numero 7
KAINOS
Ricerche
2007

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fame / sazietà



RICERCHE
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Ermeneutica della degustazione

Un viaggio tra memoria e creazione in compagnia della psicoanalisi


di Giuseppe Martini

La psicoanalisi e le trasformazioni dell’interpretazione

Comunemente, anche a seguito di consuetudini storicamente ben consolidate, il testo scritto è considerato il referente per eccellenza della pratica ermeneutica e della posizione interpretante che da essa discende. Tuttavia, la specificazione “ermeneutica testuale” già indica la possibilità di campi difformi di applicazione. L’interpretazione psicoanalitica ha del resto mostrato la possibilità che l’atteggiamento ermeneutico venga adottato anche nei confronti di un “testo vivente” o, per meglio dire, di una particolare forma di relazione interpersonale, quale è la relazione analitica. Da questo punto di vista, la fenomenologia ha assunto una posizione ancora più radicale correlando in modo ineludibile l’interpretazione al nostro essere al mondo, e dunque ad ogni relazione interpersonale: io non posso volgermi all’altro e entrare in contatto con lui se non interpretando la sua intenzionalità e disponendomi ad essere a mia volta oggetto della sua interpretazione. Ciò che peraltro la psicoanalisi ha mostrato con particolare pregnanza – al di là della questione altrove affrontata (Martini 1998 & 2005) di quanto essa possa considerarsi un’ermeneutica – è relativo alla dimensione affettiva, che coinvolge l’interpretazione in un duplice senso. In primo luogo, in quanto l’interpretazione si dà comunque sempre entro un contesto che, oltre che storico, è affettivo e relazionale: da questo punto di vista è facile riconoscere che anche l’interpretazione letteraria o testuale non è esente da un coinvolgimento di natura emotiva (“transferale” per adottare un termine estrapolato dalla psicoanalisi) che la condiziona in modo profondo. In secondo luogo, in quanto l’interpretazione pur rivolgendosi spesso (non sempre!) al discorso del paziente, mira altrove: agli affetti, alla corporeità, alla sensorialità, tant’è che la psicoanalisi stessa non sarebbe possibile se non si ammettesse una parentela profonda tra il linguaggio e gli affetti (Ricoeur, 1988). Le cose, tuttavia, sono assai più complesse da quanto potrebbe derivarsi da una prospettiva “classica”. Questa stessa suggeriva – e continua a suggerirci – che l’interpretazione psicoanalitica “smaschera” il linguaggio della coscienza e “rivela” il desiderio inconscio, consentendo all’analizzando un nuovo tipo di rapporto col proprio mondo pulsionale ed un allargamento della sfera di influenza dell’Io, che va a insediarsi “ove era Es”. Questa versione trascura però l’evenienza, che si dà certamente nelle patologie gravi ma anche nello sviluppo normale, che l’inconscio sia costituito non solo da desideri e rappresentazioni rimosse, ma anche da aree di “impensabilità”, da zone in cui la sensazione non si è fatta ancora pensiero (e non necessariamente per effetti di un vissuto traumatico, sebbene questo possa esserne alla base). È quanto diversi autori chiamano, anche sulla scia di certe confluenze con le neuroscienze, “inconscio non rimosso”, ed a cui ci siamo più volte riferiti adottando il termine di “inconscio irrappresentabile” (Martini, 2005). Possiamo allora concluderne che l’interpretazione psicoanalitica non solo è fortemente condizionata dal mondo degli affetti, ma che ad essi si rivolge in senso duplice: sia quando questi affetti hanno assunto la forma di rappresentazioni psichiche (sia pur rimosse e mascherate) e possono dunque giungere ad espressione attraverso il linguaggio (le “rappresentazioni di parola”: Freud, 1915), sia quando tali affetti sono ancora così indefiniti, così intrisi di una dimensione magmatico corporea che non hanno ancora raggiunto lo statuto né del pensiero verbale e neppure della rappresentazione visiva (che tende a precederlo). Possono essere esempi di una tale attività mentale, che ancora non si è costituita come rappresentazione, quelle sensazioni “indicibili” e indescrivibili che proviamo talora al momento dell’addormentamento (e che invece, man mano che il sonno si approfondisce, assumono un ordito narrativo), oppure quel senso di contemplazione estatica che nasce all’ascolto di una poesia o di una musica e di cui cogliamo appunto la “intraducibilità”, o infine, purtroppo, quei traumi drammatici, individuali o collettivi, che, proprio a ragione della loro gravità, lasciano un “buco” nella memoria ma condizionano non di meno dolorosamente la vita futura riapparendo sotto forma di angosce “senza nome”, improvvise e incontenibili.

Si potrebbe per inciso segnalare la similitudine tra due percorsi: quello che ha condotto la psicoanalisi contemporanea dalla centralità delle rappresentazioni rimosse alla centralità dell’irrappresentabile, e quello che possiamo intravedere nell’opera di Ricoeur, da un’ermeneutica del simbolo a quella del testo e di qui ad una ermeneutica della traduzione e, soprattutto, dell’intraducibile (2001). A ragione di ciò si può sostenere che in ambito psicoanalitico l’ermeneutica, ben lungi dal risolversi in una narrazione compiuta e coerente, si colloca proprio al punto di giunzione tra il rappresentabile e l’irrappresentabile.


Sensorialità e interpretazione

Le ragioni di questa lunga premessa risiedono nella possibilità che essa contribuisca a chiarire l’interrogativo con cui ora ci misureremo e che può essere espresso nei termini: cosa hanno in comune degustazione e psicoanalisi? Si tratta di un quesito che può riguardare anche i soggetti che hanno a che fare con tali ambiti: il gourmet e lo psicoanalista innanzi tutto, ma anche il cuoco, l’enologo, il vignaiolo.

Proviamo allora a dare una prima risposta complessiva individuando tre zone di affinità alla cui esplorazione ci dedicheremo: a) sia la psicoanalisi che la degustazione hanno a che fare eminentemente con l’area della sensorialità; b) ambedue sollecitano una particolare forma di interpretazione-traduzione che può essere definita “intersemiotica”; c) ambedue si pongono tra memoria e creazione.

La prima area di affinità, di cui in parte già abbiamo discusso, è evidentemente propedeutica alle altre due. Occorrerà ancora ricordare quanto, nella psicoanalisi contemporanea, coerentemente col maggiore rilievo dato alla relazione, abbia assunto importanza l’interpretazione (e l’ascolto partecipe) di tutto quanto può essere incluso nella sfera dell’extraverbale: rumori, silenzi, odori, mimica e posizioni del corpo, etc. (extraverbale ma non extralinguistico, in quanto “non si è mai, con l’uomo, al di fuori del linguaggio”: Ricoeur, 2007). Inoltre, occorre prendere atto, per dirla nei termini di un autore che si muove tra cognitivismo e psicoanalisi che, accanto al codice simbolico, noi utilizziamo costantemente un codice subsimbolico, più idoneo a “guidarci” nel corso di attività che hanno molto a che fare col dato sensoriale e poco con quello rappresentazionale. La Bucci (1997 & 2001) parla del subsimbolico come di una dimensione imprescindibile dello psichico, in alcun modo da considerare inferiore rispetto al pensiero rappresentazionale. Semplicemente, si tratta di desideri ed emozioni cui il soggetto non può dare un nome in quanto manca loro la caratteristica della discrezione (nel senso che non sono unità discrete, come quelle cui si rivolge il codice simbolico, sia esso verbale o non verbale). L’autrice fa gli esempi più svariati: un jazzista che improvvisa un pezzo, oppure un gatto che cade dall’alto sempre su quattro zampe, o infine – di nostro più diretto interesse – la degustazione di un vino. E’ evidente che nel momento in cui degustiamo un piatto o un vino noi mettiamo in azione un codice di decifrazione decisamente subsimbolico che, data la natura gustativo olfattiva dell’esperienza in corso, non può assolutamente trovare sostegno nel linguaggio, che di primo acchito sembrerebbe essere escluso dall’esperienza stessa. Tuttavia al linguaggio, come vedremo, siamo costretti a tornare, specie se ci poniamo nei confronti del cibo nella posizione di un degustatore che deve descrivere e comunicare le proprie impressioni. In ogni caso, scandendo tale processo in un modo ipoteticamente lineare, il livello sensoriale più immediato (olfattivo-gustativo), prima ancora che con il linguaggio è destinato ad incontrarsi con l’area – al confine tra il simbolico e il subsimbolico – delle emozioni e degli affetti. La degustazione o la creazione di un piatto possono essere infatti accompagnate e condizionate, sia nel momento creativo che in quello valutativo, dai ricordi che esse stesse facilmente possono attivare. Ecco allora il cuoco pronto a creare un piatto in modo decisamente originale ma partendo dalle ricette della sua terra o da quegli ingredienti che nella propria famiglia si era soliti usare; ed ecco il degustatore che sente nel piatto i profumi della propria infanzia, e con questi li confronta. Il dato sensoriale olfattivo gustativo può cioè essere evocativo di un universo affettivo, che va ben oltre l’aspetto meramente gastronomico. Ora ci interessa però considerare come, attraverso questa eventuale mediazione del campo affettivo, l’esperienza sensoriale venga a tradursi in esperienza linguistica, la quale a sua volta può risolversi in un affrettato e distratto giudizio di valore, magari dettato dalla cortesia (“molto buono!”), oppure assumere le forme della critica gastronomica, della scheda di degustazione, di un articolo giornalistico di natura tecnica, o infine, con altre, ulteriori mediazioni, del saggio di sociologia, storia, o filosofia della cucina. Comunque la si metta, siamo passati dal livello della sensorialità al livello linguistico…dovendo ancora una volta riconoscere la legittimità del così discusso aforisma gadameriano: “L’essere, che può essere compreso, è il linguaggio” (1972). Siamo anche passati dal barthesiano “piacere del testo” (…il cibo o un vino) al piacere dell’interpretazione. In ogni caso, pur in assenza di un testo letterario di partenza, come non definire questa nostra operazione “ermeneutica” a tutti gli effetti? A riprova di ciò occorrerà forse segnalare come certi capisaldi del “vocabolario” ermeneutico possano applicarsi anche nel nostro contesto. Ritroviamo, infatti, in ambito gastronomico ed enologico la profonda pregnanza di espressioni quali storicità dell’interpretazione: i testi di sociologia della cucina bene evidenziano la strettissima interconnessione tra lo “stile” del cuoco e i condizionamenti del contesto storico, sociale, geo-politico. Pari rilevanza può assumere l’idea di circolo ermeneutico: la valutazione – come anche la creazione – di un piatto o di un vino si compiono sempre nel circolo che si istituisce tra il particolare e l’universale, e viceversa: per “comprendere” un piatto noi dobbiamo analizzare le modalità con cui i singoli ingredienti sono stati trattati e di qui procedere ad un esame degli abbinamenti che per essi sono stati scelti; il piatto a sua volta andrà valutato nel contesto di un menù, e la complessiva degustazione del menù potrà essere bene intesa solo se collocata all’interno del percorso culturale e formativo del suo cuoco o della scuola che rappresenta. Infine non manca di possibilità applicative anche l’idea del processo ermeneutico come dialogo tra “testo” e lettore, proprio per quella evocazione di un personale mondo emozionale con la conseguente possibilità che questa entri o meno in risonanza con quanto stiamo degustando.

Ma è un altro concetto cardine della tradizione ermeneutica, quello di traduzione, a cui vorremmo soprattutto fare riferimento.



La traduzione intersemiotica e la fragilità delle metafore


La presa d’atto di quanto gli elementi sensoriali olfattivi e gustativi, al pari di quelli tattili, siano meno propensi, rispetto alla vista e all’udito, a dar luogo a rappresentazioni e ad un pensiero rappresentazionale, induce a definire una particolarità che accomuna il degustatore e lo psicoanalista (soprattutto lo psicoanalista quando ha a che fare col materiale extraverbale e spesso irrappresentabile del suo paziente). Richiamandoci a Jakobson (1959), possiamo cogliere questa particolarità nel fatto che il degustatore che mette in parole una sua impressione sul cibo o sul vino esercita un processo traduttivo iscrivibile all’interno del paradigma della traduzione intersemiotica: dal codice olfattivo-gustativo al codice linguistico. Per lo psicoanalista – ricordiamolo- si tratta piuttosto di un passaggio dal codice degli affetti al codice linguistico: tuttavia non è affatto escluso che gli affetti includano in sé anche una dimensione sensoriale gustativo olfattiva che in un qualche modo di essi stessi può essere generativa (lo vedremo in seguito). Del resto, si è già segnalata la possibilità di un cammino inverso: che cioè la preparazione di un piatto, la scelta di certi equilibri aromatici possano essere influenzate, in modo consapevole o meno, dalla propria dimensione affettiva (ricordi, persone del proprio passato, debiti di gratitudine o anche invidia e aggressività verso i propri maestri, etc.).

Dunque il degustatore è chiamato ad uno sforzo interpretativo che non si dovrebbe sottovalutare (e che lui in prima persona non dovrebbe ignorare!): dopo aver degustato un piatto facendo appello al suo codice “subsimbolico” è “costretto” a tradurre le sue sensazioni nel codice simbolico per eccellenza, quello verbale, il quale è caratterizzato da due opposti attributi: da un lato è più sofisticato, dall’altro implica una perdita davvero notevole rispetto all’originale!

Del resto la traduzione intersemiotica, anche nel passaggio tra aree più affini tra loro (ad esempio da un codice simbolico visivo ad un codice simbolico verbale), comporta intuitivamente delle trasformazioni maggiori (e più problematiche!) rispetto alla traduzione interlinguistica. Questa la ragione per cui alcuni autori, ad es. Eco (2003), non sono troppo favorevoli a mantenere l’uso indifferenziato del termine “traduzione” preferendo quello di “versione” (del resto di maggiore uso corrente: versione cinematografica di un’opera letteraria). Al contrario, in ambito ermeneutico, la tendenza più frequente sembrerebbe quella di mantenere il termine “traduzione” per sancire l’affinità di fondo tra le tre forme (intralinguistica, interlinguistica e intersemiotica) e la condivisione di una vocazione al dialogo. Mantenere il medesimo termine rimarca anche l’universalità del tradurre e la ineludibile presenza di un fondo “intraducibile” che fa della traduzione stessa una operazione aporetica: teoricamente impossibile, costantemente praticata nei fatti (Ricoeur, 2001). Naturalmente, attenersi a questa linea non significa ignorare la profondità delle trasformazioni, le difficoltà e soprattutto le dissonanze della traduzione intersemiotica.

Tornando al nostro specifico argomento, dove rinveniamo soprattutto queste dissonanze? Per affrontare siffatta questione ci riferiremo soprattutto al linguaggio della critica enologica, presupponendone una qualche conoscenza nel lettore. La “descrizione” di un vino è infatti operazione teoreticamente assai ardua, i cui risultati possono suscitare un certo stupore nel profano o possono facilmente “piegarsi” ad esigenze d’ordine commerciale (lo stesso vocabolario, gli stessi aggettivi possono essere utilizzati per descrivere un vino molto buono ed uno mediocre…con difficili possibilità di confutazione). Non ci si riferisce qui alla descrizione degli aspetti quantitativi (la concentrazione, la persistenza aromatica) che, per quanto espressi con un metro di misura necessariamente impreciso, può trovare un immediato riscontro nel parere di un secondo degustatore magari attraverso il confronto con un altro vino (è relativamente agevole accordarsi, ad es., su quale sia il più concentrato). Ci si riferisce piuttosto ai ben più importanti aspetti qualitativi che vengono abitualmente descritti attraverso l’uso di metafore, effettivamente abbastanza “originali” se non quando bizzarre, sebbene di solito le analogie proposte siano tutt’altro che ingiustificate: andiamo dai sentori di frutti rossi e frutti neri (che con la materia di partenza, l’uva, hanno ancora qualche affinità) sino ai sentori di minerale, di cuoio, goudron (petrolio), urina di topo, o ancora tartufo, carne lessa, marmellata, vernice, etc. Molti possono essere assunti in una accezione negativa o positiva in relazione al loro peso quantitativo, alla combinazione con gli altri profumi e sapori (è indubbio che la complessità e l’armonia di un vino pesino di più del singolo aroma che può evocare), alla continuità naso olfattiva, etc. sino a giungere beninteso anche alle preferenze geografiche, di “scuola” o del singolo degustatore. E’ ad es. noto quanto l’apporto del legno nuovo delle barriques sia apprezzato oltreoceano e dalle scuole “moderniste”, molto meno da chi è sensibile alla tradizione ed alla tipicità, fermo restando che anche qui è assolutamente indispensabile un discorso di qualità dei legni e di loro integrazione col vino, e non solo meramente quantitativo.

L’ermeneutica può forse aiutarci a cogliere meglio il nucleo di tale questione – di certo fondamentale per il degustatore – relativa all’utilizzo di descrittori metaforici che, adottando la felice terminologia di Ricoeur (1986), definiremo logori. La metafora logora non è impropria o scorretta; piuttosto ha perso, attraverso un uso routinario, il suo potere evocativo: probabilmente suggestiva all’inizio, quando venne usata episodicamente e poeticamente, è stata consunta dall’uso ripetuto. Come si dice, giusto a proposito dei vini, è oramai “sfibrata”. Questo codice linguistico è dunque nel complesso a basso potere di significazione. Naturalmente ciò non toglie nulla al difforme livello di competenza e onestà professionale dei diversi degustatori, per cui esiste una ben percepibile differenza tra la scheda di degustazione fatta a scopo autopromozionale magari dallo stesso enologo che il vino ha prodotto, quella che pur comparendo in autorevoli riviste è tuttavia pesantemente soggetta a condizionamenti di natura economica, o ancora quella che sembra (…?) fatta al computer riassemblando in modo diverso gli stessi termini, per arrivare infine, per nostra fortuna, alla critica competente e accurata che si sforza di trasmettere con precisione il profilo di un vino. Ma cosa ne può venire al lettore? Quello che si vorrebbe suggerire è che, anche nei casi di critici competenti ed onesti, dobbiamo ammettere una congenita limitatezza del linguaggio nel trasmettere la complessa impressione sensoriale fornitaci da un vino. Non si riesce ad immaginare un vino, leggendone la recensione, altrettanto bene di quanto si possa fare con un film, un libro, o anche con un piatto di un ristorante. Intendiamoci: anche in tutti questi casi si avrà solamente un’immagine orientativa del profilmico, del pronarrativo (la trama, la sceneggiatura, etc.) accompagnata a qualche cenno sulla tecnica (di scrittura, di regia, etc.). non si potrà immaginare il film o il romanzo in quanto tali, ma si potra ricavare dalla critica aspettative e indicazioni che consentiranno una migliore fruizione dell’opera, avvenuta la quale si potrà con una certa puntualità e precisione assentire o dissentire da quella sua interpretazione. Tutto questo, nel caso di un vino, è molto più difficile proprio per l’improbo sforzo della trasformazione-traduzione di un codice sensoriale in codice verbale. Forse risulta decisamente più facile convenire su aspetti specifici, che si cerca di trattare come elementi discreti (un certo profumo: ritrovare in bocca o nel bicchiere quel famoso goudron dei vini bene evoluti o la pungente ma gradevole presenza dell’urina di topo nel sauvignon), rispetto a una interpretazione complessiva del vino. Nel caso di un piatto, proprio perché la descrizione è più “oggettiva” e meno metaforica (si tratta di dire pane al pane… e dunque di elencare i vari ingredienti del piatto, eventualmente le modalità di cottura, etc.), si può avere un’impressione più accurata del “pre-gastronomico”, ma l’interpretazione del piatto e la possibilità di condividerla restano sfuggenti: molto legate al gusto personale, certo, ma anche alla difficoltà dell’intesa linguistica…



Oggettività della degustazione?


Ciò può condurre a una ulteriore notazione riguardante la “oggettività” dell’interpretazione. In ambito letterario, ma anche in psicoanalisi e addirittura in ambito storiografico, un certo relativismo “post modernista” vorrebbe indurre a fornire paritetico valore a tutte le interpretazioni, svincolarle da qualsiasi riferimento al testo, o alla realtà storica, o alla realtà psichica e coglierne unicamente l’aspetto co-costruito (testo-lettore, analista-paziente, etc.). A fronte di tale posizione, alcune correnti insigni della filosofia ermeneutica hanno piuttosto valorizzato il paradigma del realismo critico (Ricoeur, 2000), o evidenziato la biunivocità del rapporto verità-interpretazione: non vi è verità che nell’interpretazione, ma anche: non vi è interpretazione che della verità (Pareyson, 1971). Queste posizioni, che implicitamente ribadiscono la necessità di porre dei limiti all’interpretazione (come recita il titolo di un testo oramai ventennale di Umberto Eco, 1990), sono utili soprattutto per assumere consapevolezza del fatto che ammettere la possibilità di una molteplicità di interpretazioni legittime, coerenti e pertinenti di uno stesso fatto non contraddice l’evidenza che tale molteplicità sia circondata da una selva di interpretazioni incoerenti e poco plausibili dello stesso fatto.

Se qui ricordiamo tali problematiche della filosofia ermeneutica (che trovano ampio riscontro nel terreno della psicoanalisi) non è tanto per spezzare una lancia a favore del contenuto veritativo dell’interpretazione, ma per condurre l’attenzione sul fatto, di per sé ovvio, che anche l’interpretazione di un piatto da parte del cuoco, o di un vitigno, o di un accostamento cibo-vino, presenta una serie tendenzialmente infinita di possibilità di espressione ad alto livello, che però non contraddice una serie anch’essa tendenzialmente infinita (e, nella pratica, numericamente di gran lunga superiore alla prima) di espressioni decisamente mediocri. La cucina, cioè, non è fatta di numeri e regole (se non quelle che ne istruiscono la “grammatica” e la “sintattica” di base) e come tale è decisamente sbilanciata sul versante della creatività rispetto a quello della tecnica… o per lo meno, da questo punto di vista, quanto si richiede a un bravo cuoco non è dissimile da quanto ci si aspetta da un buono scrittore: certamente una conoscenza accurata della lingua in cui scrive, ma solamente per porla al servizio di una capacità immaginativa e descrittiva che poco ha a che fare col tecnicismo. Non esistono dunque cotture obbligate (una certa temperatura, un certo tempo, un certo tipo di forno), né esistono ingredienti che si sposano meglio tra loro, né “stati” preferenziali (solidi, liquidi, creme, etc.): tuttavia ogni passaggio, dal singolo “fotogramma” al “montaggio”, richiede accortezze tecniche in assenza delle quali il risultato fallisce. Nel momento in cui il degustatore è chiamato a sua volta a fare una interpretazione della interpretazione che il cuoco gli ha proposto, terrà beninteso conto di tutti questi fattori, sia che produca un affrettato giudizio di valore (buono\non buono) sia che si dilunghi in una descrizione minuziosa del piatto, della sua composizione, dei suoi pregi e degli eventuali punti critici. Al pari di quella letteraria, l’interpretazione non può dunque essere arbitraria e, se il gourmet è competente, non può ignorare o tanto meno equivocare in merito alla correttezza tecnica, alla creatività ed alla complessità olfattivo gustativa del piatto o del vino. Ciò non significa però che in quest’ambito non vi siano –di nuovo al pari che nell’interpretazione letteraria- ampi margini per la soggettività del degustatore. Da questo punto di vista occorre forse essere consapevoli che più l’oggetto dell’interpretazione ha a che fare col dato sensoriale, più questa soggettività è “immediata” e “inderivabile”, rispetto a scuole di appartenenza, teorie, condizionamenti storici e geografici, etc. Ma tuttavia questi continuano a fare la loro parte: tanto l’interpretazione di chi crea il piatto che quella di chi lo degusta si inseriscono infatti all’interno di quel “circolo ermeneutico” tra il “tutto” e la “parte” che ha come suoi determinanti le tendenze del momento, la storia professionale e personale del cuoco, il contesto socio culturale, etc. In effetti, seguire le interpretazioni che un piatto o un certo tipo di ingrediente o un certo vitigno possono aver ricevuto nel corso di pochi decenni o di qualche secolo (e le evoluzioni del gusto che li hanno condizionati o che essi stessi hanno saputo determinare) rappresenta un’operazione intellettuale alquanto stimolante, oltre che capace di fornire un suo personale contributo ad una più generale storia della cultura.



La cucina tra memoria e creazione


Attraverso le precedenti notazioni critiche, relative all’“impossibile” mestiere del traduttore (degustatore o psicoanalista che sia), che è chiamato a muoversi dal dato sensoriale-emotivo a quello linguistico, giungiamo tuttavia ad una terza e più “serena” area di confluenza. La possiamo cogliere nel porsi, proprio sia della psicoanalisi che della cucina, tra memoria e creazione.

Che la psicoanalisi proceda attraverso la memoria e il recupero del ricordo verso la creazione di un nuovo equilibrio psichico, di una nuova “intesa” tra le diverse istanze della psiche, è constatazione abbastanza scontata ed in linea con i dettami della teoria “classica”. Qui si vorrebbe però attirare l’attenzione su un modo nuovo e più complesso di intendere la memoria, da cui oggi non è più possibile prescindere e che giunge a conferma, da un altro versante, di quanto già sopra proposto.

Nell’ambito delle neuroscienze è oramai corrente la distinzione tra memoria semantica o esplicita e memoria procedurale o implicita. Per definirle brevemente e didatticamente ricorreremo alla sintesi proposta da Semenza, Costantini e Mariani (2000) i quali segnalano come la memoria semantica sia correlata con l’inconscio rimosso ed i significati, laddove quella implicita è vincolata ad “aree psichiche ancorate al sentire” (e dunque irrappresentabili, nella terminologia sopra introdotta). La memoria implicita (o procedurale) riguarda compiti motori, cognitivi, percettivi, il formarsi delle abitudini, gli aspetti del carattere, ma anche modalità relazionali patologiche. Infatti, talora, i pazienti incorsi in gravi esperienze traumatiche non trattengono il ricordo esplicito dell’evento, ma memorizzano stati fisici ed emozionali ad essi associati, una sorta di manifestazioni somatiche senza ricordo conscio. Insomma, al ricordo manca ogni possibilità di contatto con un significato (ibidem). Con un efficace paradosso lo psicoanalista e neurofisiologo Mauro Mancia (2003) definisce a sua volta la memoria implicita come “una archiviazione che non permette il recupero”.

In questa sede non siamo interessati tanto al versante “patologico” della memoria implicita ed al suo legame con le realtà traumatiche, quanto al versante fisiologico e universale. La memoria implicita infatti, come ricorda ancora Mancia, si struttura forse sin dalla vita intrauterina e rappresenta l’unica possibile sino ai due anni di età, quando iniziano a formarsi i primi ricordi coscienti. Non di meno, essa è attiva durante tutta l’esistenza e viene a costituire un fondamento essenziale della nostra vita emozionale. È dunque una memoria fatta di sensazioni, non di ricordi (né coscienti né inconsci), attivata da specifici circuiti sottocorticali.

Si tratta – e per questo ne abbiamo parlato in tale sede – di una memoria primordiale, strettamente vincolata al dato sensoriale (ecco entrare in gioco l’aspetto olfattivo e gustativo!). Questa memoria, seppure distinta da quella semantica e dal ricordo propriamente detto, può tuttavia favorire la loro emersione.

Ne abbiamo una bella definizione nel passo che segue:


Una fitta nebbia senza echi nasconde tutto, ogni tanto uno squarcio di sole. Da quelli strappi tutto il poco che sopravvive; ma questo poco è mio, solo mio ed è mia anche l’assenza del tempo (…). Certezza mia è solo il frantume tra un banco di nebbia e l’altro, captato dalla mia sensibilità, non dalla mia memoria che non esiste. (1997, pp. 21-22)


La memoria è dunque uno squarcio, uno strappo, un frantume tra banchi di nebbia captato dalla sensibilità… o forse ancor meno: è qualcosa che non esiste!

Così Dolores Prato, scrittrice marchigiana, autrice (ad 80 anni!) di uno struggente libro di memorie, Giù la piazza non c’è nessuno (1997), tematizza la sua ricerca dolorosa e sofferta che a poco a poco si arricchisce di ricordi sempre più vivi in una sorta di ipermnesia che nasce dal dolore per l’abbandono e dal lutto per la figura materna.

Ma come non ricordare a tale proposito il più illustre esempio della famosa madeleine intinta nel thé: anche qui da una percezione olfattiva, da una memoria del corpo priva di ricordi, si fa strada, a poco a poco, foss’anche come semplice artificio letterario, un’infinita messe di rimembranze che poi si dipana nelle migliaia e migliaia di pagine della Récherche! Dalla memoria implicita emerge l’“involontaria” memoria semantica! Esperienza questa che forse è toccata anche a molti di noi: spesso un odore, un sapore, una percezione tattile ci riportano con immediatezza nel vivo di una situazione vissuta anni, decenni prima: siamo lì, ne percepiamo la “sostanza” emotivo sensoriale molto di più di quanto non saremmo riusciti a fare attraverso un’accurata rivisitazione di quei “luoghi” per mezzo di documenti scritti, tracce visive, fotografie o addirittura materiale audio e filmati: tracce tanto più fedeli ma tanto meno capaci di farci rivivere con immediatezza quella passata atmosfera…

Nel momento in cui cuciniamo un piatto così come nel momento in cui lo degustiamo (e ciò vale anche per la degustazione di un vino) si può riattivare in noi, in modo conscio o inconscio, un complesso universo emozionale che entra in gioco nel piacere della creazione e della degustazione, ed anche beninteso nella impressione che ne trarremo.

Proprio nelle pagine di Dolores Prato è possibile cogliere la forte risonanza emotiva che certi piatti tradizionali, tipici della sua infanzia, suscitano nell’autrice, come si può evincere da questa affrettata antologia (in corsivo nostro quanto più immediatamente rimanda alla transizione dal sensoriale-gustativo all’emotivo-affettivo):


Il rituale culinario aveva un suo nucleo indiscutibile di leggi con imposizioni ed esclusioni, si allargava sfumando nell’atmosfera, diventava silenzio e devozione (p. 96).


I dolci feriali si uniformavano alle stagioni: calore di castagne; allegria di fragole; mosto cotto e ricotto. Dolce di tutte le stagioni era la crostata: un piatto di pasta frolla cosparso di marmellata incarcerata da una grata fatta da pezzetti di pasta, rotolati e distesi con lo stesso movimento, diventati cordoni (p. 99) (L’incarceramento non è solo una felice metafora, ma anche il vissuto dell’autrice).


Tutti i funghi mi divertivano, i meno belli erano quelli che parevano uova di piccione; tanti assomigliavano a un ombrello, al posto delle stecche una massa di veli, toccarli era spezzarli. Stupefacenti le manine: un mazzetto di funghi frastagliato. Se le anime del Purgatorio delle figurette si fossero ammassate una contro l’altra, le manine erano le loro braccia levate in alto (p. 161).


Alla loro epoca entravano festose le cerase che a scuola nel libro di lettura, si chiameranno ciliegie. Cugine delle cerase, le visciole e le amarene, luttuose e aspre come le Bonomi. Mi piacevano solo le cerase, allegre e scherzose (p. 162) (Le Bonomi erano frequentatrici abituali della casa dello zio ove viveva anche la Narratrice).


Bravo come Zizì non ce ne poteva essere un altro. Anche a tavola uscivano meraviglie dalle sue mani: distruggeva e rifaceva i portogalli. Aranci, diceva lui, come il libro di scuola; ma sui carretti c’erano i portogalli e tutta la gente diceva così; solo qualcuno diceva melarance.

Un portogallo: il mondo. Cominciava a tagliare dal polo nord a quello sud dove si fermava senza intaccarlo (…) a lavoro finito c’era sul piatto un enorme fiore su cui sedeva il mondo sbucciato.

Un altro gioco meraviglioso faceva con l’arancio (…) Lo tagliava torno torno a spirale (…) Una spirale cosmica si ricomponeva in unità astrale. Non pensavo certo con queste parole, ma di queste parole c’era la meraviglia (p. 163).


Ubriachella’ diceva lui a me: Vedeva quella che sono: fuori pasto non saprei trangugiare un sorso di vino, mentre mangio, se non sto attenta ne berrei più del giusto. Se avessi capito che lui vedeva quella che ero, quanta solitudine risparmiata (p. 167).


Anche in cucina, come in psicoanalisi, si ha a che fare, consapevoli o meno, con una conoscenza storica (dei piatti della tradizione) che è anche conoscenza interiore del nostro mondo emozionale, e che apre le porte alla creazione del nuovo.

Questo soprattutto a segnalare come il piacere del gusto si collochi anch’esso tra memoria e creazione e, anche in ciò, non differisca molto dal “piacere del testo” che ci mette in contatto, attraverso le tante possibili proiezioni, con aspetti universali ma anche molto personali della vita emotiva, tradotta nelle forme nuove e impreviste che l’autore del testo ha saputo dar loro. I sensi dell’olfatto e del gusto, però, non possono concedere nulla alla mediazione narrativa: spesso tutto si gioca a livello di memoria implicita e di sensazione che non accede alla rappresentazione: ma al di sotto di un sapore complesso, indecifrabile, può celarsi ugualmente un universo mentale.


La dimensione evocativa della degustazione


Verrebbe allora da chiedersi se sia possibile lasciare uno spazio maggiore a questa potenzialità evocativa che la degustazione può serbare in sé. Perché ad esempio non pensare, al di là di una descrizione tecnica o metaforica (ma, si è detto, un po’ logora…) di un piatto o di un vino, alla possibilità che le sensazioni che suscitano in noi possano a loro volta tradursi nella evocazione di altre rappresentazioni? Un vino, oltre che passibile di una descrizione secondo un ben noto linguaggio codificato, non potrebbe ad es. evocare un certo brano musicale o un’opera pittorica? Perché non pensare alla possibilità non solo di un abbinamento cibo-vino ma anche all’abbinamento di un piatto o di un vino con un film o con la pagina di un romanzo, cercando di rendere insomma la sensazione olfattivo gustativa che ne deriviamo generativa di una dimensione emotiva che ci spinge alla ricerca di assonanze e analogie con quanto può ispirarci un’opera d’arte? Un vino o un piatto, oltre che generare ricordi personali, possono darci un’impressione più indefinita traducibile in termini di potenza, eleganza, delicatezza, irruenza, etc. Tali emozioni che la pura sensazione suscita potrebbero ricollegarsi ad emozioni analoghe indotte da uno stimolo molto elaborato qual è un testo letterario, un quadro, un film, un brano musicale, attraversati o generatori di un medesimo clima emozionale. Si pensi a certi vini rossi d’annata complessi, austeri e profondi con cui accompagnare la lettura di Dostojevski, a dei bianchi o champagne fruttati e delicati da sorseggiare rivedendo Marylin Monroe in A qualcuno piace caldo, a un rosso giovane ma dal frutto prorompente e un po’ cupo e aggressivo da abbinare a I Fratelli Grimm e l’incantevole strega di Terry Gilliam o a qualche film di Tim Burton, riservando beninteso alla lettura di Giù la piazza non c’è nessuno un Rosso Piceno di fattura tradizionale che coniughi l’intensità dei frutti rossi (ciliege e amarene) ad una nota evoluta di troppo, magari viziata da qualche impurezza del legno che segnali a suo modo il dolore del passaggio del tempo…

Lo si consideri solo come “gioco” (di cui non mancano peraltro antecedenti: certe “bizzarre” recensioni del padre della critica enologica italiana, Luigi Veronelli!), ma forse da esso può scaturire un accresciuto piacere della degustazione che nasca dalla combinazione di uno stimolo sensoriale e di un prodotto intellettuale: un altro modo per mettere in contatto memoria implicita e memoria esplicita, mondo delle sensazioni e mondo delle rappresentazioni, affettività e ragione.

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