La decrescita come alternativa alla guerra infinita (1)
di Umberto Curi
Le innovazioni teoriche e pratico-politiche connesse con la
trasformazione della guerra da evento temporalmente circoscritto, a
stato permanente, implicite nella nozione di guerra infinita, possono
essere adeguatamente comprese soltanto se riferite al contesto –
anch’esso del tutto nuovo – del mondo globalizzato
successivo al 1989. L’evento simbolico del crollo del muro di
Berlino, infatti, non ha soltanto consegnato agli Stati Uniti il ruolo
di unica superpotenza mondiale, economica e militare; esso ha
altresì aperto all’influenza di quell’unica
superpotenza il potenziale controllo della totalità del pianeta,
anziché di una “metà” di esso, come era
accaduto per il mezzo secolo successivo agli accordi di Yalta. Come i
documenti strategici in precedenza dell’amministrazione Bush
confermano a chiare lettere, per l’esercizio effettivo di questa
posizione di egemonia incontrastata è necessario escogitare
prospettive e strumenti del tutto nuovi, i quali esigono anche una
nomenclatura inedita, quale è quella sintetizzata nella
strategia denominata Enduring Freedom.
Da questo punto di vista, la “dottrina Bush”, relativa alla
non negoziabilità del livello di vita degli Americani, non
è altra cosa, rispetto alla parola d’ordine della guerra
infinita. Ne costituisce piuttosto il presupposto e la fondazione, nel
senso specifico che la sostantivazione della guerra, e la sua
dilatazione nel tempo, rappresentano la conseguenza logicamente
rigorosa dell’assunzione di un certo tenore di vita come
variabile indipendente. Al di là di contestazioni isolate ed
inefficaci, il sostanziale consenso riscosso dalla politica di George
W. Bush, inconfutabilmente dimostrato dalla sua rielezione al secondo
mandato presidenziale, nel pieno della guerra contro l’Iraq,
è sintomo della larga consapevolezza diffusa
nell’elettorato americano (e risonante anche in gran parte di
quello europeo) del nesso che stringe la tutela dei propri privilegi e
lo sviluppo, anziché il freno, delle iniziative militari in
Medio Oriente.
Risulta evidente, in altri termini, che se di fronte agli squilibri
strutturali e alle drammatiche sperequazioni esistenti nella
distribuzione planetaria delle risorse, alcuni dati – quelli
concernenti la quota più elevata di beni – vengono assunti
come immodificabili, diventa inevitabile salvaguardarli con mezzi
adeguati. L’istituzione di uno stato di guerra permanente va
dunque visto come tramite per una stabilizzazione dello status quo,
posto al riparo da possibili mutamenti catastrofici, capaci di
riformulare i rapporti economici e le gerarchie politiche vigenti sul
piano internazionale. La guerra – la nuova accezione di guerra
implicita nella “dottrina Bush” – è dunque
l’altra faccia di un quadro mondiale basato su paurosi squilibri
strutturali e territoriali. Se si vuole creare un’alternativa
alla strategia nota come Enduring Freedom, i cui primi due capitoli
sono stati l’Afghanistan e l’Iraq, e il cui prossimo
potrebbe essere l’Iran o la Corea del nord, o entrambi, occorre
moltiplicare gli sforzi per realizzare una differente distribuzione
delle risorse a livello planetario, senza subire l’imposizione di
alcuna presunta variabile indipendente, e dunque anche andando a
toccare l’intangibile, negoziando ciò che è
dichiarato non negoziabile – “il tenore di vita dei
cittadini americani”.
Che cosa è possibile contrapporre – ammesso che lo sia
– alla trasformazione della guerra in quella condizione di
perenne belligeranza, giudicata da Hobbes poco più di un
caso-limite, di una mera ipotesi, valida solo (scriveva il filosofo
britannico) per “pochi uomini feroci” o per “gli
Americani”? Quali parole possono contraddire quelle che hanno
fatto della guerra, già di per sé terribile come evento,
uno stato ancora più spaventoso? Quale alternativa è
immaginabile, in un mondo nel quale la nuova macabra liturgia della
guerra infinita sta assumendo il definitivo sopravvento? La politica,
occorre riconoscerlo, balbetta. Per le molte buone ragioni più
volte indicate da studiosi e commentatori. Per la tradizionale
subalternità alla politica statunitense. Per la gracilità
e l’immaturità politico-militare dell’Europa. Per
l’incapacità di disegnare un orizzonte strategico che
possegga un respiro adeguato alla molteplicità e alla
serietà delle questioni sul tappeto. Sia per queste, sia per
altre ragioni, resta il fatto incontrovertibile che la politica non
è apparsa, e tuttora non appare, in grado di esprimere una
propria autonoma prospettiva, diversa, e almeno altrettanto incisiva,
rispetto a quella promossa dall’attuale Amministrazione americana.
L’unica strada che finora sia stata se non altro abbozzata
è quella descritta con parole che non appartengono
all’ambito della politica, ma a quello della profezia.
Sostanzialmente frainteso, sia pure “con le migliori
intenzioni”, nel suo significato più autentico, e comunque
non adeguatamente valorizzato, neppure dal composito universo che si
riconosce nell’arcobaleno pacifista, l’appello rivolto da
Papa Woytjla al digiuno per il giorno di inizio della Quaresima del
2003, quasi alla vigilia dell’attacco americano contro
l’Iraq, contiene le uniche parole idonee a prefigurare
un’alternativa radicale alla “giustizia infinita”
preconizzata dal governo Bush.
Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Questo il
significato profondo di un appello che procede ben al di là di
una pratica espiatoria convenzionale e ampiamente disattesa, quale
è quella del digiuno quaresimale, e che è altrettanto
irriducibile all’espressione di una inoffensiva testimonianza,
priva di ogni reale capacità di influenzare la politica mondiale.
Muovendo dalle stesse premesse che sono alla base della strategia
americana, vale a dire l’esistenza di profondissimi squilibri
strutturali nella distribuzione delle risorse, quelle parole
prefigurano una soluzione esattamente opposta a quella immaginata da
Bush. Non la permanenza dei privilegi, ma il loro netto superamento.
Non l’assunzione del tenore di vita della quota di popolazione
più fortunata come variabile indipendente, ma al contrario un
intervento che persegua il riequilibrio proprio attraverso il mutamento
di quel tenore di vita. Non la guerra infinita come strumento per la
perpetuazione di uno status dei rapporti fra paesi progrediti e paesi
poveri giudicato immodificabile, ma la pace come presupposto e insieme
obbiettivo di una modificazione radicale di quei rapporti, in direzione
dell’equità e della solidarietà.
Se l’Occidente vuole la pace, deve digiunare. Al di fuori di
questa prospettiva, la quale implica non un gratuito, ma infine
sterile, atteggiamento penitenziale, ma un cambiamento profondo di
stili individuali e collettivi di vita, di reperimento e sfruttamento
delle risorse, di orientamento delle politiche economiche, di relazioni
fra popoli e paesi; al di fuori di questo cammino difficile e perfino
penoso, nel quale tuttavia almeno si intravede una giustizia meno
iniqua di quella attuale, e una stabilità meno effimera,
rispetto a quella oggi concessa, resta soltanto lo scenario di una
giustizia declinata nei termini di un’operazione militare
denominata Enduring Freedom. Non importa stabilire se, con
quell’appello, davvero il Papa intendesse alludere allo scenario
così evocato, ovvero se egli si proponesse più
semplicemente di richiamare all’ossequio di una consuetudine
peraltro usurata. Né importa davvero capire se quelle parole, in
quanto essenzialmente profetiche, in quanto dunque “non sono di
questo mondo”, né soprattutto appartengano a questo tempo,
possano essere accolte anche da chi, vivendo in questo mondo e in
questo tempo, non si riconosca in alcuna prospettiva di salvezza
ultraterrena. Ciò che rimane comunque assodato è che, se
vuole sottrarsi all’inquietante scenario dello stato di guerra
permanente, se vuole la pace, l’Occidente deve digiunare.
D’altra parte, la parola profetica, proprio in virtù della
sua trascendenza rispetto al tempo storico, non può in alcun
modo sostituire una prospettiva politica che di quella parola sappia
raccogliere il “senso”, riuscendo tuttavia a tradurlo in
iniziative concrete e mirate. A fronteggiare la strategia che ha al suo
centro la guerra infinita, a contrapporsi alla “nuova
triade” preconizzata dai consiglieri di Bush, sono finora scesi
in campo due protagonisti che hanno davvero assolto fino in fondo il
loro compito: il Papa e il movimento pacifista. È mancata finora
la “terza gamba” di questa “triade”, quella che
avrebbe il compito di dare uno sbocco allo straordinario potenziale di
lotta espresso dalle mobilitazioni di massa, traducendo in politica
l’appello del Pontefice. Con tutta la prudenza imposta dalle
precedenti esperienze, e perfino con il sano scetticismo dettato dai
limiti fin qui emersi, non si vede quale altro soggetto, a parte
l’Europa, potrebbe essere il riferimento per la costruzione di
una prospettiva complessiva alternativa, rispetto a quella implicita
nella “dottrina Bush”.
Indubbiamente, non è né facile né immediata la
“translitterazione” nel linguaggio politico
dell’appello papale. Non può trattarsi della caricaturale
proposta del volontario impoverimento dell’Occidente o della
rinuncia a promuovere lo sviluppo. D’altra parte, non è
neppure concepibile riuscire a contrastare efficacemente
l’opzione messa in campo dagli Stati Uniti limitandosi a ribadire
il rifiuto della guerra. Alla “libertà duratura”
occorre saper contrapporre un disegno almeno altrettanto organico, nel
quale la pace non sia una vuota parola d’ordine, ma sia piuttosto
una formula che riassume una forte capacità di iniziativa, sul
piano delle politiche economiche, nel quadro di una complessiva visione
dello sviluppo dell’intero pianeta.
Questo il digiuno necessario, se davvero l’Occidente vuole la
pace. Una riorganizzazione complessiva delle modalità di
produzione e sfruttamento delle risorse, su scala mondiale, in vista di
una graduale ma concreta riduzione degli squilibri. Solo in questi
termini, si potrà evitare di lasciare campo
libero al dilagare della guerra infinita, facendo sì che la pace
non sia “soltanto un nome”, ma diventi, essa, “la
continuazione della politica con altri mezzi”.
1)
Per uno sviluppo e un approfondimento dei temi qui soltanto
schematicamente enunciati, rinvio al mio volume Terrorismo e guerra
infinita, Città Aperta, Troina (Enna) 2007.