Nicoletta Tanghèri, Il rumore dei miei passi. Una storia vera di anoressia Roma, Infinito Edizioni, 2007, ISBN 88-89602-16-3, € 10,00 “Al tempo della mia adolescenza il termine ‘anoressia’ non era ancora di moda, forse per questo quel periodo di digiuni non ha avuto conseguenze gravi. Ma ero comunque sempre magrissima (dalle fotografie di quel periodo emergono solo ginocchia, gomiti, piedi) e l’ultimo periodo di convivenza con i miei fu contrassegnato da un rifiuto del cibo radicale: vomitavo quasi tutto quello che mangiavo. Il medico di famiglia diagnosticò colite e mi mise a dieta: niente grassi, niente pane…” Curioso che, con questo rapido accenno a una delle malattie più dilaganti degli ultimi anni (forse, già decenni), la scrittrice Clara Sereni (classe ’46) tocchi, proprio entro un libro di ricette (Casalinghitudine, Einaudi, 1987; poi, confluito in BUR, 2007) e con l’umorismo che ne caratterizza lo stile, alcuni punti salienti: l’anoressia, come malattia e non semplice atteggiamento mentale liquidabile come vizio o capriccio, viene presa in considerazione da pochi anni a questa parte. Al tempo della sua adolescenza, quindi, presumibilmente, già nel pieno degli anni ’60, veniva addirittura travisata per ‘colite’ e, paradossalmente e contro ogni pratica corrente, curata con un regime alimentare ancor più restrittivo di quello che già le apparteneva. Poi, l’elemento familiare, di cui più volte si rimarca la rilevanza nel volume che ci si accinge a trattare, ha già nella percezione della Sereni ragazzina – o, almeno, questo è quanto si arguisce da queste poche righe – una forte pregnanza, al punto da venir “contrassegnato da un rifiuto del cibo radicale”. C’è anche un accenno apparentemente semplicistico e, come tale, tendenzialmente trascurabile, che però gioca un peso fortissimo nello sviluppo, ma, forse ancor più, nel decorso di questa malattia: la moda. Il fatto stesso, quindi, che il termine non sia ancora “di moda” parrebbe rappresentare un deterrente alla sua degenerazione e, soprattutto, alla sua conservazione. È possibile – ci si domanda – pervenire a una considerazione così apparentemente banale e cruda, insieme? Basterebbe, dunque, che un termine (nemmeno, tutt’al più, il concetto che esso rappresenta) non sia ancora penetrato nel gergo modaiolo per impedirne la diffusione perniciosa della rappresentazione cui farebbe riferimento? L’ultimo aspetto, quello senz’altro più umoristico, ma, tutto sommato, anch’esso non così distante dal quadro patologico del problema è, come si accennava, che queste sommarie riflessioni sono felicemente inserite entro un libro di storie di famiglia che intercalano ricette gastronomiche e che, in particolare, la breve citazione cui facciamo riferimento è racchiusa tra il “polpettone al forno” e le “zucchine ripiene”. Ebbene, il problema, in termini tutt’altro che umoristici, perché vissuti e sofferti, certo, in maniera più incisiva di quanto sia accaduto alla nota scrittrice romana, è trattato da Nicoletta Tanghèri (Genova, 1968), autrice di un diario già esplicativo a partire dal titolo. Ma non stupisce troppo che, pur nella diversità dell’approccio, alcune verità di fondo cui entrambe le scrittrici (l’una solo en passant; l’altra elevando l’argomento a tema unico del proprio libro) pervengono siano identiche. Di seguito, ci limiteremo a citare alcuni passaggi del libro della Tanghèri e a commentarne, quando necessario, le implicazioni sul piano coscienziale, fermo restando che l’anoressia, pur presentando aspetti in comune con altre affezioni di tipo ossessivo-compulsivo (per la circolarità del pensiero e, conseguentemente, delle azioni volte ad annullarne l’invasività), soccombe più rovinosamente, nella maggior parte dei casi diagnosticati come gravi, di fronte alla consapevolezza e persino alla volontà di guarire, che rappresenta, invece, un forte impulso alla riemersione da altre tipologie, pur conclamate, di disturbo ossessivo-compulsivo ‘puro’. La circolarità di cui sopra è efficacemente proposta al lettore, nel romanzo-diario della Tanghèri, dall’iterazione di immagini, espressioni, parole, che assai meglio di descrizioni morbose o pruriginose – che, forse, ci aspetteremmo da un testo di tal fatta – illustrano l’incubo vissuto dalla Scrittrice, che quasi lo passa transitoriamente al lettore stesso, per riappropriarsene poi, con una visione più distaccata e ‘sana’: con una distanza, insomma, che è esito sofferto di un percorso tanto individuale quanto collettivo (nel coinvolgimento, non sempre intenzionale, dei familiari, ma anche di agenti esterni alla vicenda). Nel capitolo che riecheggia il titolo del libro, “Il rumore dei miei passi” (p. 22): “Freddo da dieci maglioni Freddo che non ragiono” Un gelo, quello dell’anoressia, pungente come le ossa che pervade e, più a fondo, un gelo dell’anima, che preannuncia proletticamente quello del capitolo eponimo, “Freddo”, che con la stessa cantilenante ammissione si apre (p. 45). Un connubio inscindibile, quello corpo-anima (calorie rigettate e calore respinto), già opportunamente messo in luce dallo psichiatra Dario Carrus, autore dell’Introduzione a questo libro (che include anche una Prefazione dell’attore e regista teatrale Stefano Dionisi che, dall’opera della Tanghèri, ha tratto uno spettacolo e Una riflessione di Maria Rita Munizzi, presidente nazionale del Moige-Movimento Italiano Genitori). Fondamentali, ma non sempre evidenti, le metafore, delle quali il libro è costellato (e che si sublimano sul finale, con l’omaggio a Dino Campana e ai suoi Canti orfici, apoteosi della metaforizzazione): “Camminare sulle punte non mi piace. Affondo i passi” (Cap. “Per Roma”, p. 23) “Nella terra Affondo i passi” (Cap. “Senza concludere”, p. 63) Esse trascolorano, nel giro di poche immagini, fino a concretizzarsi cupamente e oscuramente in replicazioni simboliche: “Due donne. Una si attacca all’altra, la bocca e il naso schiacciati sul suo dorso. Non respira. Non riesce nemmeno a parlare. Non può dire che sta soffocando e inizia a scalciare. L’altra non può vederla, ma sente i calci. Non ne capisce il motivo. Alle spalle. Si sente tradita… Alle spalle… (Cap. “La morte la sento, è vicina”, p. 37) “La morte la sento, è vicina. Vento non soffi più” (Cap. “Niente di peggio, madre”, p. 39) “La morte la sento, è vicina” (Cap. “Sono giorni che non tocco cibo”, p. 41) “Bolle di vita risalgono dal lago della morte” (Cap. “Purificazione e santità”, p. 47) Ma, oltre alle metafore, ci sono anche le ammissioni di debolezza e, più spesso, di arrendevolezza, che non necessitano, come le prime, di concretizzazioni né di esercizi purificatori, essendo già, di per se stesse, sufficientemente tangibili, soprattutto se si fa mente locale sulla valenza etimologica (quanto approssimativa) del termine ‘psichiatria’ (psychè = ‘anima’ + iatrìa = ‘cura’), il cui secondo membro della parola composta è usato, indifferentemente, per la cura del corpo e delle sue parti (es.: odontoiatria) o per lo studio delle fasi dell’esistenza (pediatria, geriatria). Dunque, una consapevolezza della valenza impropria e parziale della ‘com/prensione psich/iatrica’: “Comprensione quale? Quella medica relativa al ‘caso clinico’, che è la più facile, oppure quella dell’anima?” (Cap. “Lascio la madre nella follia (critiche/guarigione)”, p. 49) “Mi riempio di psicofarmaci per morire Mi riempio di psicofarmaci per guarire” (Cap. “Ritornello”, p. 57) Consapevolezza che, unitamente a quella sull’attitudine solipsistica, che è marca propria dell’anoressia come anche di altre malattie dell’anima (prima fra tutte, la depressione, nelle sue molteplici manifestazioni), rende la Tanghèri, in certo qual modo, più accessibile e umana di altre ragazze, al pari di lei, sofferenti di una patologia che, loro malgrado, le allontana fisicamente dal mondo circostante, col renderle eteree e, diremmo quasi, sospese su un piedistallo: “Credo che non ne uscirò mai del tutto: mi sorprendo spesso a fare conti calorici, ancora sto attentissima alla linea, ma vivo” (Cap. “Il rumore dei miei passi”, p. 21) “Come faccio ad ascoltarti se sto contando le calorie?” (Cap. “Entro in accademia”, p. 53) “Cercare la perfetta guarigione può portare soltanto alla cronica malattia, se non alla totale sconfitta” (Cap. “Il grimaldello”, p. 67) “Il pensiero anoressico è fallace fin da subito anche se non ci pare e ci sembra vero il contrario” (Cap. “Il grimaldello”, p. 68) L’incomunicabilità, anche coi parenti più prossimi, è dunque marca propria dell’anoressia: “Ciao mamma… Passami papà. Papà, come stai tu? E dimmi, papà, la mamma come sta?” (Cap. “Entro in accademia”, p. 54) In questo senso, Dino Campana è antesignano e, potremmo azzardare, suggeritore di questa presa di coscienza: “la nube che si forma dal vomito silente. ... Infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena” [tratto da Genova, in I canti orfici, Cap. “Caro Dino…”, pp.73-74] Infinitamente-occhiuta-devastazione: un avverbio, un aggettivo e un sostantivo che racchiudono, in un triangolo senza apparente via d’uscita, un parossismo ritualistico che, in breve, diviene il senso di una vita e, altrettanto in breve e al contempo, svuota quella stessa vita di un senso. (Valentina Belgrado) |