numero 7
KAINOS
Emergenze

2007

sommarioredazionein calendario : mailing list

fame / sazietà


EMERGENZE


La fame degli altri e l’altra trascendenza.

Introduzione a
Secolarizzazione e fame di Emmanuel Levinas

di Gabriella Baptist




Secondo il quadro di comprensione dell’umano disegnato dal pensiero greco e ancora all’opera nella filosofia moderna, nel pensiero idealista e perfino nelle ipotesi di critica e distruzione della tradizione, al centro della scena si trova sempre quel soggetto razionale che certamente guarda soprattutto e innanzitutto in alto e in avanti – al cielo di riferimento sopra di sé e al progresso che luminosamente lo attende –, ma che è capace di recuperare anche provenienze e fondamenti, metabolizzando ciò che gli resta oscuramente alle spalle e al fondo come componenti da mettere bene a frutto o perlomeno da tenere efficacemente sotto controllo. Così anche il basso e il retro possono ben rientrare nel gioco delle circolarità rassicuranti, magari razionalizzati come animalità ragionevole o come comprensibile contingenza. La brama è allora solo un elemento inferiore nel mito platonico dell’altezza, il risvolto meno eccellente di una mantenuta centratura nell’autocontrollo di un cosmo ordinato in cui tutti i conti tornano, e anche la fame è quella che aguzza l’ingegno, un’astuzia che consente le magnifiche conquiste della tecnica per sottomettere il mondo e la natura, magari dopo aver smascherato le divinità e le altezze come eccellenze a portata di mano. Messer Gaster, la figura rabelaisiana che in Gargantua e Pantagruel impersonifica le istanze e le urgenze dello stomaco, diventa nella modernità realista e tendenzialmente già materialista un Prometeo solo un po’ più volgare e un po’ meno eroico, ma altrettanto capace di rubare il fuoco sacro al cielo per il profitto e il vantaggio degli uomini: “primo maestro d’arti del mondo”, agile nella predazione, accorto nello stoccaggio, sottile nel commercio con gli altri, lungimirante nella gestione dei guadagni.

Ma di quale bramosia, di quale fame stiamo parlando? Sembrerebbe trattarsi, a leggere i primi paragrafi della riflessione di Levinas su “Secolarizzazione e fame”, di quel ritmico alternarsi per cui la soddisfazione dell’appetito abbisogna pure di un qualche condimento che la renda più desiderabile e gradevole, di quella fame che è sostanzialmente in genere la mia (o la nostra), quella fame che alimento, trattengo, controllo, strutturo, organizzo, sublimo, che sia poi governata dall’aristocratica scintilla dell’intelligenza o dalla più popolana spinta del bisogno. Rispetto ad essa il sommo è un’idolatria di spazi irraggiungibili, ma avvicinabili da uno sguardo misuratore che li riempie di dei e numi tutelari, di sovrani e reggitori, poi ‘secolarizzati’ dalla scienza e dall’ontologia in regole, leggi, categorie, identificazioni. Ma è comunque il regno dell’identico essere che governa l’alto e il basso, il movimento e la quiete, senza che l’ombra possa dirsi davvero tale, senza che l’altezza mantenga la sua luce.

Nell’ultimo paragrafo della sua riflessione Levinas capovolge però radicalmente la prospettiva, dopo una breve riflessione sulla tecnica, niente affatto liquidata nella facile retorica che dimentica le urgenze concrete ed anzi lodata nella sua capacità di smascheramento e demistificazione delle idolatrie: “Si sono misurate le profondità della fame?” Non la fame qualsiasi o la fame che va e che viene, che sta in basso ma che saprebbe, volendo, innalzarci, piuttosto la fame come tale, la fame profonda, la fame del mondo e nel mondo, la fame al fondo e nel profondo di quando non resta nient’altro ed anzi tutto vacilla, perfino la speranza ingenua di farcela: questa è la fame da interrogare. Che cos’è davvero la fame?

La fame è per Levinas il bisogno e la privazione della materia stessa, la perdita evidente di un cosmo ordinato e funzionante, la disperazione capace di vedere la miseria del mondo e del sé, la mendicità dell’esistenza al di qua e oltre la ‘saga’ dell’essere, con le sue ostensioni e rivelazioni, secolarizzate o meno, è la fame che, nella franchezza e nudità in cui si presentano le cose, diventa bagliore di un’altra verità e di un’altra certezza, quella per cui “nulla può ingannare la fame dell’altro”. Ecco allora lo smascheramento dell’adorazione del Medesimo, la secolarizzazione ulteriore che la fame apporta alla superstizione dimezzata e ambigua della modernità, che continua però indefessa a idolatrare il soggetto e i suoi progetti: la fame che ci interroga è innanzitutto quella dell’altro, di cui sono responsabile e tenuto a dar conto. Anche l’altezza di questo sfondamento sarà un’altra: non un cielo più o meno razionale da contemplare e in cui riflettere i miei appagamenti e le mie certezze, ma altro che non saprò dimostrare e verso cui continuerò a dirigermi nella miseria e nell’indigenza delle cose, che nella fame dell’altro mi insegnano anche la fame di altro.