numero
7
KAINOS
2007
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Singolare-Molteplice. Forma della filosofia dell’impersonale di Roberto Ciccarelli
“Perché
volerlo privare della gloria
La condanna di un innocente è l’incubo di ogni legislatore responsabile. Un errore giudiziario è considerato un’eccezione dovuta al singolo, e non al sistema, contro la quale il diritto moderno ha preso adeguate contromisure. C’è tuttavia in questa eccezione qualcosa di esemplare di cui l’errore individuale è solo l’epifania più esterna. Si tratta di un punto limite, o di indiscernibilità, tra il bene e il male, tra l’essere innocente e l’essere colpevole, nel quale la legge smette di legiferare, la politica scopre la propria inoperosità, un tribunale torna sui propri presupposti e li smaschera, con infinito timore e tremore. Il giudice che si sorprendesse a guardare questo volto oscuro della legge ne verrebbe annientato. Ma è la legge stessa a nascondere un’attività inquietante: la sua violenza costitutiva colpisce la vita nei recessi più intimi, ne viola l’idea di essere comune, smentendo la sua convinzione di appartenere ad una “natura umana”. C’è una singolare convergenza tra Gilles Deleuze e Hannah Arendt nella descrizione di una categoria di personaggi concettuali che portano alla luce questa esperienza-limite della legge(1). Per il Billy Budd, o il Bartleby di Melville, lo smascheramento della legge avviene sempre in nome di un’innocenza talmente inconsapevole da confondersi con i contorni della colpevolezza. Nessuno di loro può dimostrare la propria innocenza ed è quindi passibile di una punizione, prima ancora di avere commesso un reato. La singolarità inoffensiva di questi personaggi potrebbe indurre un giudice a credere nella loro innocenza, ma la legge non può basarsi su un atto di fede per cui al soggetto colpevole viene accordata la fiducia sulla parola. Allo stesso modo, un colpevole non può testimoniare in nessun modo a favore della propria innocenza, poiché affermerebbe il falso. In questo caso, la legge non impone l’affermazione di un principio trascendentale positivo come il “bene” o il “giusto”, ma porta alla dissoluzione di ogni speranza nell’affermazione storica di un fine etico o giuridico. Non è solo per amore del paradosso, o per un’innata diffidenza nei confronti del diritto, che la legge viene identificata da questi pensatori con il regno della menzogna e dell’ingiustizia. Deleuze e Arendt hanno invece mostrato una grande fiducia nella funzione positiva, o costruttiva, della giurisprudenza. La sua funzione “creatrice” di norme è ciò che salva dalle eccezioni e dagli errori ai quali è esposto ogni esercizio del diritto. Nella categoria di “innocenza” Deleuze e Arendt denunciano tuttavia un tratto concettuale che sottrae la vita al suo legame con il diritto e la politica al suo legame con uno stato di natura qualificato. Si tratta di un’esperienza inquietante che mette alla prova non la funzione creatrice del diritto, ma la positività della legge; discute in maniera abissale i suoi principi, ma non intende affatto negarne gli effetti. L’obiettivo di questa interrogazione radicale è il soggetto della cittadinanza moderna che deriva da una precisa partizione tra bene e male, tra la virtù dell’individuo fondata sulla natura positiva e benigna della sua volontà e gli effetti delle sue azioni che possono talvolta sortire risultati molto lontani dalle premesse soggettive. Per Hannah Arendt non si tratta di una semplice contraddizione, ma di un’aporia tra la costituzione giuridica e la soggettività storica nella quale incorre la persona giuridica: La bontà assoluta spesso non è meno pericolosa della malvagità assoluta, che non consiste nell’abnegazione, perché senza dubbio il Grande Inquisitore ne dà abbastanza proba, e che è al di là della virtù, anche del Capitano Vere. Né Rousseau né Robespierre riusciranno a immaginare una bontà che fosse al di là della virtù, come non riuscirono a immaginare che la malvagità totale “non ha nulla in sé di sordido o di sensuale” (Melville), che potesse esistere la malvagità al di là del vizio(2). Per Arendt, l’innocenza è l’espressione di una “bontà assoluta” che eccede la misura giuridica della responsabilità e quella morale della virtù. La “bonta assoluta” non è tuttavia sinonimo di un “bene assoluto”, ma è la condizione propria di una singolarità estranea tanto alla virtù morale, quanto alla responsabilità giuridica. L’innocenza di Billy Budd viene riconosciuta dal capitano Vere, subito dopo avere assistito alla sua esecuzione: Billy era innocente, ma la sua innocenza metteva in discussione la divisione tra il bene e il male, tra ciò che è legale e ciò che è illegale. La giustizia parla la lingua degli uomini, come il capitano Vere, non la lingua degli angeli, come Billy Budd. Il diritto non è mai stato all’altezza della giustizia, mentre la giustizia ha perso il senso della distinzione tra ciò che è male e ciò che è bene. La conclusione di questa tragica vicenda può essere riassunta con Pascal: “E così, non essendosi potuto fare in modo che quel che è giusto fosse forte, si è fatto in modo che quel che è forte fosse giusto”(3). Deleuze ha aggiunto un tratto espressivo alla categoria dei personaggi concettuali che hanno fatto emergere una contraddizione interna della persona giuridica. Come Billy Budd, anche un altro personaggio di Melville, Bartleby lo scrivano, “è un uomo senza referenza”, un uomo cioè che non intende dire nulla di sé agli altri, né gli altri potrebbero comprenderlo qualora avesse deciso di parlare una sola volta nella sua vita. In Bartleby, l’innocenza si esprime nel silenzio e nelle sue laconiche risposte “preferirei di no” ad ogni richiesta da parte dei suoi superiori. La sua non è abnegazione, o sacrificio, bensì la scelta di non ricorrere ad una volontà predicativa – la prerogativa di ogni cittadino: fare valere i propri diritti. Bartleby intende mettere in fuga il linguaggio, far crescere una zona di indiscernibilità tale che le parole non si distinguano più, e meno ancora i personaggi(4). Come spiegare questa volontà di sottrarsi alle gerarchie e persino allo stesso linguaggio, questa fuga davanti alla legge, e quindi al diritto che dovrebbe proteggere il cittadino dalle sue stesse scelte? Non solo, evidentemente, con la passione letteraria di Melville per i personaggi depravati, idioti o ipocondriaci che rivelano l’inconscio della legge, ma con l’intenzione di mostrare che non esiste una “natura seconda” o artificiale, la società o il diritto, che condiziona la “natura umana” della persona. La stessa idea che afferma l’esistenza di una natura umana non rende giustizia alla volontà di sottrazione, o di fuga. Billy Budd e Bartleby negano che la natura umana abbia delle proprietà specifiche che il diritto deve salvaguardare, o delle qualità possedute dalla persona giuridica a dispetto della volontà manifestata dallo stesso individuo. Il conflitto verte dunque sul significato della “natura umana”. La natura naturale, come scrive Arendt, dovrebbe essere più forte della natura depravata, non perché incarni il Bene, ma perché la depravazione è un fatto di natura e la natura umana non può vederla come nemica. Per Deleuze, al contrario, non c’è nulla di “naturale” nella natura. La “naturalità” stessa della natura è una condizione sancita dal diritto, non esprime né la proprietà innata dell’animale umano, né la condizione trascendentale di una coscienza personale. Il rifiuto della legge, come quello della naturalità, possono assumere un profilo perverso, al limite della malvagità. Ciò non toglie che possano essere condotti in nome della più grande innocenza, dell’incapacità di nuocere a qualcuno come per l’idiota di Dostoevskij, il Principe Myskin. La “natura” è sempre l’espressione di una legge, il risultato dell’osservanza di una norma, la manifestazione di una potenza giuridica che incide nella vita degli organismi, quanto sull’ordinamento del cosmo. La rivolta di Billy Budd e di Bartleby è un gesto contro l’ordinamento giuridico della vita, contro la fratellanza tra la natura primaria e selvaggia dell’individuo e la natura seconda e socievole della società, contro l’idea che la “natura umana” sia una sostanza e che la sostanza sia definibile in termini antropologici e giuridici. Il limite di questa rivolta è quello di non potere vincere se non dopo la morte di colui che, in maniera innocente ed inconsapevole, l’ha condotta. Esiste un terzo personaggio che permette di superare questo limite. Si tratta del digiunatore, il protagonista dell’omonimo racconto di Franz Kafka. La singolarità della sua arte sta nel vedersi morire. Un’arte poco spettacolare che tuttavia fa ombra a quella più esibita di uomini e donne del circo, ma ardua da spiegare, remissiva, eppure ammirata dalle grandi folle radunate lì dove il digiunatore si esibisce. Il digiunatore non si accontenta dell’esibizione della sua morte. In tutta solitudine si avventura verso una zona opaca in cui si guarda morire, senza tuttavia morire del tutto. Avrebbe potuto resistere a lungo, illimitatamente a lungo; perché smettere proprio ora che era al massimo del digiuno? Perché volerlo privare della gloria di digiunare ancora, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi, il che probabilmente già era, ma di oltrepassare persino se stesso fino all’inconcepibile, dal momento che non sentiva nessun limite per le sue capacità di digiunare?(5). Il rifiuto di assumere cibo, la volontà di fare della propria fame un’arte a disposizione del mondo, assume una dignità artistica, quella di superare in vita la propria morte. Vedersi morire è il senso della morte espresso nella forma infinitiva, cioè illimitata ed eterna. L’estenuante continuità di questo trascinamento rende la morte estranea allo stesso digiunatore, evanescente al suo stesso concetto, ponendola infine al di là della sua oggettiva tragicità, fuori dal suo contenuto di valore universale, almeno così come viene definita la vita umana dal diritto. Il digiunatore è “l’infinitamente morto” che non muore e che si afferma attraverso il rifiuto di appartenere alla comunità dei cittadini. Rispetto a Billy Budd, il cui inspiegabile istinto omicida è rivelatore dell’intenzione di sottrarsi alla legge; rispetto a Bartleby, la cui fuga dal linguaggio rivela il desiderio di non comunicare la propria linea di fuga; il digiunatore è un essere socievole e non intende inquietare nessuno. Il suo progetto è quello si sottrarsi alla sanzione di un comportamento anomalo. Il dare spettacolo in un circo lo salva dal diritto e dalla sua pretesa di intervenire sull’insensata cattiveria di un soggetto contro se stesso. La sua arte è la negazione di un ordine giuridico che si rende necessario quanto il soggetto non riesce a trovare una spiegazione per i propri atti, né intende fornirla alle autorità deputate a farlo. Nel suo caso il rifiuto della giuridificazione permanente della vita da parte del diritto è definitiva e senza ritorno. Il corpo del digiunatore non ha nulla di “umano” proprio perché pratica su di sé ciò che l’“umano” non potrà mai essere: una singolarità che esprime la propria potenza sottraendosi in maniera plastica e spettacolare, in altre parole esemplare, all’osservanza di una norma. Azione, linguaggio, corpo. Sono i tre ambiti della singolarità attraversati da Billy Budd, Bartleby e dal digiunatore. Ne esiste un quarto, la “visione”, quella praticata da un’altra serie di personaggi che osservano – e comprendono nel suo più profondo significato – la creazione di una norma singolare al di là della legge. Ismaele in Moby Dick, il capitano Vere di Billy Budd, l’avvocato di Bartleby, il pubblico nel Digiunatore hanno la capacità di cogliere e di comprendere queste singolarità rispetto alla natura umana. Qualcuno le immola contro la legge, altri le prendono per quello che sono: singolarità che istituiscono e vivono secondo una norma singolare e non seguendo la “natura umana” che impone una norma universale. È proprio questo l’aspetto creativo del diritto, la sua capacità di creare norme a partire dalla vita, e non per la vita o sulla vita. Non si tratta di un’azione incomunicabile. Tra chi si espone ai rischi di tale creazione singolare, e spesso non condivisa, e chi osserva l’azione, si instaura un rapporto fraterno che libera il diritto dagli effetti della violenza di cui è gravido. Non si tratta di carità cristiana o di filantropia paterna. Questi personaggi rifiutano la commiserazione o l’amore gratuito. Chiedono partecipazione a livello singolare. Melville a questo proposito parla di una “comunità dei celibi”, una comunità dei “senza comunità”, poiché è impossibile avere qualcosa in comune con chi cerca di morire “infinitamente”. Ma non è la morte che il digiunatore chiede al suo pubblico di condividere. È invece una vita che crea la propria norma, a proprio rischio e pericolo. Si tratta di una passione bruciante, la passione della creazione di qualcosa di nuovo, che non può non essere pericolosa. Bisogna anche aggiungere che non è una passione solitaria, ma collettiva, che vive solo all’interno di una comunità, o meglio nella creazione di una comunità, tra il digiunatore e il suo pubblico. Tra il corpo e la visione, oppure tra l’azione e il linguaggio, esistono dei rapporti di intensità crescenti che non mirano alla formazione di una persona giuridica, ma di una singolarità molteplice o impersonale. L’America di Melville, come dello stesso Kafka, è il territorio (non la Nazione) dell’uomo singolare, senza qualità, di quel soggetto impersonale che inizia tutto di nuovo e che crea qualcosa di nuovo a partire dalla propria vita. Su questo territorio ci sono marinai, scrivani, digiunatori, ma anche uomini e donne originali che non appartengono ad una comunità ristretta fondata su un’identità nazionale. L’esemplarità del loro status non è affatto individuale, ma collettivo, non vanta proprietà giuridiche, né appartenenze di sangue, né vincoli nazionali se non quelli legati alla loro condotta singolare. Lo spettacolo offerto dal digiunatore è in questo senso liberatorio poiché indica la possibilità di creare un programma (una comunità) a partire dallo scioglimento dei rapporti. Arendt e Deleuze hanno intravisto questa nuova possibilità a partire da quel crinale sottile che emerge tra la soggettività giuridica e l’umanità corporea. La loro scelta si pone al di là di quella tradizione giuridico-politica che ha distinto una duplicità nel cittadino. La cittadinanza si riferisce alle persone giuridiche, mentre la nazionalità alle persone fisiche(6). La cittadinanza “esprime precisamente il processo di uno status (status civitatis) derivante dall’organico collegamento dei singoli al territorio dello Stato”. Il cittadino ha dunque una doppia personalità: in qualità di persona fisica, il civis “esprime precisamente il processo di uno status (status civitatis) derivante dall’organico collegamento dei singoli al territorio dello Stato”. In qualità di persona giuridica il cittadino è legato ad una serie di diritti fondamentali che sono riconosciuti a tutti gli uomini ed esprime un processo che sorvola l’appartenenza ad un territorio e trasfigura l’identità incarnata della persona in quella trascendentale del cittadino. Il cittadino può essere dunque considerato come un “allotropo trascendentale”, un individuo cioè che riassume in sé due dimensioni opposte della soggettività: una costituzione naturale, quella della persona, e una costituzione trascendentale o universale, quella di cittadino. A differenza del suddito, nella cui identità è presente solo la prima parte, quella di una persona privata della volontà di perseguire un proprio utile sostituito da quella del sovrano, il cittadino è l’individuo sovrano di se stesso. In quanto soggetto di diritto, il cittadino è un’entità astratta, una persona depurata da ogni considerazione soggettiva e filtrata da tutte le contingenze storico-empiriche derivanti dalla sua natura. È in altre parole un essere di ragione che mantiene il rapporto con la propria costituzione biologica e trova la propria universalità riaffermata positivamente nei testi legislativi e nelle carte dei diritti(7). Billy Budd, Bartleby e il digiunatore indicano la presenza di una “terza persona” che rovescia la dialettica trascendentale della persona giuridica (costituita da un individuo in carne ed ossa e da un cittadino astratto) nella dialettica immanente della singolarità impersonale (costituita dalle intensità fraterne che scorrono nel linguaggio, nel corpo, nell’azione e nella visione tra i soggetti “senza comunità”). Questi personaggi concettuali rovesciano il linguaggio della persona nella forma dell’impersonale. Questa operazione riconduce la verticalità della trascendenza ad un piano di immanenza e moltiplica la singolarità esemplare (ed inimitabile) di questi personaggi nella molteplicità irrapresentabile di una comunità dei senza comunità. È proprio questa dimensione plurale del collettivo (o dei senza comunità) ad essere particolarmente interessante dal punto di vista politico. In questa “molteplicità” si intravede una dimensione in cui la persona non è separata dalla vita, o da se stessa, ma coincide con essa in un sinolo inscindibile di forma e forza, di esterno e d’interno, in cui il soggetto è finalmente norma a se stesso e non deve nulla ad istanze trascendentali. In altre parole, un unicum, o singolarità, che coniuga il singolare e il plurale nella stessa persona(8). Da molte parti sono giunte condanne contro questa idea di “comunità dei senza padri” (e dei senza madri). Sono stati denunciati i rischi di una società anomica, popolata da singolarità anarchiche ed irresponsabili. Si pretende invece un ritorno ai valori, alla personalizzazione della morale e della politica. Il pericolo più grande è invece proprio questo: richiudere la vita nei confini giuridici, vincolandola al dispositivo trascendentale della legge e della ragione, auspicare un conflitto tra la sua costituzione materiale e la sua costituzione giuridica, al fine della nascita di una coscienza (che è il sintomo dolente dell’assoggettamento dell’individuo alla legge), in attesa del ritorno dei padri e delle madri. Nessuno auspica l’avvento di una società anarchica, e de-responsabilizzata – che è una pura utopia negativa dalla quale ogni discorso sul diritto e la vita rifugge. L’orizzonte al quale tendono molte forme contemporanee della filosofia dell’impersonale è invece costruttivo, produttivo, aperto. Pieno di progetti e di direzioni. Per spiegarlo, torna utile la splendida immagine usata da Melville per spiegare la natura degli Stati Uniti: un immenso patchwork di nazioni e di popoli diversi. Anche Kafka ha descritto la sua Mitteleuropa nei termini di un intreccio crescente, ed imprevisto, di segmenti eterogenei di territori, nazioni e popoli. Questo patchwork non è la forma gioiosa ed ingenua dei dilemmi del multiculturalismo contemporaneo. Non si tratta di istituzionalizzare le differenze distribuendole in maniera egualitaria su un territorio, ma di costruire territori e popoli in nome della fratellanza (sorellanza) tra singolarità uniche e qualunque. Melville l’ha mostrato con il rifiuto della legge naturale, Kafka l’ha fatto evocando lo spettacolo della fame del digiunatore in pubblico. Le “comunità dei senza comunità” lo fanno costruendo patchwork (insiemi di singolarità e di molteplicità) che non hanno nostalgia delle forme personali della politica (familiari, autoritarie, corporative) e che si cimentano nella sperimentazione di programmi singolari. 1Cfr. G. Deleuze, Bartleby, Les îles enchatées (1989), trad. it. S. Verdicchio, Bartleby o la formula, contenuto in G. Deleuze-G. Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Quodlibet, Macerata 1993, pp. 7-45. Cfr. H. Arendt, On Revolution (1963), trad. it. Sulla rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano (1983) 1996. 2H. Arendt, Sulla rivoluzione, cit., p. 87. 3Cfr. B. Pascal, Pensées, trad. it. B. Nacci, Pensieri, Garzanti, Milano 2006, frammento 298. 4G. Deleuze, Bartleby o la formula, cit., p. 28. 5F. Kafka, Un digiunatore (1922) contenuto ne Il messaggio dell'imperatore. Adelphi, Milano1981. 6C. Mortati Istituzioni di diritto pubblico, Cedam, Padova 1969, p.115, I, IV, 28. 7Cfr. E. Balibar, Citoyen Sujet. Réponse à la question de J.L. Nancy : Qui vient après le sujet ?, Cahiers Confrontation 20, 1989; Cfr. E. Balibar-A. de Libéra, Sujet, contenuto in Vocabulaire européen des philosophies, a cura di Barbara Cassin, Seuil, Parigi 2004. 8Cfr. R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007. |