numero
7
KAINOS
2007
sommario : redazione : in calendario : mailing list
Breve viaggio nell’immaginario linguistico indoeuropeo
di Giuseppe Russo
Non sempre disponiamo di norme in grado di spiegare mutamenti accaduti nei cicli storici di una cultura, che si tratti di grandi o di piccoli cambiamenti, come invece accade coi fenomeni matematicamente trattabili. Pertanto, quando la spiegazione razionale si vede costretta ad ammettere i propri limiti, non è per niente sbagliato andare alla ricerca di ulteriori tracce significative in àmbiti relativamente affini: non avranno la stringente validità del risultato accettato dalla comunità internazionale degli esponenti di una determinata scienza, ma certo contribuiranno ad ampliare l’orizzonte lungo il quale dovrebbe formarsi la comprensione. La linguistica è ormai da molti anni considerata una disciplina scientifica in senso stretto – con tanto di laboratori attrezzati, convegni di studi incomprensibili agli esterni, polverizzazione del sapere in settori specialistici, etc. – e non fa certo mistero di desiderare la permanenza nell’albergo delle scienze esatte. Da ciò è dipeso, tra l’altro, l’abbandono dello studio diacronico delle lingue (pubblicamente mai raccomandato da De Saussure(1) e tuttavia praticato con grande impeto dai suoi epigoni come se fosse un diktat(2)), poiché il terreno storico non è sufficientemente stabile per garantire le auspicate condizioni di formulazione di leggi in grado di spiegare con la massima precisione possibile i meccanismi di una lingua in mutamento. Meglio dedicarsi ad un’istantanea linguistica scattata in un determinato momento e analizzarla come se fosse una crime scene del telefilm C.S.I., e così via fino alle follie della glossematica di Hjelmslev, il quale – nel bel mezzo della Seconda Guerra Mondiale, coi nazisti fuori dalla porta di casa – formula la sua Endlösung di questa annosa questione: la soppressione delle “sostanze” degli enunciati per studiare unicamente le “forme”(3). Ma, ovviamente, chi si occupa di problemi di storia della cultura ha proprio l’esigenza opposta, e qui cercheremo di mostrarne un esempio, ricorrendo a suggestioni provenienti dalle tradizioni scritte per riempire gli spazi di senso che inevitabilmente si apriranno. In genere, per individuare le basi di gruppi di parole oggetto di una ricerca si adopera la nozione di “radice” oppure quella ormai antica di “semema” (coniata dallo svedese Adolf Noreen nel 1903, ma ripresa anche da altri studiosi successivi) inteso come «un elemento di contenuto, ma solo se è associato a un pendant fonologico». Bontà sua, Noreen accettava perfino l’esistenza di qualcosa come un «significato fondamentale, ossia il più antico senso (attestato o ricostruito) di un morfema, il senso dal quale tutti gli altri risultano storicamente derivabili»(4). Questo ci interessa: per convenzione, infatti, quando si va alla ricerca di radici o sememi originari, si parte da un esame sinottico di quelli conosciuti, moderni o meno che siano, per individuare gli elementi comuni, che dovrebbero essere quelli più remoti. Da questo procedimento derivano anche la teoria dei campi semantici e la prassi di apparentamento di una lingua ad un determinato gruppo. I manuali ripetono gli esempi di parole come “padre” o “fratello” per fornire una dimostrazione di questa prassi: date le varianti storicamente attestate di queste due parole fondamentali (fondamentali perché di indubbia antichità), si ritiene che la radice protoindoeuropea fosse ph-tér(5) per “padre” e bhrāter per “fratello” (nel primo caso, il vuoto vocalico intersillabico sarebbe stato riempito di fonemi diversi a seconda della ramificazione parentale: a nei gruppi ellenico, romanzo e germanico, i in quello indoario, ay in armeno, etc). Naturalmente, non sempre si riesce ad ottenere una mappatura precisa e a volte si è costretti a registrare un forte disorientamento dinanzi a parole che pure dovrebbero avere un’origine molto lontana nel tempo, ma che forse è andata perduta o comunque non ha lasciato tracce sufficienti a risalire il corso storico della sua etimologia. Ora proviamo a vedere cosa succede dentro le varie ramificazioni del gruppo indoeuropeo con parole come “fame” e “mangiare” che, esprimendo delle esigenze fondamentali per la sopravvivenza individuale e per quella collettiva, certo non possono essere nate in epoca recente. Per ovvie ragioni, ci limiteremo a pochi casi inerenti i rami più significativi, senza enumerare anche le lingue anatoliche, quelle indoiraniche o altre di cui ci sono pervenute solo tracce sporadiche o incerte(6). Il ramo romanzo presenta una sua forte omogeneità: il latino fames, l’italiano fame, il francese faim, il provenzale faime, il portoghese fome e il romeno foame lasciano chiaramente intravedere un semema di base formato dalle consonanti f + m separate da una vocale anteriore (il castigliano hambre contiene semplicemente una corruzione dovuta alla palatalizzazione dell’occlusiva in posizione iniziale mutuata dall’arabo). Passiamo a quello germanico: l’alto tedesco Hunger, l’olandese e il fiammingo honger, l’inglese hunger, lo svedese hunger, mostrano una comune radice consonantica bisillabica (“h-n” + “g-r”) che salta però nel norvegese e nel danese sult, provenienti dall’antico norreno sylt, che rappresenta una radice autonoma. Nel ramo celtico insulare prevale un semema ocr- che è alla base del gallese antico ocroush, dell’ogamico owcrach e del neoirico ocras. Finiamo con le lingue slave: il russo gòlod, l’ucraino hólod, il ceco e lo slovacco hlad, il polacco głód, il bulgaro glad, il croato glad e lo sloveno anch’esso glad sono sufficienti ad individuare una radice monosillabica hl + apofonia vocalica + d, dove il primo elemento consonantico si è alterato in gl per le lingue resistenti alle aspirate e il secondo in t per quelle che hanno prediletto l’alveolare sorda a quella sonora. Abbiamo così reperito almeno cinque diverse radici che oggettivamente non sembrano avere fattori funzionali in comune: hl-d e sylt sono vagamente simili tra loro ma la posizione della liquida (l) è diversa; f-m e ocr- non mostrano parentele possibili né tra loro né con le altre due radici; hn-gr è l’unico caso che sembra nascondere un’origine vagamente onomatopeica, tuttavia non dimostrabile. Per non appesantire la trattazione, limitiamoci a riassumere che, puntando il mirino sul verbo che indica l’atto del mangiare, troviamo una quantità perfino maggiore di radici nei medesimi gruppi: ma(i)ngiar oppure cômer nel ramo romanzo, ma in latino era edere, sensibilmente diverso nella formazione consonantica; eet (varianti: eat, æde, ete, äta) ma anche föda (svedese) ed essen in quello germanico; aith / ith nelle lingue celtiche insulari; jest / ješč in quelle slave ma válgyti in quelle baltiche. È chiaro il possibile apparentamento della prima radice germanica e di quella latina con il sanscrito classico ad / atti (ad → aedo → æde → eat), mentre l’alto tedesco essen e lo slavo jest ricordano da vicino il greco antico esthiein, nel quale potrebbero affondare le loro origini dall’epoca delle invasioni, sebbene quasi sicuramente il verbo greco non abbia una matrice indoeuropea ma illirica. Altri apparentamenti non sembrano però possibili, e tanto föda quanto válgyti e comer devono aver avuto storia propria, pur essendo almeno i primi due di indubbia antichità relativa e non rappresentando calchi da altre lingue ma lessemi autoctoni a carattere macroregionale(7). È legittimo dedurre da questa panoramica che le parole che gli indoeuropei usano per indicare la condizione dell’individuo affamato nonché l’atto stesso del mangiare non sono affatto così antiche come si potrebbe legittimamente supporre. Né lo sono quelle che indicano ciò che si ha bisogno o desiderio di mangiare. Infatti, sono stati condotti degli studi che dimostrano come perfino gli alimenti di base (farina, latte, carne, la stessa acqua) sono nominati in maniere troppo diverse nelle varie lingue della nostra larga famiglia per rintracciare un’origine comune protoindoeuropea(8). In realtà, la linguistica comparativa è riuscita a malapena a mettere insieme indizi in grado di tracciare il campo semantico che riguarda i rapporti elementari di parentela (matrimonio, genitura, nomi dei membri consanguinei della famiglia) e quelli di base dell’organizzazione tribale del clan, o meglio wik, dove almeno il lessema identificativo del capo (rēgs) sembra chiaro, ma tutto il resto molto meno(9). Ciò non deve tuttavia sorprendere. Lo stesso esito, infatti, caratterizza la ricerca di parole che dovrebbero essere ancor più remote, che dovrebbero anzi rappresentare – nella visione del mondo di un occidentale formatosi tra la cultura classica e quella cristiana – le opposizioni culturali per antonomasia: la vita e la morte, l’uomo e la donna, la terra e il cielo(10). Ebbene, le parole che usiamo per indicare questi elementi o i relativi concetti non sono affatto così antiche come si potrebbe supporre; e ciò sebbene esprimano coppie primordiali sia di idee che di condizioni della vita, sia elaborazioni che stati, esattamente come nel caso della fame o del mangiare. L’antropologia culturale ci ha infatti insegnato che assegnare i nomi ai fattori da cui dipende la sopravvivenza individuale o di gruppo è un’esigenza molto meno urgente rispetto a quella di stabilire tutte le relazioni che garantiscono la continuità della vita, compreso il rapporto con la terra e con i ritmi naturali. «Una certa concezione ottimistica dell’esistenza comincia a farsi strada [solo] in seguito al lungo commercio con la gleba e le stagioni; la morte si dimostra null’altro che un mutamento provvisorio del modo di essere (...); nulla muore realmente, tutto si reintegra nella materia primordiale e riposa aspettando una nuova primavera»(11). Solo quando queste dinamiche elementari sono state digerite dalle comunità, e di conseguenza è avvenuta una familiarizzazione con le forze arcane che stabiliscono il funzionamento della vita, si può decidere di dare dei nomi a quegli elementi e a quelle fasi che formano la semantica di ciò che Mircea Eliade chiama “concezione ottimistica dell’esistenza”. Ma è evidente che, a quel punto, l’uomo non è più il primitivo teorizzato da Franz Boas ma anzi si trova già in uno stato culturalmente connotato: è già pronto sia a nominare gli stati del proprio essere che ad effettuarci delle elaborazioni astratte, razionali o mitopoietiche che siano. E poiché gli indoeuropei iniziano le proprie migrazioni dalle steppe della Russia meridionale a partire dal 2000 a.C. (con gli Ittiti in Asia minore) ma le compiono con enorme lentezza, ultimandole solo nel IV-V secolo d.C. con gli Slavi(12), ecco che questa iperdilatazione può spiegare come mai la formulazione di interi campi di lessemi fondamentali sia avvenuta quando le diversificazioni tra i vari rami della famiglia fosse ormai da lungo tempo un fatto compiuto. All’interno dell’arco storico di ciascuno dei gruppi si tratta comunque di una semiogenesi relativamente arcaica, ma non può essere considerata antica per la famiglia linguistica in sé. Va inoltre ricordato che, a differenza dei popoli camito-semitici o di quelli appartenenti alle culture austro-africane, fin dalla prima età del ferro gli indoeuropei non hanno mai conosciuto il vincolo del tabù linguistico(13), cosa da sempre facilmente visibile sia per analisi diretta che per contrasto. L’aver accolto dalla civiltà ebraica il decalogo mosaico (che nel suo secondo comandamento impone il tabù della pronuncia fuori contesto del nome di Jahwé) ha infatti avuto come inesorabile conseguenza la proliferazione della bestemmia tra i cristiani, praticata in misura enormemente superiore rispetto a quanto avviene nel mondo ebraico, per tacere di quello islamico. Unendo questi due motori culturali – l’avvio ritardato della nominazione e l’assenza di barriere nella scelta delle parole – diviene chiaro come mai ci troviamo di fronte ad una tale varietà riguardo lessemi fondamentali come quelli sopra ricordati. Ma è sul secondo aspetto del problema che occorre insistere, ossia sul fatto che si è avuta la possibilità di sviluppare rapidamente delle elaborazioni di quegli stessi elementi che da (relativamente) poco tempo avevano ricevuto i loro diversi nomi nei vari gruppi. Per “elaborazioni” qui intendiamo sia la costruzione di apparati di immagini con forte carica estetica sia lo sviluppo di nuclei concettuali predisposti alla riflessione filosofica. L’uso metaforico o analogico di queste parole, infatti, non ha dovuto attendere i tempi lunghi della loro secolarizzazione o spostamento dal registro del non-dicibile a quello del dicibile, come è invece accaduto in altre culture maggiormente tradizionaliste; il che va a supportare le posizioni di quanti considerano da sempre l’uomo indoeuropeo particolarmente incline alla condizione di “animale culturale”. Di conseguenza, ogni termine scelto dai singoli gruppi per indicare – nel caso che qui stiamo esaminando – l’atto del mangiare e la sensazione della fame ha potuto rapidamente produrre esperienze linguistiche proprie dalle quali sono scaturiti, per gemmazione o per sedimentazione, importanti nuclei mitopoietici peculiari di quel gruppo e non confondibili con altri. Facciamo qualche esempio. L’immagine spaventosa del lupo che divora il sole nel Ragnarök (il cataclisma finale della mitologia nordica) narrato nella Völospá (40-41) e che, non ancora satollo, «si sazia di cani di morti guerrieri»(14) è un’elaborazione del sylt norreno difficilmente confondibile con omologhi di altre aree dell’Europa. Ma, nella sua qualità di leggenda dotata di un forte impatto iconografico, appare genealogicamente compatibile con la condizione psicologica nella quale viene a trovarsi, quasi mille anni più tardi, il protagonista del romanzo maggiormente noto di Knut Hamsun, Fame (Sult, 1890), che a suo modo è anch’essa una circostanza apocalittica. Nel bacino del Mediterraneo, ossia in un contesto climatico totalmente diverso e dove hanno avuto modo di circolare – con relativo successo fra gli strati superiori della società – dei culti basati sull’esaltazione del principio dionisiaco, crescono facilmente nuclei che declinano quella prospettiva orgiastica da grande bouffe che ha il suo archetipo ideale nella Coena Trymalcionis di Petronio: dalle colossali mangiate celebrate nella novellistica rinascimentale (Masuccio Salernitano, Antonfrancesco Grazzini) alle tavolate in piazza (mesas llenas) degli infanti di Lara nel Romancero ispanico o a quelle cavalleresche narrate nel ciclo del Cid. Per compensazione, come hanno ampiamente illustrato Mary Douglas e Norbert Elias nei loro celebri studi sull’argomento, proprio nei paesi di area romanza durante l’età moderna «si va formando un codice di comportamento che è qualificante»(15) per la distinzione sociale dalle classi inferiori della popolazione, ancora ostaggio di una concezione di instabilità alimentare basata sull’incognita del “chissà quando ci capiterà di mangiare un’altra volta”. Sia il Galateo di Della Casa che il De civilitate morum puerilium di Erasmo da Rotterdam forniranno i cataloghi delle regole da seguire, andando così ad incidere sulla concezione moderna del mangiare – quella aristocratica in un primo tempo, quella borghese in una seconda fase – e in questo modo si verificherà una progressiva confluenza del rapporto con il cibo e dello stare a tavola in un’unità statutaria comune nella quale conta poco la differenziazione linguistica. Ma nell’orbita della cultura classico-cristiana gravitano da sempre anche altre accezioni del processo alimentare, in parte rese possibili proprio da quell’uso delle parole che fin dall’inizio fu anche figurato, come si è detto. Il confronto con il modo in cui mangiano gli animali è una delle sponde di base nel gioco argomentativo di Aristotele nel De Anima e nel De Generatione et Corruptione, dove sottolinea la facoltà razionale unica dell’uomo di sapersi moderare anche in questo. E Platone, ancor più impegnato nello smascheramento degli estremismi comportamentali e nella promozione della frònesis, all’occorrenza non disdegna di elogiare perfino l’astinenza come condotta globalmente preferibile a quella dell’ingestione illimitata di sostanze, che ha sempre qualcosa di bestiale. Come suo solito, per farlo adduce l’esempio di Socrate, che «può bere o può star senza bere» (Convito, IV) senza per ciò dare in escandescenze ed anzi venendo sempre ricordato come il migliore tra i commensali. In parte, questo meccanismo di “aurata prudenza” è poi confluito nella tradizione cristiana della cena emulatrice di quella apostolica nei primi due secoli, quando ci si riuniva la sera – senza l’obbligo di presenza da parte di rappresentanti sacerdotali – semplicemente in «un convito della memoria e del ringraziamento, che doveva essere insieme un convito dell’alleanza e della comunione»(16), intesa come ecclesía. Gli studiosi, che hanno definito questa consuetudine “cena del Signore”, la considerano un semplice atto conviviale sostanzialmente pubblico in cui una ieratica forma di moderazione governava i comportamenti dei presenti in virtù della sua fluidità interpersonale, considerata affine a quella dello Spirito Santo(17). Questa dinamica del sacro può esser fatta rientrare senza particolari difficoltà in quella che Balthasar definisce “escatologia dell’accoglimento e della preparazione dei posti”(18). Dopo Costantino, il clero si approprierà di questa tradizione spostandola al mezzogiorno e preparando l’introduzione di un alimento specifico con funzioni redentive, che nelle epoche successive diverrà la somministrazione eucaristica come la conosciamo(19). Il rifugio nel privato ha invece permesso di conservare nei secoli una concezione opposta, basata sull’idea che la separazione da Dio potesse essere annullata per mezzo di una concentrazione solitaria durante la preghiera, a condizione che fosse talmente intensa (esicasmo) da svolgere una funzione analoga a quella alimentare: di interiorizzazione e digestione di quell’essenza divina evocata con la ripetizione della formula liturgica (Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore), fino all’unione mistica. Di qui la deriva nella mitopoiesi della “fame di Dio” di Teresa d’Avila e soprattutto del suo maestro Juan de la Cruz, che adoperò frequentemente e senza particolari scrupoli un lessico basato sulla sensorialità dell’alimentazione e del piacere provato mangiando, come quando nella Notte oscura (cap. IV) invita il novizio a «nutrirsi» delle «cose spirituali poiché, essendo gustate dallo spirito e dal senso, ciascuna parte dell’uomo è mossa a dilettarsene secondo la propria natura e qualità»(20). Nelle parole dell’ex gesuita davvero l’edere mistico sembra confondersi con il comer da trattoria dell’anima in un risultato che, forse anche grazie a questo suo immaginario penetrante, ebbe delle conseguenze decisive nella diffusione popolare di un modello monastico nuovo come quello carmelitano, molto diverso dal rigore formale degli ordini medievali. Con lo spostamento del soggetto moderno al centro ideale del sistema di valori, altre soluzioni metaforiche dei termini che ci interessano ebbero modo di affermarsi e furono in ciò sempre supportate da sostegni semantici resi possibili dalle diverse tradizioni linguistiche. Un caso è quella della faim de vie di personaggi straripanti rispetto agli argini di realtà nei quali sono costretti a tirare avanti, focolaio diegetico privilegiato dalla letteratura ottocentesca. Possiamo citare un riferimento alquanto ovvio ma significativo. Nel momento in cui è costretta ad accettare l’inferiorità dei suoi amanti al confronto delle eccessive aspettative sentimentali che ha riservato loro, Emma Bovary inizia una fase di bulimia emotiva nella quale non riesce più ad “assumere” porzioni di mondo ed anzi rigetta quelle digerite fino a quel momento. È l’avvio della fase discendente della sua parabola tragica, il momento che segna l’irreversibilità della situazione nella quale si è andata a cacciare: «La visione delle cose note, che le sfilavano davanti agli occhi, distoglieva Emma dal dolore presente. Una stanchezza intollerabile l’opprimeva, e giunse a casa inebetita, scoraggiata, quasi addormentata»(21) Sembrano sintomi caratteristici di uno di stato di disordine alimentare che ha raggiunto il suo climax e rischia, in assenza di adeguate contromisure (e nel suo caso non ne esistono), di provocare un peggioramento fatale. Questo perché, per la fame di vita di Emma, non esistono preparati davvero soddisfacenti: la condizione di sazietà non può essere raggiunta in vita perché coincide con la sua fine, né la realtà contiene distrazioni a sufficienza per controbilanciare il peso schiacciante dei desideri inappagati di una simile creatura. La foame de libertate e sete di indipendenza di Costea, personaggio vagamente dostoevskijano che rappresenta uno dei fuochi narrativi di Calea Victoriei, il romanzo maggiormente noto di Cezar Petrescu, viene continuamente alimentata dall’odio verso il padre e dalla fascinazione per un futuro improntato all’ideale socialista. Quel «desidero assicurarmi la vita con le mie forze» dietro il quale nasconde il disgusto provato nei riguardi della propria famiglia, un disgusto modellato sul registro linguistico di quello alimentare, fa solo da preludio all’atto perlocutivo con cui il giovane ribelle si presenta al signor Ozun per annunciarsi al mondo intero: «Signor Jon Ozun, io odio tutti, eccetto gl’infelici perché gli infelici non possono ribellarsi all’organizzazione della nostra società ma si ingegnano di rendere male per male. Ed un uomo di coscienza è costretto ad odiare, altrimenti si rende egli stesso complice»(22). Questo è un tipico esempio di rovesciamento (rispetto alle consuetudini) di fattori nutritivi del soggetto: Costea, che nel romanzo non mangia quasi mai, si alimenta del disprezzo verso i potenti e lo concentra in misura esponenziale nella figura del padre, prevaricatore, ultraconservatore ed abissalmente ignorante. Un po’ per volta, egli giunge a sovralimentarsi di questo odio, fin quasi a scoppiarne e mostrando solo a quel punto che, in realtà, degli oppressi e degli sfruttati non gliene fregava più di tanto e li aveva solo sistemati sul palcoscenico della propria ipertrofia egotica. Da sottolineare che la letteratura romena non aveva ancora conosciuto simili personaggi, quando Petrescu pubblica il suo romanzo nel 1929. Nel bacino teutofono, a parte gli episodi esemplari delle lingue nordiche citati prima, fra le altre usanze linguistiche si è sempre giocato molto sull’anfibologia essen / fressen per ridicolizzare personaggi o per creare situazione estetiche promiscue, come nella favolistica del fratelli Grimm. Il Till Eulenspiegel, che in origine si chiama Dyl Ulenspiegel ed è un prodotto orale delle regioni di lingua basso-tedesca messo per iscritto solo nei primi decenni del XVI secolo, contiene non poche ambiguità pensate apposta per rendere caricaturali gli esponenti delle corporazioni borghesi ed artigiane che nel XVI secolo stavano prendendo il sopravvento nel sistema sociale delle città mercantili settentrionali, ed utilizza il piano della lingua parlata proprio per mostrare la precarietà delle diverse condizioni sociali. Till capisce male le parole che gli vengono rivolte perché le parole non sono abbastanza univoche nel loro significato, e i responsabili della confusione semantica sono proprio quelli che lo trattano come l’idiota del villaggio perché non capisce cosa gli viene detto; e dalle ricerche di Michel Foucault sappiamo bene come la borghesia moderna abbia creato questo circuito di protezione sociale anche con uno scopo di autoimmunizzazione dagli strati bassi della società e per il timore del folle, che «ricorda a ciascuno la sua verità»(23). Alcune situazioni comiche del libro nascono proprio da percezioni errate dei nomi delle pietanze, come quella (XXXVI) in cui Eulenspiegel non capisce il significato di uovo à la coque, ma finisce per far mangiare una mela arrostita ripiena di mosche allo spocchioso mercante che l’aveva chiesta(24), oppure quella (VII) in cui si verifica una incomprensione sulla richiesta di un po’ di Weckbrot oder dz semelbrot (pane inzuppato in brodo di salsiccia), dove invece è lui ancora ragazzino ad avere la peggio nel tentativo di scroccare il piatto frainteso ad un allevatore molto tirchio(25). Naturalmente, nemmeno in quest’area linguistica sono mai mancate le alternative rese possibili anche da quella varietà di esperienze semantiche cui si è fatto cenno. Fin dal Medioevo, nelle aree alto-tedesche sono circolati testi di sapore cortese sulle buone usanze a tavola, spunti che hanno trovato ospitalità perfino in poemi epici come il König Rother (XII secolo, scritto in m.a.t.), dove in alcune stanze si accenna alle prassi da seguire a tavola (zo tiske)(26), o anche in alcune canzoni a ballo di Tannhäuser (XIII secolo) nelle quali, ancora una volta, torna il contrasto fra il comportamento umano e quello animale e l’autore si raccomanda di non divorare (fressen) i cibi come fanno i maiali(27). Rispetto a questa letteratura, quella farsesca alla Till Eulenspiegel nasce sia per compensazione che per contrasto, con un pubblico di riferimento totalmente diverso ed un diverso insieme di aspettative, ma è un’operazione culturale resa pur sempre possibile da sedimentazioni linguistiche pregresse, esattamente come accade in ambito romanzo con opposizioni funzionalmente simili(28). E se solo ci spostiamo un po’ più in là nel tempo e nello spazio, ad esempio nel gruppo slavo occidentale, ritroviamo facilmente repertori di immagini che creano attriti analoghi, anche se meno conosciuti. Il massimo autore della letteratura polacca del Settecento, l’ecclesiastico ed illuminista Ignacy Krasicki, elabora i momenti più aspri della sua “scandalosa” Monachomachia (1778) – satira in versi basata su un’ipotetica disputa fra domenicani e carmelitani a chi beve di più – estremizzando l’archetipo petroniano fino a creare situazioni nelle quali sembra sparire la linea di confine tra ciò che si ingerisce e ciò che si evacua(29). Né si tratta di una parentesi isolata, poiché già cento anni prima di lui, nella sua raccolta di Satire (1650 ca.) Krzysztof Opaliński era arrivato ad affermare che «l’ubriachezza ha costruito il suo nido in Polonia. Qui si moltiplica e qui fa crescere i suoi piccoli»(30). E cento anni più tardi, il futuro premio Nobel Henryk Sienkiewicz sfrutterà molto l’eccessiva confidenza con l’alcool e con le carni grasse della sedicente nobiltà sarmatica nel descrivere le immense, boccaccesche tavolate (grona współbiesiadników, letteralmente: “brigate di commensali”; che è cosa ben diversa da uczta, ossia “banchetto”) raccontate in Ogniem i mieczem (Col ferro e col fuoco, 1884) nonché in altri romanzi storici. Ma esempi di questo tipo, oltre che nel ricco folclore locale, sono individuabili anche nella scrittura di autori cechi come il monumentale Alois Jirásek (soprattutto nei tre volumi di Bratrstvo, ossia La confraternita, del 1894, che racconta il crollo morale e materiale dei combattenti hussiti dopo la sconfitta della Montagna bianca) o il nostalgico Svatopluk Čech, che in Sekáči (I mietitori, 1904) ha realizzato alcuni quadretti di vita campestre particolarmente ricchi di dettagli, anche riguardo mense e tavolate festive. Fin dall’inizio, dunque, il lessico messo a disposizione dalle lingue dei principali rami indoeuropei ha favorito la costruzione di un immaginario collegato alla fame e all’alimentazione basato su una notevole ricchezza di soluzioni. La non-antichità relativa delle parole che formano questo orizzonte di possibilità ha giovato in un duplice senso: ha permesso di avviare elaborazioni senza dover attendere lo spostamento da un registro all’altro, come invece è accaduto con il lessico che riguarda la morale, e allo stesso tempo ha consentito sia la genesi di forme autoctone dotate di un’irriducibile originalità che lo scambio di esperienze linguistiche a fronte di un minimo comune comportamentale. Forse in queste pagine non saremo riusciti a disegnare una mappa particolarmente precisa di tutte le immagini e le combinazioni possibili per un gruppo tanto ampio e frastagliato come quello indoeuropeo; piuttosto ci saremo limitati ad individuare piuttosto alcune radure relativamente illuminate; certo rimangono delle zone d’ombra. Ma ci conforta quel che ha scritto uno tra i massimi antropologi viventi, Clifford Geertz, secondo il quale «l’analisi culturale consiste (o dovrebbe consistere) nell’ipotizzare significati, valutare le ipotesi e trarre conclusioni esplicative dalle ipotesi migliori, ma non scoprire il Continente del Significato»(31) perché un simile territorio, semplicemente, non esiste. * Note con richiamo automatico al testo 1 Cfr. il corso del 1908-1909 nella versione curata da Tullio De Mauro in: F. de Saussure, Corso di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza 200318. 2 Cfr. G. Lepschy, La linguistica del Novecento, Bologna, Il Mulino 1992, in particolare le pp. 39-57. Tuttavia, in un appunto ritrovato insieme a molti altre pagine solo nel 1996 dagli eredi, e da Gallimard (che per primo lo ha pubblicato) intitolato Riflessioni sulle operazioni del linguista, de Saussure sembra invece confermare l’immagine elaborata dalla sua vulgata su questo argomento e giunge ad affermare che «immaginarsi che in linguistica si possa fare a meno di questa sana logica matematica col pretesto che la lingua è una cosa concreta che “diviene” e non una cosa astratta che “è”, questo è un errore profondo»: cfr. F. de Saussure, Scritti inediti di linguistica generale, Roma-Bari, Laterza 2005, p. 30. Dunque non erano tutte invenzioni, quelle dei suoi detrattori. 3 Cfr. L. Hjelmslev, Omkringsprogteoriens grundlaegelse, København, 1943; trad. it. confluita in: I fondamenti della teoria del linguaggio, Torino, Einaudi 1968. 4 Cit. in: B. Malmberg, L’analisi del linguaggio nel XX secolo, Bologna, Il Mulino 1985, pp. 56-57. Sono facilmente ravvisabili molte affinità tra le posizioni di Noreen e quelle espresse da Benedetto Croce nella sua Estetica, pubblicata solo un anno prima: per entrambi, ad esempio, un contenuto privo di espressione non può esistere in alcun caso. 5 Qui semplifichiamo la grafia rispetto a quella canonica usata nella letteratura del settore, per evitare forme che apparirebbero illeggibili. 6 Va ricordato che, secondo la più recente fra le classificazioni accreditate (C. Watkins, 1993) i rami principali dell’albero linguistico indoeuropeo sono almeno undici, di alcuni dei quali (come il tocario, il frigio o il messapico) non sappiamo quasi nulla, data la scarsità di documenti. 7 Occorre sottolineare che l’ispano-lusitano cômer ha anch’esso una provenienza incerta, ma che non si può far discendere dall’arabo àkal, sicuramente già in uso nel periodo della dominazione sulla penisola perché estremamente antico come tema camito-semitico (ebraico: akal; aramaico babilonese: akhal). 8 Cfr. AA.VV., Indo-European and Indo-Europeans, a cura di H.M. Hoenigsweald e G. Cardona, Philadelphia, Pennsylvania University Press 1970. Il caso dell’acqua è certo il più eclatante: sono enumerabili almeno sette radici totalmente diverse tra loro eppure tutte relativamente antiche per indicare l’elemento senza il quale la vita umana è semplicemente impossibile. 9 Cfr. AA.VV., Le lingue indoeuropee, a cura di A. Giacalone Ramat e P.Ramat, Bologna, Il Mulino 2003, pp. 32 e segg. 10 Solo per l’opposizione giorno-notte è rintracciabile una coppia di radici arcaiche “den” (giorno) e “n” + apofonia + “ts” (notte). Lo dimostra l’estrema diffusione delle derivazioni da questi protolessemi nelle lingue più conservative come quelle slave (dan, den; noc, noč), le baltiche (lituano: dienà; naktìs) e il sanscrito classico (dina; niśā). Sfugge alla norma il gruppo celtico (lae, lá; hoích, oíche). 11 M. Eliade, Trattato di storia delle religioni, Torino, Boringhieri 1984³, p. 343. 12 Cfr. A. Romualdi, Gli indoeuropei: origini e migrazioni, Padova, Edizioni di Ar 1978; F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, Bologna, Il Mulino 1997. 13 Cfr. F.B Steiner, Tabù, Torino, Boringhieri 1980; M. Cortelazzo, Il valore attuale del tabù linguistico magico, in: «Rivista di etnografia», n. 1-4 (a. 7). Inutile il riferimento a Totem e Tabù di Freud perché si tratta di un approccio ormai superato. 14 L’Edda. Carmi norreni, ediz. ital. a cura di R. Pettazzoni, Firenze, Sansoni 1982², p. 6. Borges, che forse lesse troppo prematuramente L’Edda, ha raccontato in più di una circostanza che quella immagine lo terrorizzava anche da adulto. 15 N. Elias, Il processo di civilizzazione, Bologna, Il Mulino 1988, p. 234. 16 H. Küng, Cristianesimo, Milano, Rizzoli 1999, p. 86. 17 Cfr. R. Kottje / B. Moeller, Storia ecumenica della chiesa, ediz. ital. a cura di G.Alberigo, vol. I, Milano, Queriniana 1981, pp. 71-80. Cfr. anche W. Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, Firenze, La Nuova Italia 1977. 18 Cfr. H.U. von Balthasar, Teodrammatica, vol. V (L’ultimo atto), Milano, Jaca Book 1995², pp. 319 e segg. 19 Cfr. E. Mazza, L’anafora eucaristica. Studio sulle origini, Roma, Edizioni Liturgiche 1992. È forse opportuno ricordare due punti: 1) il termine eucharistía viene introdotto verso la metà del II secolo ed il primo padre della chiesa a farne uso è Giustino martire nelle Apologie, ma solo la teologia scolastica ne fornirà una sistemazione stabile; 2) il dogma della transustanziazione riguardo le modalità della presenza di Cristo nel pane e nel vino nasce nel IX secolo ma viene ufficializzato soltanto durante il Concilio di Trento (sessione XIII, ottobre 1551). Pertanto, anche queste sono acquisizioni piuttosto tarde. 20 Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo. Notte oscura, a cura di P.P.Ottonello, Milano, TEA 1994, p. 305, corsivi miei. 21 Madame Bovary (trad. di G.Lazzeri), parte III, cap. VII; in G. Flaubert, Romanzi, racconti e teatro, vol. I, Milano, Mursia 1962 , p. 726. 22 Calea Victoriei, parte II, cap. II, trad. ital. di C.Ruberti in: C. Petrescu, La capitale, Torino, Utet 1956, p. 154. La citazione precedente è da p. 152. 23 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Milano, Rizzoli 1994³, p. 21. 24 Cfr. Till Eulenspiegel, ediz. ital. a cura di L.Tacconelli, Roma, Salerno Editrice 1979, pp. 276-277. 25 Ivi, pp. 50-51. 26 König Rohter (vv. 1259-1290), hrsg. von I.Bennewitz, Stuttgart, Reclam 2000, pp. 112-114. 27 Cit. da J. Siebert, Der Dichter Tannhäuser, Halle, Niemeyer 1934, pp. 195 e segg. 28 Esempio riguardante casa nostra: Berni o Folengo da un lato, l’Ariosto o il Marino dell’Anversa liberata dall’altro. 29 Cfr. le ultime cinque ottave del primo canto in: I. Krasicki, Poematy heroikomiczne, Warszawa, Państwowy Instytut Wydawniczy 1985, pp. 73-74. Alle durissime polemiche sollevate dalla curia dopo la pubblicazione del suo testo, Krasicki – che si sentiva ben protetto dall’autorità del re Stanislao Augusto – rispose con un’ancor più irriverente Anti-Monachomachia (1780). 30 Cit. da Cz. Miłosz, Storia della letteratura polacca, Bologna, CSEO 1983, p. 133. 31 C. Geertz, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino 1998², p. 30. |