessione di Freud sulla criminalità, là dove egli suggerisce che il senso di colpa potrebbe precedere e accelerare un misfatto, Klein dimostra che il senso di colpa potrebbe, di fatto, essere completamente sproporzionato rispetto ai misfatti compiuti. Un misfatto può esistere a buon diritto – accantonando per il momento che cosa si intende con ciò –, ma è anche possibile sentirsi in colpa semplicemente rispetto all’impulso distruttivo, sia stato esso assecondato oppure no. Il senso di colpa agisce come un profilattico, controllando l’impulso che distruggerebbe l’oggetto d’amore. Perché dovrebbe essere così importante assicurarsi che l’oggetto d’amore non venga distrutto? La risposta di Klein non ha niente a che fare con la sacralità della vita umana o la richiesta etica di protezione che un’altra vita ci impone. Piuttosto, il fatto è che senza l’oggetto d’amore l’ego (ego) non crede di poter sopravvivere. Secondo Klein, allora, noi cerchiamo di proteggere l’altro contro la nostra stessa violenza in modo tale da evitare una crisi di sopravvivenza che riguarda noi stessi. La spiegazione psicoanalitica fa ricorso alla dipendenza letterale del bambino nei confronti dell’adulto che si prende cura di lui, e senza il quale il bambino non può sopravvivere. Ma per l’adulto quello stato di dipendenza sopravvive nei termini di eventualità di una perdita cui non si sopravvive. In una situazione di questo genere, se un individuo perde l’altro, allora non saprà più chi egli stesso “è”. La medesima essenza di un individuo – la prospettiva di sopravvivere come individuo – diventa impensabile. Questo naturalmente solleva una questione ontologica: chi sono “io” allora, visto che determinate perdite sembrerebbero minacciarmi rispetto alla mia stessa sopravvivenza? Sono legato ad altri in modi tali da rendere la mia sopravvivenza, alternativamente, sia pensabile che impensabile? Si noti che questo è diverso dal domandarsi se sono dipendente, se la “dipendenza” sia un attributo ascrivibile alla mia persona. Ed è cosa diversa dal domandare se sono vulnerabile o se ho dei bisogni, come se “vulnerabilità” e “bisogni” fossero in qualche modo delle caratteristiche dell’individuo che io sono. Ciò che si va descrivendo, anche se la stessa Klein non lo potrebbe teorizzare, è un insieme di relazioni senza le quali non esiste nessun io (self). A questo punto si dovrebbe riconsiderare l’io non come un’entità delimitata, ma come qualcosa che è legato ad altri. Mi trovo qui, in questo luogo dove vive il mio corpo separato, ma sono anche laggiù, fuori da me, in un insieme di relazioni senza le quali il mio corpo non sarebbe affatto pensabile. Sto descrivendo uno spostamento, un’espropriazione perfino, che è una condizione di vita sociale, che significa che si deve riconsiderare questo processo, questa lotta, sempre in termini di luogo, di frontiera, di difesa, e di tutte le altre metafore che la psicologia dell’ego (ego psychology) ha ereditato dal linguaggio della sovranità politica. Spero di riportare tutto ciò ad una questione politica, mostrando come questo modo di pensare a proposito del corpo e della vulnerabilità implichi più generalmente una certa visione politica della sovranità, presa alla lontana. Ma voglio suggerire, forse un po’ provocatoriamente, che l’espropriazione è un punto di partenza per pensare alla vulnerabilità e al dovere come a qualcosa di analogo. Non è soltanto in base a questo corpo che io faccio richiesta di certi diritti, ma anche in quanto esponente di una condizione sociale che eccede e infrange questo punto di vista in prima persona. Il mio corpo mi appartiene e non mi appartiene nello stesso tempo, e non è soltanto per il mio corpo che io prendo la parola quando faccio un’affermazione sui diritti. La questione sollevata dal nazionalismo e dalla guerra attuale è allora: quali sono i limiti per concettualizzare quello stato di interdipendenza sociale senza il quale non posso sopravvivere? È la nazione soltanto a garantire la mia sopravvivenza? O è invece proprio la nazione ciò che la mette in pericolo? Molte delle più profonde passioni politiche si incentrano sul tema dei limiti e dei confini. Su chi possa attraversare la frontiera e chi no. Chi attraversa senza autorizzazione o giustificazione, i flussi di capitale, le lotte sull’immigrazione e le pratiche di guerra, tutte queste realtà si incentrano sulla questione di come e quando e perché un confine possa essere attraversato. La prospettiva è tale per cui la “permeabilità dei confini” costituisce una minaccia nazionale, o addirittura una minaccia alla propria stessa identità. L’identità, comunque, non è pensabile senza un confine “permeabile”, così come non è pensabile senza la possibilità di un confine su cui è stato allentato il controllo. In un caso si teme l’invasione, abusi e ripercussioni, e si fa una rivendicazione territoriale in nome di una legittima difesa. Ma nell’altro caso, un limite viene ceduto o vinto allo scopo preciso di stabilire una certa relazione, al di là delle rivendicazioni territoriali. La paura relativa alla capacità di sopravvivenza può accompagnare perfino il gesto, e se è così, che cosa ci potrà dire su una capacità di sopravvivenza e di vulnerabilità di questo tipo?
Se Klein ha ragione, si sviluppano delle reazioni morali in risposta alle questioni della capacità di sopravvivenza. La mia scommessa è che Klein in questo abbia ragione, perfino mentre si oppone alla sua stessa intuizione, insistendo sul fatto che è la capacità di sopravvivenza dell’ego (ego’s survivability), alla fine, il punto in questione. Perché proprio l’ego? Dopo tutto se la mia capacità di sopravvivenza dipende dalla relazione con altri, con un “tu” o con un insieme di “tu”, senza i quali non posso esistere, allora la mia esistenza non è soltanto mia, ma va trovata al di fuori di me, in questo intreccio di relazioni che precede e oltrepassa i limiti della mia persona. Se io non posseggo affatto un limite, o se invece si può dire che un limite mi appartenga, allora è solo in quanto io sono separato da altri ed è solo a condizione di questa separazione che mi posso relazionare con loro. Così il limite è una funzione della relazione, una mediazione della differenza, una negoziazione in cui io sono legato a te, nel mio essere separato. Se cerco di conservare la tua vita, allora ciò non avviene soltanto perché cerco di conservare la mia vita stessa, ma perché ciò che “io” sono non è nulla senza la tua vita, e la vita stessa deve essere ripensata alla luce di questo insieme di relazioni verso gli altri complesso, appassionato, antagonista e necessario. Potrei perdere questo “tu”, e un numero qualsiasi di altri, e potrei sopravvivere bene a quelle perdite. Ma questo può accadere solo se io non perdo, in assoluto, la possibilità di un qualche “tu”. Se sopravvivo è solo perché la mia vita non è nulla senza la vita che mi oltrepassa, e che si riferisce ad un tu in qualche modo designato, indicizzato, senza il quale non posso esistere.
Ma prima di spostarmi su questa traccia, che riguarda come pensare al di là dell’ego individuale (individual ego) e i limiti del corpo, mi sia permesso di fare ritorno per un momento a ciò che credo giusto di ciò che Klein offre alla riflessione. Se la colpa è legata ad una paura per la capacità di sopravvivenza, allora ciò suggerisce che, come reazione morale, alluda ad un insieme pre-morale di paure e impulsi legati da impulsi distruttivi e dalle loro conseguenze. Se il senso di colpa pone una questione al soggetto umano, non si tratta in primo luogo e anzitutto di un problema relativo al fatto che io stia conducendo una buona vita, oppure no, ma se la vita sia vivibile tout court. Che sia concepito come emozione o come sensazione, il senso di colpa ci dice qualcosa su come avviene il processo di moralizzazione e come prenda un’altra strada rispetto alla crisi della stessa capacità di sopravvivenza. Se uno si sente in colpa alla prospettiva di distruggere l’oggetto/l’Altro al quale è legato, l’oggetto di amore e di attaccamento, ciò potrebbe darsi per ragioni di auto-conservazione. Se distruggo l’altro, allora io distruggo colui da cui dipende la mia sopravvivenza, e in tal modo minaccio con il mio atto distruttivo la mia sopravvivenza stessa. Se Klein è nel giusto, ciò significa, allora, che probabilmente non mi importa molto dell’altra persona in quanto tale; gli altri non vengono da me messi a fuoco in quanto altri, esseri separati da me, che “meritano” di vivere e la cui vita dipende dalla mia capacità di controllo sulla mia propria spinta distruttiva. Per Klein, la questione della sopravvivenza precede quella della moralità; effettivamente, sembrerebbe che il senso di colpa non sia indice di una relazione morale verso l’altro, ma un desiderio sfrenato di auto-conservazione. Secondo Klein io voglio soltanto che l’altro sopravviva così che in tal modo anch’io possa sopravvivere. L’altro è strumentale alla mia propria sopravvivenza e il senso di colpa, perfino il senso morale sono semplicemente le conseguenze utili di questo desiderio di auto-conservazione, che è minacciato soprattutto dal mio proprio impulso distruttivo. Se si accoglie il suo punto di vista in base al quale è il potere distruttivo a costituire il problema per il soggetto umano, ciò appare più acutamente vero in tempo di guerra. E mi sembra acutamente vero per coloro che si trovano in una posizione di potere per intraprendere una guerra, per diventare quei soggetti la cui capacità distruttiva minaccia intere popolazioni. Così se conduco un certo tipo di critica, da esponente del primo mondo, sull’impulso distruttivo in questo contesto2, ciò può essere precisamente perché sono cittadina di un paese che sistematicamente idealizza la propria capacità omicida. Penso che ci si trovasse in una scena di Rush Our 3, quando i nostri criminali preferiti, americani, prendono un taxi a Parigi. Il tassista realizza che sono americani ed esprime il suo interesse, pieno di entusiasmo, per l’avventura americana in corso. Lungo la strada fornisce una perspicace intuizione etnografica: “Americani!” – dice “Tipi che ammazzano la gente per nessun motivo!”. Ora, naturalmente, il governo degli Stati Uniti fornisce ogni tipo di ragione per le proprie uccisioni, e nello stesso tempo non chiama affatto tali uccisioni delle “uccisioni”. Ma se mi assumo la responsabilità di un’indagine sul problema della capacità di distruzione, e se mi rivolgo, come spero di fare, verso il problema della precarietà e della vulnerabilità, lo faccio proprio perché penso che un certo spostamento di prospettiva sia necessario per ripensare la politica globale. La nozione di soggetto prodotta dalle guerre recenti condotte dagli Stati Uniti, torture incluse, è tale per cui il soggetto U.S.A. cerca di prodursi come qualcosa di impermeabile e di definirsi come continuamente protetto contro le incursioni, e radicalmente invulnerabile agli attacchi. Il nazionalismo funziona in parte nel produrre e nel sostenere una certa versione del soggetto, che si potrebbe anche chiamare, volendo, immaginario. Ma dobbiamo ricordare che è prodotto e sostenuto attraverso potenti aspetti dei media, e che ciò che conferisce potere a versioni del soggetto come queste, consiste precisamente nel modo con cui tali versioni sono in grado di rendere giusta la capacità distruttiva medesima, e impensabile la possibilità di poterlo distruggere.
Il problema di che cosa possa limitare quelle relazioni, è perciò legato al fatto se noi possiamo oppure no estendere il nostro senso di dipendenza politica e di impegno nei confronti di uno scenario globale che oltrepassa i confini della nazione. Il nazionalismo degli Stati Uniti si è ovviamente incrementato a fronte degli attacchi dell’11 settembre 2001, ma ricordiamoci che questo è un paese che estende la propria giurisdizione al di là dei confini, che sospende i suoi obblighi costituzionali all’interno delle proprie frontiere, e che si concepisce come non tenuto a nessun accordo internazionale. Gli U.S.A. puntellano i propri diritti di sovrana auto-protezione nel tempo stesso in cui compiono giustificate incursioni nei confronti di altri paesi sovrani, o, nel caso della Palestina, rifiutano completamente di onorare qualsiasi principio di sovranità. Ciò che voglio suggerire è che la mossa di affermare senso di dipendenza e di obbligo al di fuori dello stato nazione deve essere distinta da quelle forme di imperialismo che rivendicano i propri diritti di sovranità al di fuori dei confini dello stato-nazione. Questa non è una distinzione facile da fare o da difendere, ma penso che di questi tempi rappresenti una sfida necessaria e attuale. Quando mi riferisco ad una scissione che struttura (e destruttura) il soggetto nazionale, mi riferisco precisamente a quelle modalità di difesa e di spostamento, tanto per prendere a prestito una categoria psicoanalitica, che ci conducono, nel nome della sovranità, a difendere una frontiera nell’un caso, e a violarla in un altro. Anche il richiamo all’interdipendenza, allora, viene fatto per superare questa scissione e per spostarsi verso il riconoscimento di una generalizzata condizione di precarietà. Non può essere che l’altro sia distruttibile e che io non lo sia, e non può essere che io sia distruttibile e che l’altro non lo sia, ma solo che la vita, intesa come vita precaria, sia una condizione generale, e che, stante certe condizioni politiche, accade che venga radicalmente inasprita o sconfessata. Questa scissione per cui il soggetto asserisce la propria giustificata capacità distruttiva nello stesso tempo in cui cerca di rendersi immune contro il pensiero della sua stessa precarietà, è caratterizzata dal fatto che la politica viene guidata dall’orrore al pensiero della distruttibilità della nazione o di quella dei suoi alleati. Essa costituisce una specie di incrinatura non ragionata al centro del soggetto del nazionalismo. Il punto non consiste nell’opporsi alla dimensione distruttiva di per sé, nell’opporre a questo soggetto diviso rappresentato dal nazionalismo degli Stati Uniti un soggetto la cui psiche voglia sempre e soltanto la pace. Io accetto che l’aggressione sia parte della vita, e dunque pure una parte della politica. Ma l’aggressione può e deve essere separata dalla violenza (la violenza è una delle forme che assume l’aggressione), e ci sono modi di dare forma all’aggressione che operano al servizio di una vita democratica, e che includono l’“antagonismo” e il conflitto saltuario, gli scioperi, la disobbedienza civile, e perfino la rivoluzione. Hegel e Freud convergono fra loro nel comprendere giustamente che la repressione della distruzione può avvenire soltanto attraverso il trasferimento della distruzione nell’azione di repressione, così che sembrerebbe che qualsiasi pacifismo basato sulla repressione abbia semplicemente trovato un’altra sede per la spinta distruttiva, ma senza avere in nessun modo successo nella sua estinzione definitiva. Sembrerebbe che la sola altra alternativa sia quella di trovare dei modi di padroneggiare e controllare la spinta distruttiva, di conferirle una forma vivibile, il che sarebbe un modo per affermare che continua a esistere, assumendosi la responsabilità per le forme sociali e politiche con cui avviene. Questo sarebbe un’operazione diversa sia rispetto alla repressione, sia rispetto a un’espressione “liberata” e senza limiti. Se richiedo il superamento di una certa scissione nel soggetto nazionale, non lo faccio allo scopo di riabilitare un soggetto unitario e coerente. Il soggetto è sempre al di fuori di sé, altro da sé, dal momento che la sua relazione con l’altro è essenziale a ciò che esso è (qui, chiaramente, resto perversamente hegeliana a tutt’oggi, nel 2008). Si accampa così la seguente domanda: come capire che cosa significa essere un soggetto che è costituito nelle sue relazioni o in quanto alle sue relazioni, la cui capacità di sopravvivenza è una funzione e un effetto delle modalità della sua capacità di relazionarsi? Con queste intuizioni in mente ritorniamo ora al problema che pone Asad a proposito della reazione morale. Se la violenza in sé, o la violenza giustificata è messa in atto dagli stati e se una violenza ingiustificabile è messa in atto da agenti non statuali o agenti che si oppongono agli stati esistenti, allora abbiamo un modo di spiegare perché ci accostiamo a certe forme di violenza con orrore e ad altre forme con un certo senso di accettazione, o, in certi casi, perfino di giustezza e di senso di trionfo. Le reazioni emozionali sembrano essere primarie, non necessitano di essere spiegate, antecedenti all’impegno di comprendere e di interpretare, come è giusto che sia. Noi siamo, per così dire, contro ogni interpretazione nel momento in cui reagiamo con orrore morale di fronte alla violenza. Ma per quanto a lungo restiamo contro l’interpretazione in momenti del genere, non saremo capaci di fare un resoconto sui motivi per cui la sensazione di orrore viene sperimentata in modo diverso, e non solo continueremo in base a questa assurdità, ma la prenderemo come il segno dei nostri innati e lodevoli sentimenti morali, forse perfino come fondamento essenziale della nostra “umanità”. Paradossalmente, la scissione non ragionata della nostra capacità di reagire rende impossibile rispondere con lo stesso orrore alla violenza commessa contro popolazioni di ogni genere. In questo senso, se prendiamo il nostro orrore morale come segno della nostra umanità, dimentichiamo di notare che l’umanità in questione è, di fatto, implicitamente divisa in due, tra coloro per i quali proviamo una sollecitudine pressante e non ragionata, e coloro le cui vite e morti semplicemente non ci toccano o addirittura non ci appaiono affatto delle vite. Come comprendiamo il potere regolatore che crea questo differenziale a livello della capacità di reazione morale e emozionale? Forse è importante ricordare che la responsabilità richiede capacità di reagire e che tale capacità non è uno stato puramente soggettivo, ma un modo di rispondere a ciò che è davanti a noi con quelle risorse che abbiamo a disposizione. Noi siamo già degli esseri sociali che funzionano all’interno di elaborate interpretazioni sociali, quando proviamo orrore o manchiamo del tutto di provarlo. La nostra percezione (affect) non è mai puramente nostra: fin dall’inizio, la percezione viene comunicata da qualche altra parte. Ci prepara a percepire il mondo in un certo modo, a lasciarne entrare alcuni aspetti e a resistere ad altri. Ma se una reazione è sempre ad una situazione percepita del mondo, cos’è allora a far sì che alcuni aspetti del mondo diventino percepibili ed altri no? Come si deve riaccostare questo problema di reazione percettiva e di valutazione morale tenendo conto di quelle griglie di valutazione già in atto, secondo le quali alcune vite vengono considerate come vivibili, come meritevoli tanto di protezione, quanto di un battersi a loro favore, ed altre non meritano tale protezione proprio perché non sono “vite” vere e proprie, secondo le normative culturali che governano la percezione degli esseri viventi? Si potrebbe, per esempio, credere nella santità della vita o essere favorevoli ad una filosofia generica improntata alla non violenza, che si oppone all’azione violenta di qualsiasi genere. Ma se certe vite non vengono percepite come vite, e ciò include esseri senzienti che non sono umani, allora la proibizione morale relativa alla violenza verrà applicata solo in modo selettivo. La critica alla violenza deve iniziare con la questione della rappresentabilità della vita stessa: che cosa fa sì che una vita diventi visibile nella sua precarietà e nella sua necessità di riparo, e cosa invece ci impedisce di vedere o di comprendere certe altre vite in questo modo? Il problema ha a che fare con i media, ad un livello più generale, dal momento che è solo a condizione che una vita risulti percepibile che si può accordare ad essa un certo valore. Ed è solo a condizione di certe strutture di valutazione integrate che una vita può diventare percepibile a tutti gli effetti. Percepire una vita non è proprio la stessa cosa che imbattersi in una vita, colta nella sua precarietà. Imbattersi in una vita in quanto precaria è un incontro nudo, uno di quelli in cui la vita viene spogliata di tutte le sue interpretazioni abituali, apparendoci al di fuori di ogni relazione di potere. Un atteggiamento etico non giunge spontaneamente una volta che le abituali griglie interpretative vengono distrutte, e non sorge nessuna pura coscienza morale, quando ci si è liberati dalle catene dell’interpretazione comune. Al contrario, è soltanto attraverso una sfida ai media dominanti che alcuni tipi di vita diventano visibili o percepibili nella loro precarietà. Non è soltanto, o almeno non esclusivamente, la percezione visiva di una vita a formare un presupposto necessario per una comprensione della sua precarietà. Una volta che si decide di prendere in considerazione un’altra vita, ciò avviene attraverso tutti i sensi. Ma se si considerano le condizioni che producono quel differenziale secondo cui alcuni tipi di violenza vengono santificati e altri aborriti, il tacito schema interpretativo che divide le vite fra quelle che hanno un valore e quelle che non lo hanno, funziona fondamentalmente attraverso i sensi, attraverso una modalità di differenziazione tra il grido che possiamo ascoltare e quello che non possiamo ascoltare, la vista che possiamo e quella che non possiamo sostenere, ma anche a livello di tatto e perfino di odorato. La guerra ha luogo e sostiene le sue regole agendo sui sensi, piegandoli ad percepire il mondo in modo selettivo, una percezione ammortizzata come reazione a determinate immagini e suoni, e una reazione ravvivata ed emozionale agli altri. Questo è il motivo per cui la guerra funziona per indebolire una democrazia sensata, limitando ciò che possiamo sentire, rendendoci propensi a provare shock e sdegno di fronte ad una forma di violenza e giustificata freddezza di fronte ad un’altra. Per andare a incontrare la precarietà di un’altra vita, i sensi devono essere operativi, il che significa che si deve intraprendere una lotta contro quelle forze che cercano di regolamentare la percezione in modi differenziali. Il punto non sta nella celebrazione di una piena deregolamentazione della percezione, ma nel mettere in dubbio le condizioni della reazione attraverso l’offerta di contesti interpretativi per la comprensione della guerra che pongano delle domande e si oppongano alle interpretazioni dominanti, le quali non solo distorcono la percezione, ma prendono forma – e diventano operative – come percezione esse stesse. Se si considera l’intuizione in base alla quale la nostra stessa sopravvivenza non dipende dal vigilare un confine – la strategia di una sovranità di un certo tipo in rapporto al suo territorio – ma nell’individuare in che modo siamo dipendenti dagli altri, tale intuizione ci conduce a riconsiderare il modo con cui noi concettualizziamo il corpo nel campo della politica. Dobbiamo pensare se sia giusto definire il corpo come un certo tipo delimitato di entità. Ciò che rende un corpo separato non è una morfologia stabilita, come se potessimo identificare certi aspetti o forme fisiche paradigmaticamente umane. Di fatto, non sono per niente sicura che noi possiamo identificare una forma ‘umana’, né penso che ne abbiamo bisogno. Questo modo di vedere permette come conseguenza di ripensare il genere sessuato, l’invalidità, e la discriminazione razziale, tanto per nominare alcuni dei processi sociali che dipendono dalla riproduzione di norme fisiche. E come ha reso chiaro la critica di una normatività sessuale (gender), quella della percezione razzista, e varie altre, non esiste nessuna forma umana al singolare. Si può pensare di tracciare una linea di demarcazione del corpo umano attraverso l’identificazione dei suoi confini, per mezzo della forma che lo definisce, ma ciò significa mancare il fatto molto importante che il corpo è, in certo modo e perfino inevitabilmente, libero nel suo agire, nella sua ricettività, nella sua parola, desiderio e mobilità. È fuori da se stesso, nel mondo degli altri, in uno spazio e in un tempo che non controlla, e non solo esiste nello spazio vettoriale di queste relazioni, ma in quanto esso stesso vettore3. In questo senso il corpo non appartiene a se stesso. Secondo il mio modo di vedere, il corpo è il luogo in cui ci si imbatte in un ambito di prospettive che potrebbero essere nostre, oppure no. Come mi si viene incontro e come vengo sostenuto, dipende fondamentalmente dalle reti sociali e politiche in cui questo corpo vive, come vengo guardato e trattato e come questo sguardo e questo modo di essere trattato possono rendere la vita più agevole o, al contrario, mancare di renderla vivibile. Sicché le normative di genere (gender) attraverso cui giungo a comprendere me stesso, o, letteralmente, la mia capacità di sopravvivenza, non sono delle normative che mi assegno da solo. Sono già nelle mani degli altri, quando cerco di fare l’inventario di chi sono io. Ne consegue allora che certi tipi di corpi appariranno più precari di altri, a seconda di quali varianti del corpo, in generale morfologiche, sostengono o sottoscrivono quell’idea di vita umana che è meritevole di essere protetta, cui va fornito un riparo, che merita di vivere e, in caso di morte, di venire compianta. Tali griglie normative stabiliscono in anticipo quale vita sarà una vita che merita di essere vissuta, quale vita meriterà di essere protetta, e quale vita, infine, meriterà di essere compianta. Questo tipo di punto di vista che riguarda le vite che meritano di essere vissute, messe al riparo, e compiante, pervade e implicitamente giustifica la guerra attuale. Perciò siamo ora in grado di formulare una domanda critica, chiedendoci in base a quali criteri vengono divise le vite, quali vite rappresentano certi tipi di stati e quali vite rappresentano una minaccia alla democrazia liberale incentrata sullo stato, così che la guerra sia giustamente intrapresa a profitto di alcune vite, mentre la distruzione di altre viene giustificata e difesa. Questa scissione costituisce la sconfessione della dipendenza, e cerca altresì di accantonare e mettere fuori gioco il riconoscimento del fatto che la condizione generalizzata di precarietà implica, da un punto di vista sociale e politico, una condizione generale di dipendenza reciproca diffusa. Nonostante non tutte le forme di precarietà vengano prodotte da accordi sociali e politici, resta uno degli obiettivi della politica quello di minimizzare le condizioni di precarietà su una base egalitaria. La guerra è precisamente uno sforzo di minimizzare la precarietà per alcuni e di massimizzarla per altri. Ho usato la frase “essere delimitato da altri”, ma si tratta di qualcosa che solo ho tentato di affermare. Nel caso di tortura, infatti, si sente un’altra eco di ciò che significa essere “delimitato” da altri, dal momento che quelle forme di coercizione fisica sono precisamente l’imposizione non voluta della forza sui corpi: essere delimitati, imbavagliati, esposti forzatamente, ritualmente umiliati. Ci si potrebbe allora domandare che cosa, caso mai, influisce sulla sopravvivenza di coloro la cui vulnerabilità fisica è stata utilizzata in questo modo. Naturalmente, che il proprio corpo non sia mai completamente proprio, delimitato e auto-referenziale, è la condizione di un incontro appassionato, del desiderio, della passione e della modalità di indirizzare tali emozioni e della possibilità di farlo, da cui dipende la sensazione di essere vivi. Ma dal fatto che il corpo scopre la sua capacità di sopravvivenza in uno spazio e in un tempo sociale, deriva anche un insieme globale di contatti indesiderati; questo elemento di esposizione o spossessione del corpo è precisamente ciò che viene sfruttato nel caso di coercizione non voluta, oppressione, lesione fisica, violenza. Nel tempo che resta, desidererei prendere in considerazione questo problema della capacità di sopravvivere in una situazione di guerra, prendendo in considerazione brevemente la raccolta Poesie da Guantanamo, pubblicata recentemente dalla University Press of Iowa, che comprende ventidue componimenti poetici che sono stati capaci di sopravvivere alla censura del dipartimento della difesa degli Stati Uniti. Di fatto, la maggior parte delle poesie scritte dai detenuti a Guantanamo venivano o distrutte o confiscate, e sicuramente non era permesso passarle agli avvocati e agli addetti dei diritti umani che hanno comunque potuto raccoglierle in questo piccolo volume. Sembra che ci fossero 25.000 versi poetici scritti da Shaikh Abdurraheem Muslim Dost, che sono stati distrutti dal personale militare. Quando il Pentagono ha fornito la propria spiegazione logica circa la distruzione e la censura di queste opere poetiche, ha sostenuto che la poesia “presenta un rischio speciale” nei confronti della sicurezza nazionale a causa della sua “forma e contenuto”. Ci si domanda che cosa ci può mai essere nella forma e nel contenuto della poesia da apparire così sovversivo. Potrebbe essere che la sintassi o la forma di una poesia venga realmente percepita come una minaccia alla sicurezza della nazione? Si tratta forse del fatto che la poesia è una testimonianza della tortura? O ha invece a che fare con il fatto che gli Stati Uniti vengono criticati attivamente, per il proclama spurio di essere dei “protettori della pace” e per l’odio irrazionale nei confronti dell’Islam? Quelle rivendicazioni avrebbero potuto comparire sotto forma di articoli di fondo o di prosa, dunque che cosa c’è nella poesia, in particolare, che sembra così pericoloso?
C’è una poesia intitolata Umiliato in catene di
Sami al
Haj, che è stato torturato nelle prigioni statunitensi a Bagram e a
Kandahar prima di essere trasferito a Guantanamo, da dove è stato
rilasciato di recente. Ecco due strofe della sua poesia: Al Haj testimonia di essere stato torturato e domanda come può formare delle parole, fare della poesia, dopo un’umiliazione del genere. E tuttavia, il verso medesimo in cui egli interroga la sua capacità di fare della poesia è già poesia. Così il verso rappresenta e mostra ciò che al Haj non riesce a comprendere. Egli scrive la poesia ma questa poesia non può fare di più se non interrogare apertamente la condizione della sua stessa possibilità. Come fa un corpo torturato a formare delle parole di questo genere? Egli si sta anche chiedendo come può essere che la poesia possa provenire da un corpo torturato, e come possano le parole affiorare e sopravvivere. Le sue parole si muovono da una situazione di tortura, di coercizione, verso il linguaggio. È dunque uno stesso corpo, quello che patisce la tortura e che scrive le parole sulla pagina? Il formarsi di quelle parole è legato alla sopravvivenza, alla capacità di sopravvivere. Va ricordato che all’inizio della loro detenzione, i prigionieri di Guantanamo avrebbero scritto brevi poesie sulle tazze di styrofoam che avevano preso con sé dal loro vassoio. Alcuni di loro avrebbero usato sassolini o frammenti di roccia per incidere le loro parole sulle tazze, passandosele di cella in cella. Le parole erano incise su tazze di styrofoam, e perciò si trattava di oggetti non solo di poco prezzo, l’emblema stesso dell’oggetto dozzinale, ma anche morbidi, perché i prigionieri non dovessero servirsi di vetro o ceramica che potevano facilmente venire usate come armi. Qualche volta anche il dentifricio era usato come inchiostro per scrivere. Sembra che in seguito siano stati dati loro carta e materiali per scrivere, come segno di un trattamento umano, ma quegli scritti sono stati in gran parte distrutti.
Alcuni degli scritti sono amare cronache politiche. Per esempio, la
poesia di apertura di Shaker Abdurraheem Aamer: È con perspicace ironia che Aamer conclude scrivendo che “combattono per la pace”. Ma ciò che segna questa poesia è la quantità di domande che egli pone in forma poetica, e ad alta voce insieme a quella mescolanza di orrore e ironia nella domanda che è al centro della composizione poetica: “È così semplice uccidere?”. La poesia di Aamer si muove tra confusione, orrore e ironia e si conclude mostrando l’ipocrisia dei militari degli Stati Uniti. La sua poesia rivela la scissione nella razionalità pubblica di coloro che l’hanno catturato: questi torturano in nome della pace, uccidono in nome della pace. Naturalmente non sappiamo quali siano stati “la forma e il contenuto” delle poesie che sono state censurate, ma questo sembra avvitarsi intorno ad una domanda ripetuta e aperta, un orrore insistente, una spinta a smascherare. Effettivamente questi testi fanno uso di generi poetici che sono parte delle scritture coraniche tanto quanto caratteristiche formali della poesia nazionalista araba, il che significa che sono delle citazioni, perciò quando un poeta parla, evoca in quel momento alle sue spalle una intera storia di poeti che hanno preso la parola, rendendoli perfino, metaforicamente, suoi compagni. L’irragionevole
scissione che struttura il campo militare della percezione è tale
che non può essere spiegato il suo stesso orrore di fronte alle
lesioni e alla perdita della vita da parte di quelle popolazioni che
rappresentano lo stato-nazione legittimo, ed il suo giustificato
piacere nel vedere l’umiliazione e la distruzione di quelle
popolazioni che non sono organizzate sotto l’egida di uno
stato-nazione. Le vite di coloro che sono a Guantanamo non contano
neppure come le “vite umane” protette dal discorso dei diritti
umani. Le poesie sono in se stesse una modalità differente di
reazione morale, un tipo di interpretazione, che può, date certe
condizioni, contestare e far esplodere quella scissione dominante che
serpeggia nell’ideologia nazionale e militare. Le poesie
costituiscono e trasmettono la capacità morale di reagire nei
confronti della logica militare che ha ridotto alla violenza con
modalità incoerenti e ingiuste la stessa capacità morale di
reagire. Perciò si può domandare: quale emozione viene trasmessa
verbalmente da queste composizioni poetiche, e quale insieme di
interpretazioni passa attraverso esse in termini di emozione, inclusa
la nostalgia e la rabbia? Il potere soverchiante del cordoglio, della
perdita, dell’isolamento diventa uno strumento poetico di rivolta e
perfino una sfida alla sovranità individuale. Ustad Badruzzaman Badr
scrive:
Nessuno può sopportare, e tuttavia queste parole giungono come segni
di una sopportazione incommensurabile. In una poesia intitolata:
Scrivo i miei desideri segreti, di Abdulla
Majid Al Noaimi,
ogni strofa è strutturata dal ritmo del dolore e della supplica: Ma
forse è più singolare il verso che si trova verso la metà della
composizione poetica, dove egli scrive: Di chi è la nostalgia che commuove chi parla? Sono le lacrime di nostalgia di qualcun altro, e così sembra che le lacrime non siano sue, o per lo meno, non soltanto sue. Le lacrime appartengono a tutti nel campo, forse, o a qualcun altro, ma colpiscono lui; egli scopre quegli altri sentimenti dentro di sé, suggerendo che perfino in un radicale isolamento come questo, egli prova ciò che provano gli altri. Non conosco la sintassi della composizione poetica originale in arabo, ma in inglese: “Il mio petto non riesce a sopportare la grandezza dell’emozione”, suggerisce che l’emozione non è la sua emozione soltanto, ma una portata o una potenza emozionale che non può trarre origine da nessuno. Il verso: “Le lacrime di nostalgia di qualcun altro”, indica che è come se lui fosse spossessato da queste lacrime che certo gli appartengono, ma che non sono soltanto sue. Che cosa ci dicono, dunque, queste composizioni poetiche sulla vulnerabilità e la capacità di sopravvivenza? Sono un’interrogazione riguardo ai tipi di espressione possibili, al limite del dolore, dell’umiliazione, della nostalgia, e della rabbia. Le parole sono incise sulle tazze, scritte sulla carta, schiacciate su una superficie, sono lo sforzo di lasciare un segno, una traccia di un essere vivente, perfino, direi, il segno tracciato da un corpo, un segno che assuma su di sé la vita del corpo. E perfino quando ciò che accade a un corpo che non sopravvive pienamente per arrivare a dire tanto, le parole, invece, sopravvivono. Questa è anche poesia intesa come prova e come preghiera, dove ogni parola è alla fine destinata a un altro. Le tazze vengono fatte passare di cella in cella; le poesie vengono fatte uscire dal campo di nascosto. Esse sono delle invocazioni. Sono dei tentativi di ristabilire la socialità del mondo, perfino quando non c’è alcuna ragione concreta di pensare che sia possibile una cosa del genere. Nella postfazione a questa raccolta, Ariel Dorfman paragona gli scritti dei poeti di Guantanamo agli scrittori cileni sotto il regime di Pinochet. Sebbene egli sia chiaramente consapevole delle modalità con cui la poesia trasmette le condizioni del campo, egli richiama l’attenzione su qualcosa d’altro riguardo le composizioni poetiche. Scrive Dorfman: “Ciò che avverto è che la fonte originaria di queste poesie di Guantanamo è la semplice, quasi primordiale, ritmica del respiro, in entrata e in uscita. L’origine della vita e l’origine del linguaggio con l’origine della poesia sono tutte là, in quel primo respiro, dove ogni respiro è come se fosse il nostro primo respiro, l’anima, lo spirito, ciò che inspiriamo, ciò che espiriamo, ciò che ci separa dall’estinzione, un minuto dopo l’altro, ciò che ci tiene in vita mentre inaliamo ed esaliamo l’universo. E la parola scritta non è nulla di più se non il tentativo di rendere quel respiro permanente e sicuro, sia essa incisa su una pietra o scritta sulla carta o inscritta su uno schermo, così che il suo ritmo possa durare al di là di noi, sopravviva al nostro respiro, rompa le catene della solitudine, trascenda il nostro corpo impermanente e tocchi qualcuno con le sue acque.”4
Il corpo respira, immette il suo respiro nelle parole e trova lì una qualche provvisoria sopravvivenza. Ma una volta che il respiro si è trasformato in parola, allora il corpo si consegna a un altro, in forma di appello. Nella tortura viene utilizzata la vulnerabilità del corpo per assoggettarlo: il fatto dell’interdipendenza è abusato. Il corpo che esiste nella sua esposizione e nella sua vicinanza ad altri, alla forza esterna, a tutto ciò che potrebbe assoggettarlo e controllarlo, è vulnerabile al danno; il danno rappresenta l’utilizzazione di quella vulnerabilità. Ma ciò non significa che la vulnerabilità possa essere ridotta alla dimensione dell’essere oltraggiato. In queste composizioni poetiche, il corpo è anche qualcosa che continua a vivere, respira, cerca di incidere nella pietra il proprio respiro; il suo respiro è precario, può venire fermato dalla forza della tortura di un altro. Ma se questo stato di precarietà può diventare da un lato una condizione di sofferenza, può anche diventare dall’altro la condizione di una capacità di risposta, della formulazione di un’emozione, còlta come atto radicale di interpretazione di fronte ad un asservimento non voluto. Nelle poesie ascoltiamo la capacità di fare breccia nelle ideologie dominanti, che razionalizzano la guerra facendo ricorso a giustificate invocazioni di pace; la poesia cerca di mescolare ed esibire le parole di coloro che torturano in nome della libertà e uccidono in nome della pace. In queste poesie noi ascoltiamo “il ritmo precario della solitudine”. Questo ci dice, intanto, due verità distinte sul corpo: che in quanto corpi siamo esposti agli altri, e questa può essere la condizione del nostro desiderio, ma introduce anche la possibilità di una sottomissione alla crudeltà e al dominio altrui; ne consegue che i corpi dipendono da altri, attraverso i bisogni materiali, attraverso il tatto, il linguaggio, tutto un insieme di relazioni senza le quali non si può sopravvivere. Ma avere a che fare con la sopravvivenza di una persona che dipende dagli altri in un modo del genere significa un rischio costante di socialità, la sua promessa e la sua minaccia. Lo stesso fatto della dipendenza da altri introduce la possibilità di venire asserviti e sfruttati, sebbene non determini per niente la forma politica che assumerà tale asservimento. Il fatto stesso della dipendenza da altri istituisce la possibilità di venire alleviati dalle sofferenze, di sperimentare la giustizia e perfino l’amore. Le poesie sono colme di nostalgia; fanno sentire il corpo incarcerato come se lanciasse un appello; il suo respiro è impedito, ma continua a respirare. L’appello della poesia è un appello a vivere, una richiesta e uno strumento di sopravvivenza, ma anche un appello in favore di un altro senso di solidarietà, di vite intrecciate tra loro che vanno avanti con delle parole comuni, che soffrono con lacrime comuni, e formano intrecci che pongono un rischio sovversivo non solo alla sicurezza nazionale, ma alle forme di sovranità globale difese dagli Stati Uniti. Forse queste reti di emozioni transitive prodotte dalle composizioni poetiche costituiscono “la forma e il contenuto” della loro sfida alla sicurezza nazionale e alle sue presunte pretese di sovranità. Dire che le composizioni poetiche resistono a quella sovranità non significa dire che cambieranno il corso della guerra o che, alla fine, dimostreranno di essere più potenti del potere militare dello stato. Tuttavia, queste poesie scaturiscono da scene di straordinaria vulnerabilità all’asservimento, e quasi ogni poeta fa notare con stupore che le parole poetiche emergono da una condizione del genere. Ma eccole qui, prove di vita ostinata, vulnerabile, oppressa, poesie che appartenengono a qualcuno e a nessuno, spossessate, infuriate e acute. Sono anche, dato interessante, forme di emozione che hanno chiaramente delle conseguenze politiche. Le emozioni vengono comunicate, sono comunicabili e formano un tipo di rete di emozioni transitive che produce un’alleanza caricata di sfumature politiche e emozionali nel centro di isolamento fisico.
Questi scritti chiaramente collegano l’horror e la rabbia di fronte
ad una ingiusta forza distruttiva militare. In questo senso sono
degli atti appassionati di interpretazione trasmessi come linguaggio,
mentre svelano come l’esercito degli Stati Uniti fa passare
uccisioni sfrenate e tortura come una difesa giustificata della pace
e della libertà. In questo senso le poesie sono atti critici di
resistenza, interpretazioni in contro-rivolta, atti sovversivi che in
qualche modo, incredibilmente, vivono attraverso la violenza a cui si
oppongono, anche se la domanda circa la loro sopravvivenza finale
rimane ancora senza risposta. Roma,
maggio 2008 (traduzione di Daniela Turco)
Note
con
rimando automatico al testo
1 NdT: si è scelto di rendere
l’espressione suicide
bombing
con termini quali ‘terrorismo suicida’, o ‘attentato suicida’, pur
sottolineando che tale traduzione in italiano non rende completamente
l’espressione inglese.
|