numero 7
KAINOS
Recensioni

2007

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fame / sazietà


RECENSIONI

E rimetti a noi la nostra fame.

Recensione a Alessandra Arachi, Briciole. Storia di un’anoressia, Milano, Feltrinelli 1994, ISBN 978-88-07-81255-2 e Camille de Peretti, Magra da morire. Come sono uscita dalla bulimia-anoressia, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 2006, ISBN 88-04-54966-1

arachi de peretti


«Dopo gli dei, le rivoluzioni e i mercati finanziari, il corpo diventa il criterio di verità. Solo il corpo dura, solo il corpo permane. Riponiamo in lui tutte le nostre speranze e da esso ci aspettiamo una realtà che altrimenti ci sfugge. Il corpo è diventato il centro di tutti i poteri, l’oggetto di tutte le nostre aspettative, e persino quelle di salvezza. Noi siamo questi esseri strani, questi sconosciuti, gli uomini del corpo». Queste parole di Hervè Juvin, autore di Il trionfo del corpo (edizioni Egea, 2006), potrebbero, in nuce, essere il commento del lettore comune (o impreparato) ai romanzi di Alessandra Arachi e Camille de Peretti.

Oppure, ancora, «combattere la natura, la mortalità, il decadimento fisico, sembra essere diventata l'ossessione della società occidentale contemporanea, popolata da corpi imperfettibili e immortali esasperati dal comune senso dell’inadeguatezza. La perfezione sembra paradossalmente coincidere con la malattia e la sofferenza». Anche il comunicato stampa della mostra Dangerous Beauty, in corso al Palazzo della Arti di Napoli, sembra fornirci una interessante chiave di lettura ai romanzi proposti.

Il corpo trasformato in ossessione, in oggetto, in animale, in robot. Un corpo malato o morto. Un corpo a digiuno.

Sì, perché la lettura dei testi – una lettura veloce, raccapricciante – potrebbe essere paragonata ad un minuzioso prender nota di orari e calorie, di luoghi pubblici e bagni privati, di rabbia e insoddisfazione.

Eppure, anche il lettore meno accorto, avvertirà la stessa nausea raccontata nei romanzi.

Elena, protagonista di Briciole, ci mette subito in guardia: la sua è una storia da manuale «per trovarne una simile basta aprire un libro di medicina moderna che studia la mente e scopre che è possibile lasciarsi morire semplicemente perché il cibo diventa un nemico». (p. 7)

Il cibo diventa l’estraneo, l’altro dal quale bisogna liberarsi. È quel di più, quel superfluo che sporca e inganna il corpo rendendolo sazio. Ma il corpo è «ingrato» (p. 26) – così lo definisce Camille, autrice e protagonista del romanzo Magra da morire – e lo si ignora con il digiuno.

Un’astinenza forzata e dal sapore ascetico, un’insana pratica della resistenza fa del corpo un trionfante scheletro: perché «soltanto scheletrica pensavo che avrei potuto avere il mondo ai miei piedi» (Briciole, p. 7).

Umberto Galimberti definisce il corpo contemporaneo come un’ ‘istanza gloriosa’, come quel santuario ideologico in cui l’uomo consuma gli ultimi resti della sua alienazione: «oggi non abitiamo più il nostro corpo, ma, al pari degli schizofrenici, lo percepiamo come altro da noi, come qualcosa che dobbiamo costruire per renderlo il più possibile corrispondente ai canoni di salute, forza, bellezza che la nostra cultura diffonde perché si possa essere accettati e per autoaccettarsi».

E comincia il rituale dello svuotamento, la nevrosi del controllare il peso ad ogni pasto ingoiato e rifiutato, perché «per fare la dieta, ci vuole una bilancia. Per diventare bulimica, ci vuole una bilancia molto affidabile, preferibilmente elettronica, che indichi le variazioni corporee con l’approssimazione di cento grammi, altrimenti non c’è gusto» (Magra da morire, p. 29).

Non c’è gusto se non nella minuzia, nella celebrazione di una perversione reiterata fino ad integrarla nella normalità: «in meno di un mese il mio cervello riuscì a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri, l’olio in un accumulo irrecuperabile di grassi. Diffidavo di qualsiasi cosa commestibile, ma riservavo al cibo tutti i pensieri della mia giornata» (Briciole, p. 11).

Il corpo diventa la misura del sacrificio e calcola l’espiazione delle sue colpe in grammi di vomito.

«Comincia con tre polpette al sugo questa storia. Tre polpette di carne di vitello vomitate nel bagno di casa con la porta spalancata» (Briciole, p. 7).

«Vomito. In tutti i posti possibili e immaginabili. A più non posso. Dappertutto, qualsiasi cosa, in qualunque momento» (Magra da morire, p. 9).

Non più il corpo come veicolo, ma come ostacolo per essere al mondo, se non corrisponde ai criteri fissati dalla moda per essere guardati, appetiti e desiderati. E tutto si ferma lì, nella clausura di un autismo narcisistico che non approda alla comunicazione, ma alla soddisfazione di essere oggetto di un desiderio che, ripiegandosi su se stesso, celebra la sua perversione.

«Ti sembra tutto inutile, vero? Tu ti senti inutile e goffa perchè i pantaloni non ti scivolano via lungo le gambe come ad un manichino, mentre le ragazze che hanno la pancia piatta vengono ricoperte di attenzioni e sorrisi anche se non sanno mettere due parole in croce e ridono sempre senza motivo» (Briciole, p. 48).

È il corpo che ruba il posto dell’anima. È il corpo che tiene la scena ma, paradossalmente, non è oggetto di cura, riguardo, premura. Viene schernito, affamato e ignorato.

Elena e Camille, protagoniste dei due romanzi, non cercano la perfezione del corpo, desiderano altresì essere abbandonate dalla preoccupazione di un corpo esigente.

«Non volevo la perfezione, non volevo avere qualche centimetro in più o in meno di girovita o di seno, volevo solo essere scontenta, detestare quei centimetri, quali che fossero» (Magra da morire, p. 28).

«Svanire piano piano dentro ai vestiti mi avrebbe allontanato dalla realtà. Ogni giorno sempre di più» (Briciole, p. 13).

Si desidera una completa separazione dal proprio corpo fino a renderlo strumento di cui disporre senza ostacoli o resistenze. Questo dominio sul corpo è il nuovo stadio della salute.

E poca differenza corre tra il voler digiunare e il volersi abbuffare: entrambi i meccanismi umiliano il corpo che vuoto o svuotato risulta sconfitto per separare la realtà dallo spazio che il corpo occupa nel mondo.

«La bulimica è grassa perché mangia in modo spaventoso, mangia in fretta, sempre, senza riflettere mai, inghiottendo grossi bocconi di qualsiasi cosa purché le riempia la bocca. […] L’atto di mangiare non è stimolato dal bisogno fisico e naturale di nutrirsi, ma dal desiderio puramente mentale di “riempirsi”, e questo per varie e svariate ragioni che non si sa spiegare molto bene.

L’anoressica è magra perché ha smesso di mangiare. E se ha smesso di mangiare è perché non ha più fame, mai più. Il suo corpo, pensa, non ha più bisogno di niente» (Magra da morire, p. 39).

«La mia nuova follia aveva abbandonato l’anticamera ed era diventata una malattia vera e propria che la scienza medica chiama bulimia. Per la psichiatria è bulimico chi mangia anche senza appetito e non smette fino a quando non esaurisce lo spazio nello stomaco. Per la psichiatria le anoressiche bulimiche mangiano fino a scoppiare e vomitano fino a soffocare. Per me mangiare e vomitare era diventato l’unico passatempo delle giornate» (Briciole, pp. 29-30).

La nevrotica aspirazione al ‘non aver più fame’ o ‘al non smettere di aver fame’ sembra indicare uno smodato desiderio di controllo sulle pulsioni naturali, quelle che banalmente (o quotidianamente) avvertiamo e soddisfiamo. Il rendere innaturale la fame inverte i parametri della vita trasformandola in sopravvivenza. Anche le emozioni vengono ricalcolate:

«nelle maglie del mio pullover marroncino incatenavo l’aria fresca di una corsa in motorino e il sapore dei baci di nascosto dietro al cancello del liceo. Ed erano quelle catene il punto di forza della mia follia. Più erano strette e più mi permettevano di controllare quelle che consideravo residui di emozioni infantili» (Briciole, p. 37).

Non mi soffermerò sulla facilità con la quale nei due romanzi viene utilizzato il termine follia: che i disturbi alimentari siano una malattia sembra (solo ultimamente) assodato, che una nevrosi venga raccontata come pazzia, sembra una leggerezza. Ma è un lusso che la letteratura può permettersi.

Zigmunt Bauman sottolinea in un suo saggio quanto «l’attenzione verso il corpo si è trasformata in una preoccupazione assoluta e nel più ambito passatempo della nostra epoca»; ma, può un’attenzione giustificare l’attesa gioiosa della nausea, può insegnarci la perizia nel premere la lingua con l’indice e il medio per procurarsi il vomito? No, nessuna definizione o pensiero filosofico sanno spiegare quelle tagliatelle vomitate che «al chiaro di luna rilucevano sull’asfalto come tanti vermi bianchi. Non riuscivo più a fermarmi. Non ero mai stata così vicina al mio corpo, non l’avevo mai capito così bene» (Magra da morire, p. 111).

Ma di quale corpo stiamo parlando?

Paul Valéry distingue tre diverse idee del corpo. La prima si risolve nel sentimento della nostra presenza. Il secondo corpo è l’immagine che di lui ci rimandano gli specchi, i ritratti, le fotografie, i film. Esso è forma ed è quindi connesso con le arti visuali. Il terzo corpo è privo di qualsiasi unità. È il corpo fatto a pezzi dai ferri dell’anatomia. Questa idea del corpo sembra il risultato della tecnica chirurgica moderna. Esiste tuttavia per Valéry l’idea di un quarto corpo, che si potrebbe chiamare indifferentemente corpo reale o corpo immaginario. Esso – per dirla con Mario Perniola – è una costruzione concettuale non dissimile dalle nozioni elaborate dai fisici che spesso sono aldilà o aldiquà dei nostri sensi, della nostra immaginazione e perfino della nostra capacità di comprendere. Il modello concettuale che suggerisce l’idea di un quarto corpo non è il corpo vivente, ma piuttosto la cosa, quindi non un oggetto, che implica l’esistenza di un soggetto (e perciò ci fa ricadere nella prima idea del corpo inteso come strumento dell’anima), ma proprio l’esperienza di una cosa che sente in modo impersonale.

Oggi il corpo non ha definizioni, ma diffamazioni.

«Non è facile spiegare che sensazione provassi. Per me avere dodici chili in più all’improvviso significava la perdita dell’identità, la paura della vita normale, il terrore che una volta grassa nessuno si sarebbe più accorto e curato di me» (Briciole, p. 60).

Il corpo svuotato è misura d’identità personale. Il cibo ingerito e conservato diventa peso, diventa visibile, diventa spazio dilatato e impersonale che occupa il mondo.

«È tanto contraddittorio volersi sbarazzare del proprio corpo e amare la vita?» (Magra da morire, p. 153).

A questa domanda non c’è risposta o, meglio, io non conosco risposta.

Scelgo di non dettagliare le modalità di guarigione che le due protagoniste hanno scelto di seguire per salvarsi: ogni via è la strada migliore per sé stessi.

Al prozac di Camille sta il rifiuto delle sedute dallo psicanalista di Elena, all’amore dell’una il matrimonio dell’altra per avere un bagno tutto suo in cui poter vomitare, ad una madre troppo presente un amico che muore.

La conclusione nelle parole di Camille: «la storia è questa. La storia di una ragazza arrabbiata che per questo si provoca il vomito. La storia di una principessa che si infligge delle mortificazioni fisiche per corrispondere ai criteri di regalità che si è autoimposta, al riflesso che le rimandano gli occhi di sua madre quando si specchia. Il vomito per esprimersi senza tradire i suoi sogni, per non vedere che li tradisce. […] Oggi vomito, di tanto in tanto, vomito ancora, ma non sono triste e non sono una vittima. […] Non sono guarita, non si guarisce mai da quella collera. […] Sono una persona normalmente malata» (Magra da morire, pp. 171-172).

E questa è una verità.



(Sara Matetich)











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