numero
7
KAINOS
2007
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RECENSIONI
François Jullien, Nutrire la vita. Senza aspirare alla felicità trad. it. di M. Porro, Milano, Cortina Editore, 2006, ISBN 88-6030-033-9, Euro 13,50
Nutrire è un verbo elementare, fondamentale. Descrive l’attività primaria in cui siamo coinvolti ancor prima di nascere. Tuttavia, ci ricorda Jullien, in questo suo stimolante saggio, quasi da subito in Occidente questo verbo fondamentale è scisso secondo due sensi, uno proprio, l’altro metaforico, il primo riguardante il nutrimento del corpo, l’altro riguardante il nutrimento dell’anima. La filosofia occidentale non può non leggere questo verbo che attraverso la grande codificazione che oppone il corpo all’anima. Ora, scrive Jullien, è proprio a tale opposizione che il concetto cinese di “nutrimento vitale” sfugge. Yang sheng, “nutrire la vita” non riguarda né (solo) il corpo né (solo) l’anima. Nutrire la vita significherà, in una prima fondamentale approssimazione, mantenersi in vita, sviluppandola e affinandola. Rispetto all’opposizione anima-corpo, il pensiero cinese pensa l’inseparatezza del processo vitale, che deve essere mantenuto e affinato, decantato. Il pensiero cinese, spiega Jullien, possiede infatti la nozione di stadio sottile, una sorta di stadio transitorio che la vita attraversa senza abbandonare il concreto ma allontanandosi progressivamente dalle pesantezze e dalle opacità di esso. Questo stadio sottile o quintessenziale è quel che fa “da ponte tra il concreto e lo spirituale, tra senso proprio e senso figurato” (p. 25). Come l’antico pensatore Zhuangzi chiarisce, nutrire la vita significa rafforzare in sé la vitalità: “impegnandomi sempre più a fondo nel processo di affrancamento-affinamento-decantazione […] sono al tempo stesso indotto a liberarmi da quei punti di fissazione, di blocco e di pesantezza, che fanno grossolanamente da schermo, costituiti da tutte le faccende del mondo rispetto al mio flusso e dinamismo interiore” (p. 25). Quindi, il nutrimento non è qui concepito come progresso, bensì come “rinnovamento” che non mira a nient’altro che a “mantenersi evolutivi”. La vita di per sé non ha senso, sfugge al Senso sotto il quale l’Occidente ha da sempre tentato di ridurla attraverso la problematica dell’esistenza (e della sua intrinseca progettualità). Ciò che Jullien invita a fare è una sorta di sdrammatizzazione dell’esistenza e questo può accadere solo quando non la si oppone alla vita biologica, ma la si concepisce in quanto vita. Non è sforzandosi di vivere bene e in salute, nell’assillo che questa possa venir meno, che la vita si nutre. Anzi, per il saggio taoista, è solo trascurando la vita stessa, compresa la nostra preoccupazione di longevità, che la nostra vitalità si rinnova. Questo apparente paradosso si scioglie facilmente se si pone mente al fatto che, per l’antica tradizione buddista e taoista, il rinnovamento vitale ha come condizione necessaria la circolazione di energia tra il dentro e il fuori, tra il corpo (che in occidente chiameremmo “proprio”) e gli altri corpi: “chi si abbarbica alla vita e ha in mente di continuo come ‘vivere di più’ esaurisce da solo, in se stesso, la fonte di vita. Ovvero, chi rifiuta con orrore l’idea della morte, della sua morte, e si sforza di respingerla, chiude così la sua vita all’alternanza e alla respirazione naturali, grazie alle quali in lui la vita continua a rinnovarsi” (p. 37). Vivere, sottolinea Jullien, non è “dell’ordine dell’intenzione ma dell’ordine del risultato” (p. 39). Nel senso che, sia che si tratti della longevità, sia che si tratti della gloria, l’effetto deve conseguire da sé e non deve essere ricercato in quanto tale: “lo sforzo fatto per imporre l’effetto è costoso di per sé e ostacola l’avvento sponte sua dell’effetto”(ivi). Il pensiero taoista non presuppone il grande codice occidentale che consiste nella distinzione tra corpo e anima. Non presuppone la nozione di “anima”, innanzitutto. È un pensiero senz’anima, se per anima s’intende un’entità unitaria suscettibile di un destino suo proprio. Gli antichi cinesi concepiscono una pluralità di anime, alcune delle quali, le più “sottili”, all’atto della morte vanno verso il cielo, mentre le altre, le più “pesanti”, vanno verso la terra. Piuttosto nel loro pensiero, e in particolare in quello di Zhuangzi, vi è l’idea di animazione, come processo di “affinamento” e di “decantazione”, grazie a cui l’individuo si “anima” e si affina, nutrendo la vita. Non concependo la nozione di anima come ente unitario (e tendenzialmente individuale), il pensiero taoista non pensa neanche il “corpo” secondo i parametri occidentali. Se l’anima non è concepita come entità, anche il corpo risulta intaccato nel suo monolitismo. Per tale ragione ciò che noi intendiamo con il concetto di corpo, “resta in cinese una nozione dispersa dalla configurazione variabile” (p. 74). In Zhuangzi la nozione di corpo è presente per così dire “a largo spettro”. Egli, al posto di dire “il mio corpo” utilizza un’espressione (solo in parte corrispondente) che significa “la mia forma attualizzata” (wu xing). La nozione di corpo appare così essa stessa (come quella di anima) “graduale”: “nella sua alternanza con la morte, la vita individuale è descritta come un andirivieni ‘dal non attualizzato alla forma attualizzata’ come ‘dalla forma attualizzata al non-attualizato’” (p. 75). Per tale ragione, secondo Zhuangzi, ciascun individuo non è più “un’anima/un corpo, ciascuno in un suo ambito distinto, ma più globalmente un’attualizzazione o formazione processuale, organica, ‘funzionale’, che si anima e si dispiega in proporzione alla decantazione e disopacizzazione” (p. 79), che opera in lui. È per tale ragione che i Cinesi hanno concepito la salvezza non come vita eterna ma come Lunga vita. Secondo Zhuangzi, “la vita dell’uomo è una concentrazione di soffio-energia (qi): dalla concentrazione risulta la vita, dalla sua dissoluzione risulta la morte” (p. 84). La saggezza, quindi, consisterà soltanto nel re-incitare, nel nutrire la vita individuale rendendola permeabile a quel flusso primordiale che, circolando tra le differenti attualizzazzioni, le fa vivere. La “forma attualizzata” che, nella filosofia occidentale, è percepita come “infondata” e fortemente problematica, secondo Jullien è, nel pensiero cinese, non problematica nella sua stessa “insensatezza”. Qual è la ragione di tale sdrammatizzazione dell’esistenza-vita? La ragione consiste, a suo dire, nello scarso valore in esso gioca la nozione di “scopo” e di “finalità”. Di tal questione centrale si occupa il nono capitolo del libro dedicato alla critica alla nozione di felicità. Il legame strutturale tra la nozione di felicità e quella di finalità, come attesta l’Etica a Nicomaco di Aristotele, è quello secondo cui la felicità è il bene sommo sul quale tutti sono d’accordo in quanto è un fine in sé e non è perseguito in vista di altro, come accade per tutti gli altri beni. Tuttavia, se, da Aristotele a Freud, tutto il pensiero occidentale è concorde nel considerare la felicità il fine supremo dell’esistenza umana, è anche solidamente convinto che tale fine o è irrealizzabile oppure può essere realizzato solo come raggiungimento provvisorio e discontinuo. Tanto che, secondo Freud, l’uomo, pur lamentandosi che il mondo e la civiltà si oppongano alla felicità, “senza osare confessarselo, non desidera la felicità a cui dichiara di tendere” (p. 118). L’idea della felicità ha nel pensiero occidentale un ruolo fondamentale, specie nell’età moderna (si pensi al nesso felicità-rivoluzione oppure al tema caratteristico del romanzo). Il pensiero cinese antico, invece, scrive Jullien, non è un pensiero della finalità ma un pensiero del processo: “un processo non mira a niente, non tende verso un fine che ne guidi lo svolgimento […], ma in virtù della sua regolazione si mantiene, prosegue – il processo continua” (p. 120). Nel pensiero cinese più antico, continua Jullien, si trova pure una nozione di felicità, ma questa è legata al rango, all’onore e alla prosperità, quindi è di natura fondamentalmente materiale. Ma non si trova quella nozione, tipicamente occidentale, che la concepisce, invece, come il compimento ultimo, lo scopo in sé dell’esistenza. È a questa nozione di felicità che Jullien oppone il pensiero taoista della processualità. Il processo, come già detto, non ha alcuno scopo né senso, perché esprime l’infinita circolazione vitale del soffio-energia. Adeguarsi al processo elimina ogni tensione derivante dal prefissarsi uno scopo. Anzi, arriva ad affermare Jullien, “è lo scopo stesso che crea tensione” e, quindi, quello stato di infelicità che produce l’aspettativa di una felicità strutturalmente irrealizzabile. Fin qui Jullien. Ora, in margine a questo libro così a suo modo provocatorio, vorrei esporre alcuni brevi rilievi critici. Il primo riguarda proprio la questione della felicità. Che l’intero pensiero occidentale sia rimasto ancorato, così come Jullien afferma, non solo all’idea di “finalità” ma al nesso tra questa e la “felicità”, è, infatti, una tesi solo in parte condivisibile, o è comunque una generalizzazione che taglia almeno fuori qualcuno. Ad esempio Spinoza, rispetto al quale Jullien avrebbe potuto almeno sottolinearne l’eccentricità all’interno della sua ricostruzione. E, attraverso Spinoza, avrebbe potuto diversificare, restando ancora in occidente, il pensiero della felicità da quello, ben diverso, della gioia, che non è connesso, come il primo alla nozione di “finalità”, avendo come sua condizione proprio il venir meno di ogni “tendere” e, in qualche modo, di ogni “strategia di senso”. Tuttavia, a mio avviso, il passaggio più problematico del libro di Jullien è un altro. Abbandonare ogni progetto, ogni scopo, ogni finalità, è questa la strada “taoista” che Jullien indica? E, a quale scopo? Forse ad uno scopo “politico”? Jullien non solo lo lascia intendere, ma lo dichiara apertamente (a p. 18 e nel capitolo conclusivo). Solo che a questo punto la sua proposta diviene problematica se non decisamente aporetica, e non solo perché, in tal modo, surrettiziamente lo “scopo” ricompare dopo essere stato rifiutato. C’è qualcosa in più. Infatti, come egli stesso lucidamente argomenta, proprio a causa della sua (impolitica?) scelta di non scegliere, il saggio taoista è incapace di “prendere la parola” – potremmo dire, con altre parole, è incapace di parrhesia –, è incapace di opporre una parola critica a quella del potere. Per tale ragione, quindi, è incapace di schierarsi contro il potere, finendo ineluttabilmente per soccombervi. L’inerme letterato cinese si è sempre così trovato dinanzi all’alternativa “tra l’impegno al servizio del principe e il ripiegamento sullo sviluppo personale; non si è costruito alcun diritto – di difesa, di contraddizione, e ancor meno di critica” (p. 178). Il letterato cinese non è capace, come il filosofo greco, di antilogia. Per tale ragione non può mettere in discussione i rapporti di forza e di dominio. L’unica risorsa che gli rimane consiste nell’invocare “ancora l’Armonia” (p. 180). Ora, una volta evidenziati i limiti “politici” di tale posizione, perché e in ragione di cosa Jullien tiene a dire che il suo libro racchiuda una proposta politica? Il suo discorso sembra chiudersi in un cul de sac aporetico. Salvo che egli non voglia prendere sul serio – con tutti i rischi, e forse le inaggirabili contraddizioni, interni dell’impolitica – la via indicata dal saggio taoista, consistente nell’abbandono, con l’ossessione dello “scopo” e del “senso”, anche dell’ossessione del Soggetto e dell’Altro (soggetto). Che questa sia la strada indicata da Jullien, lo si evince anche dalla ripetuta citazione dell’antica Arte della guerra cinese. In tale antico testo è detto che “la vera difesa consiste nel non dover combattere e, per questo, non essere esposti ad essere attaccati: rendendosi non il più forte, ma inavvicinabile; e, essendo la mia reattività verso l’altro ad avermi reso accessibile all’aggressione dell’altro, de-reagendo dentro di me e diventando ‘gallo di legno’, privo con ciò l’altro della sua reattività e di colpo lo neutralizzo. Non solo egli viene disarmato dalla mia non-risposta e ne risulta paralizzato, ma in più io mi risparmio” (p. 57).
(Vincenzo Cuomo)
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