numero 7
KAINOS recensioni
2007

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fame / sazietà



Bruno Moroncini, Rosanna Petrillo, 
L’etica del desiderio. Un commentario del seminario sull’etica di Jacques Lacan

Napoli, Cronopio, 2007, pp. 258, ISBN 978-88-89446-33-1



«Avanzare sulla via del desiderio non è facile e si paga un prezzo molto alto», ma se è possibile individuare una massima etica della psicoanalisi, questa deve suonare, con le parole di Lacan: “Non cedere sul proprio desiderio”. Il nucleo problematico del denso e chiaro volume di Bruno Moroncini e di Rosanna Petrillo, dedicato al commento puntuale del seminario sull’etica della psicoanalisi tenuto da Lacan nel 1959-60, può essere sintetizzato in queste due affermazioni.

Ciò che è in gioco nel rapporto analitico è la relazione del paziente con il desiderio che lo abita e che lo fa soffrire. E se c’è un fine dell’analisi questo è individuabile in quel che Lacan chiama la “catarsi” del desiderio.

Da Platone a Hegel il desiderio, argomentano gli autori, è stato «sottoposto ad un dispositivo idealizzante» (p. 10). Si è pensato che dovesse essere educato, “ortopedizzato”: in un caso (Platone) indirizzato verso un oggetto ideale, l’idea del bello, nell’altro caso (Hegel) confuso con la “domanda di riconoscimento”. Se è chiara la distanza lacaniana dalla strategia idealizzante di Platone, è meno evidenziata dagli interpreti la netta distanza dello psicoanalista francese dal modello hegeliano. Lacan, infatti, pur ribadendo la tesi secondo cui il “desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”, tiene a precisare che per Hegel l’altro in questione non è l’Altro ma l’alter-ego, l’altro come coscienza. Se per Hegel l’altro è “colui che mi vede” – ed è proprio questo ad innescare la lotta di puro prestigio –, nella prospettiva inaugurata dalla psicoanalisi «l’Altro è lì come incoscienza costituita come tale» (p. 12).

Lacan ci insegna che l’Altro ha una natura doppia: da un lato è il mio simile, dall’altro è l’Altro inconscio, l’altro che desidera e che, per ciò stesso, “manca”, ma non è in grado di sapere cos’è che gli manca.

Se il soggetto del desiderio, il soggetto pulsionale, non ha altra consistenza se non quella di significare ciò che manca all’Altro stesso, allora il soggetto è internamente diviso e mai ricomponibile. Ma chi è questo Altro? In che cosa si fonda la sua “doppiezza”? Che cosa significa che il desiderio, il “mio” desiderio è il “desiderio dell’Altro”?

Per Lacan l’incontro con l’Altro è ciò che struttura la “realtà psichica” con cui il soggetto ha a che fare. L’Altro è la prima “realtà psichica” con cui il soggetto si relaziona, strutturandosi. Questo primo “reale” – chiarisce Lacan – appare innanzitutto e inizialmente come un oggetto imprevedibile, ossia come il “prossimo”, il Nebenmensch, il “primo” prossimo, vale a dire la madre – o chi ne fa le veci, prendendosi cura del bambino. Questo primo “oggetto” è strutturalmente “imprevedibile” perché risponde ad una non-domanda, potremmo dire, risponde alle grida e ai pianti (“assoluti”) del bambino, soddisfacendo così i suoi bisogni primari di sopravvivenza: «risposta che giungendo inattesa, quasi come una grazia sovrabbondante, costituirà per il soggetto l’imprinting di tutte le successive forme di soddisfazione e di godimento» (p. 33).

Il “prossimo” appare così come (in genere) colei che risponde alla voce del bambino, trasformandola in domanda rivolta all’Altro, trasformando la frattura iniziale – cui “reagisce” il primo grido della nascita – in una richiesta che, nello stesso tempo, è simbolica e reale, nel senso che è domanda di un simbolo che possa dare un senso alla vita soggettiva – ad una vita soggettiva continuamente esposta al dissolvimento – ed è richiesta di una replica di quel primo soddisfacimento. È in questa prima fase che nasce l’Altro come Cosa, ci dice Lacan. L’imprevedibilità e la casualità di quel primo godimento divide il “primo” prossimo in due componenti, «una che può essere capita perché più simile al soggetto ed un’altra invece che resterà estranea, incomprensibile e da questo punto di vista più simile ad una cosa inanimata che a una vita psichica» (p. 34). Estraneità dovuta al fatto che essa dà «significazione al grido del soggetto al di là del soggetto e lo immette in un ordine di significazione a lui estraneo, ma al quale d’ora in poi resta sospeso, attaccato per sempre poiché la sua significazione dipende da quest’ordine significante» (p. 96). Il reale è questo Altro che non è l’alter-ego, che non è il “simile” in cui posso riconoscermi, ma un’istanza perturbante che ci costringe a desiderare fino «a commettere gli atti più stravaganti e delittuosi» (p. 34). Questo Altro – che è la vera origine del Super-io già secondo Freud – è quello che darà ordini imperiosi al soggetto, ma ordini che sono caratterizzati dalla loro ineseguibilità se, al tempo stesso, non li si trasgredisce, generando così sentimenti di colpa. Sia che ordini di desiderare, sia che ordini di non desiderare, l’Altro super-egoico colpevolizza. L’Altro come Cosa, come das Ding, «è l’oggetto nel senso del termine che orienta il desiderio [… e] attrae il soggetto come il sole un girasole» (p. 39). Per tale ragione, secondo gli autori, la «domanda etica qui è: come si pone fine al dominio di das Ding, come ci si libera dai suoi comandi disastrosi, come ci si rende liberi dal sentimento di colpa?» (p. 39).


L’Altro ci dona la parola, e il tesoro dei significanti attraverso cui noi siamo nel mondo, ma, nello stesso tempo, ci impone, senza saperlo, il suo desiderio inconscio. Il dono della parola e l’imposizione della dura e necessaria legge del desiderio sono i due estremi dell’incontro con l’Altro. L’Altro ci fa accedere al mondo, ma, nello stesso tempo appare come un reale im-mondo, catastrofico e rivelativo ad un tempo. Il soggetto è così sempre un soggetto barrato: è nel mondo simbolico e fuori di esso. Non può che cercare nel mondo (simbolico) il senso che lo completi, ma non può, per ciò stesso, non desiderare che quello che cerca sia ciò che lo salvi dalla mancanza ad essere che lo caratterizza e lo fa soffrire. Tuttavia, per il fatto stesso che la desidera, questa “salvezza” non può non coincidere con la morte, non può non essere desiderio di morte. Infatti, se, seguendo il “principio del piacere”, il soggetto inconsciamente tenta coattivamente di ripetere, lungo l’ordine dei significanti, l’incontro con il significante mancante, con quel significante che possa dare senso alla sua vita, dando un senso alla sua “mancanza”, ebbene questo stesso principio mostra, nella sua struttura, un andare al di là di sé. Nel principio del piacere gioca un al di là del principio del piacere, gioca la pulsione di morte. Questa, che non deve essere confusa con il “principio del Nirvana” (nonostante le forti ambiguità freudiane in tal senso), è pulsione all’azzeramento della catena dei significanti, è pulsione a “colmare” la bèance, il vuoto, lo iato tra reale e simbolico (prodotto dall’ordine simbolico) è pulsione che tende ad eliminare la Spaltung, la divisione strutturale del soggetto umano tra “identità” (o identificazione) simbolica e “singolarità” reale e inconscia. Perché il significante buono è solo il significante strutturalmente assente. Nella logica del desiderio è iscritta, quindi, una logica di morte. Il desiderio in senso proprio e radicale è sempre un desiderio di morte. Ovviamente di “morte simbolica”, ma, ed è qui è il problema, la morte simbolica, la “seconda morte”, come la chiama Lacan, non può non investire il soggetto in quanto tale, in senso reale e catastrofico.

Insomma, se la psicoanalisi ci insegna che il desiderio è innescato da una “mancanza ad essere” che non può essere suturata se non, illusoriamente, con la morte, se Lacan ci insegna che il desiderio in senso radicale è sempre desiderio di morte, allora il problema “etico” è quello – connesso al problema della “colpevolezza” – di come rispondere all’ingiunzione del desiderio evitando la catastrofe mortale. Perché, come sia Freud che Lacan hanno mostrato, la soluzione che passa per la repressione e per la negazione del desiderio non è una soluzione, perché non evita affatto la colpevolizzazione del soggetto. Sia che desideri, sia che non desideri, il soggetto si sente in colpa. La legge simbolica che instaura la “mancanza ad essere” è sia la legge che impedisce al soggetto di accedere all’oggetto del suo desiderio che la legge che impedisce la distruzione del soggetto. Ma, dovremmo dire, la legge del desiderio non si identifica con la legge simbolica che è attraversata dal desiderio. Non si identifica in essa ma, appunto, la percorre, se è vero che il significante è ciò che rappresenta il soggetto (inconscio) lungo la catena dei significanti, e se è vero che la catena dei significanti è percorsa dal soggetto seguendo la legge del desiderio che, se perseguita fino in fondo, non può che portare alla catastrofe mortale. Impedire al desiderio di percorrere la sua strada non fa che rafforzarlo, aumentando i sensi di colpa del soggetto. Come sfuggire alla legge “demonica” del desiderio senza tradirlo? Sembra un po’ questa la domanda cruciale che gli autori si pongono, attraverso e attraversando Lacan. Ed è una domanda che investe l’etica della psicoanalisi. Che cosa il soggetto che soffre chiede all’analista? Che cosa l’analista può rispondere? Su questo punto Lacan è chiaro: l’analista non deve indulgere a nessuno degli “ideali analitici”. Questi sono sostanzialmente tre: il primo è l’ideale dell’amore genitale inteso come la forma “completa” dell’amore, quella in cui si realizzerebbe appieno la relazione oggettuale; il secondo è l’ideale dell’autenticità che si fonda sul fatto che «la tecnica analitica è una tecnica di smascheramento, quindi una tecnica che va verso l’autentico, verso la pienezza, verso una verità rivelata senza veli o fraintendimenti» (p. 51); il terzo è l’ideale dell’autonomia. Il primo “ideale” si modella su una presunta “igiene dell’amore”, dimenticando il dato analitico della strutturazione fondamentalmente pre-edipica della sessualità umana; il secondo ideale trasforma una tecnica in un fine perseguibile in quanto tale, dimenticando che l’inconscio è un dato “strutturale” e ineliminabile del soggetto, che non può che dire il suo desiderio, la sua “verità”, se non in una “struttura di finzione” (ad esempio attraverso i sintomi nevrotici); l’ultimo ideale, infine, non comprende che il soggetto umano è tale solo in quanto “abitato” dal desiderio dell’Altro e che, quindi, la dipendenza dall’Altro è anch’essa strutturale e ineliminabile. Ma c’è un ideale che attraversa tutti questi elencati e che è forse la vera antitesi dell’analisi, almeno così come Lacan la intende. È quell’ideale che tende a pensare l’etica analitica come “etica dei beni”. Il “bene” è ciò che può essere raggiunto e realizzato ma è anche ciò che può essere suddiviso e distribuito. Per quanto il “bene”, nella sua stessa “economia”, nasconda la logica dell’appropriazione e, quindi, una logica dell’esclusione, esso rientra a pieno titolo in una logica della possibilità. Il desiderio, invece, fa sentire la sua voce solo all’interno di una logica dell’impossibilità. Il bene è il “possibile”; il desiderio vuole solo ed esclusivamente l’impossibile (per tale ragione è, in ultima istanza, desiderio di morte). L’etica della psicoanalisi non è un’etica dei “beni”, né un’etica della felicità (in senso aristotelico), ma, secondo Lacan, un’etica del desiderio. Il fine dell’analisi, sottolineano Moroncini e Petrillo, è quello di porre il paziente di fronte alla realtà della condizione umana che consiste essenzialmente nello “sconforto”, nello “smarrimento assoluto”: «nello sconforto non c’è pericolo: c’è il fatto che non ci si deve aspettare aiuto da nessuno» (pp. 245-246). Sulla strada del desiderio si è sempre soli, ma non bisogna “cedere sul proprio desiderio”. Infatti, agire in vista del “bene”, cedendo sul desiderio, non mette al riparo dai sensi di colpa. Dal punto di vista analitico, al contrario, l’unica cosa di cui si può essere ritenuti colpevoli, spiega Lacan, è di aver “ceduto sul proprio desiderio” e la “catarsi” del proprio desiderio è il vero ed unico fine dell’analisi, nel senso che, come scrivono gli autori, «la purificazione da ogni infingimento, da ogni illusione in cui il desiderio stesso si può alienare, sarà alla fine ciò che deve essere attraversato perché il soggetto, precisamente come in un agone tragico, assuma fino in fondo il proprio destino, se ne faccia carico, paghi cioè il prezzo […] per accedere ad esso, per ‘divenire ciò che era’» (p. 50).

Qui, tuttavia, il testo giunge al suo punto di svolta. Se non bisogna “cedere sul proprio desiderio” (che è sempre il desiderio dell’Altro), ciò forse significa che, come accade agli eroi tragici, di cui Antigone è l’esempio più fulgido, bisogna avere il coraggio di affrontare la morte senza tentennamenti? O c’è una strada che l’uomo comune può seguire per non cedere sul suo desiderio ma evitando, al contempo, la distruzione di tutti i beni e la morte come unica meta? «Avanzare sulla via del desiderio non è facile, si paga un prezzo molto alto”» (p. 258). Il segreto di questa strada difficile e tortuosa sta nel saper separare nell’Altro, da cui dipende il nostro desiderio, il desiderio come dono che ci fa umani e “parlanti” dal desiderio come legge demonica e distruttiva.


Ma non è facile sopportare il desiderio, perché si è sempre soli a sopportarlo. Quando gli amanti si chiedono l’un l’altro “mi ami?” è come se, non sopportando il desiderio come mancanza, si chiedessero continuamente di essere trasformati da “amanti” in “oggetti” d’amore. Desiderare è un compito davvero arduo. Chi desidera è superiore a chi è desiderato, ma chi desidera è sempre solo, anche in un rapporto d’amore infiammato dal massimo grado di coinvolgimento sentimentale. Questo significa che c’è sempre un prezzo molto alto da pagare per chi non vuol cedere sul suo desiderio. E questo prezzo è quello della «rinuncia al bene in nome del desiderio» (p. 257): questo è il fine che l’analisi persegue attraverso la “catarsi”, la “purificazione” del desiderio, spogliandolo da ogni passione immaginaria e da ogni sentimentalismo.

Non “cedere sul proprio desiderio” è esattamente il contrario del perseguire il godimento a tutti i costi. Questa massima etica analitica mira in ultima istanza a separare il desiderio dalla sua ingiunzione mortale, separandone il dono dalla sua legge demonica che ingiunge coattivamente a “godere”.

Per aggirare la legge del desiderio senza tradire il desiderio vi sono fondamentalmente due strade – se escludiamo quella della religione, dal momento che la modernità nasce con l’annuncio della “morte di Dio” – , vale a dire la strada della “sublimazione artistica” e quella, alla prima connessa, che potremmo provvisoriamente designare della “parola d’amore”.

Eliminando le incertezze freudiane riguardo al problema, «la formula lacaniana della sublimazione è questa: la sublimazione eleva un oggetto alla dignità della Cosa» (p. 126). Se ciò accomuna sia la religione che l’arte, è a quest’ultima che Lacan guarda con estremo interesse. Al centro di ogni opera d’arte che si rispetti c’è un “vuoto” intorno al quale l’opera “fa il giro”. Si tratta di quel vuoto incolmabile che il desiderio, seguendo la sua legge, impone distruttivamente di colmare. La sublimazione consiste allora in questo, che nell’opera d’arte la legge del desiderio viene “sospesa” (inibita alla meta) senza rimuovere il desiderio. L’arte mette “in figura” l’irrappresentabile, dà figura a questo vuoto, a questa “mancanza ad essere”, ma senza “suturarla”, senza “colmarla”. Attraverso una lunga analisi interpretativa della poesia dei trovatori, Lacan esemplifica la tesi secondo cui «è grazie al lavoro del significante che nella sublimazione viene posto il cerchio incantato che ci separa da das Ding, che ci permette di lambire il suo spazio senza lasciarci fagocitare dalla sua catturazione» (p. 131). In ultima istanza, così come gli autori sottolineano, «ciò che l’uomo chiede attraverso la sublimazione è di essere privato di qualcosa di reale» (p. 144), in cambio della simbolizzazione della mancanza. «L’elevazione dell’oggetto alla dignità della Cosa – scrivono Moroncini e Petrillo – avviene nella sublimazione grazie al gioco dei significanti […]. Nel sistema dell’amor cortese, dunque, l’inaccessibilità della Dama, il bene di cui si è privati, diventano concepibili in virtù della funzione simbolica esercitata da un sistema di significanti – tutto il gioco di significanti della casistica amorosa – grazie ai quali è possibile rappresentare il vuoto fondamentale […] la mancanza ad essere originaria che segna l’umano» (p. 144-145). Cedere un bene (la donna reale) per non cedere sul proprio desiderio, è questo quel che l’amor cortese ha teorizzato e i trovatori hanno cantato.

Oltre che nell’arte in generale, quindi, è in particolare nella poesia, nella poesia d’amore che Lacan sembra individuare la strategia principale per liberarsi dalle ingiunzioni distruttive del desiderio. All’amore e alla sua metaforica Lacan dedica, infatti, il seminario successivo a quello sull’etica, vale a dire quello sul “transfert” del 1960-61 (su cui vedi fondamentalmente il volume dello stesso Moroncini, Sull’amore. Jacques Lacan e il Simposio di Platone, Napoli, Cronopio, 2005). La dinamica del desiderio sembra qui trovare il suo sbocco nel dono della parola d’amore. La strada principale che può essere seguita per non “cedere sul proprio desiderio” e, al contempo, per liberarsi dalle sue ingiunzioni distruttive, sarebbe quella di “metaforizzare” l’oggetto d’amore, sarebbe quella di dare un significante alla “mancanza”. Per parafrasare una famosa affermazione di Dostoevskij, potremmo dire: una metafora ci salverà.


(Vincenzo Cuomo)












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