numero
7
KAINOS
2007
sommario : redazione : in calendario : mailing list
Editoriale
E il corpo è l’uomo; perché (lasciando tutto il resto) la magnanimità,
il coraggio, le passioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tutto ciò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quello, non ha luogo.
Giacomo Leopardi
(dal Dialogo di Tristano e di un amico)
Il tema fame-sazietà è un tema che appare “duro” e refrattario ai tentativi di chiarificazione filosofica. Eppure la filosofia, da Platone a Spinoza, da Leopardi a Feuerbach, da Nietzsche a Foucault, ha sempre fatto i conti con il cibo, inteso sia come bisogno primario del corpo, sia come metafora di ciò che nutre l’uomo. L’alimentazione degli esseri umani, contrariamente al senso comune, è una questione di rilevante spessore filosofico, perché investe non solo il legame tra anima e corpo, spirito e carne, ma anche quello dell’uomo col mondo. È quindi intorno a questo nucleo e a questo nesso, fame-sazietà, non altrove, che prende avvio la complessità del soggetto umano, la sua coerenza, la sua pertinenza e adattabilità al mondo. Si tratta di una coimplicanza profonda che resiste ad ogni stereotipata immagine dualistica dell’uomo, un’immagine elaborata e sovrapposta alla realtà esperienziale lungo tutti i secoli della civiltà occidentale, ma in specie durante quelli della modernità. Come già Spinoza e Feuerbach hanno fatto polemicamente notare, non può esistere l’uomo come soggetto pensante disincarnato ed espropriato dal peso della propria corporeità, ma non si può neanche concepire cartesianamente il corpo umano come una macchina che si nutre attingendo all’ambiente in maniera automatica. L’essere umano, nella sua fisicità e nella sua psichicità, manipola, media, trasforma tutte le cose e tra queste anche il cibo, materia della sua sopravvivenza e della sua dipendenza. Prima di quello della bocca, c’è il lavoro delle mani, c’è l’atto del parlare e dell’agire, c’è una prassi trasformativa del nutrimento: c’è la mediazione, avrebbe detto Hegel. Tuttavia l’esperienza del cibo non è sempre traducibile in categorie dialettizzanti: nei fenomeni della fame e della sazietà, ciò che ci appare immediatamente separabile – il corpo versus il simbolico – diviene ambiguamente inestricabile, e perciò insidioso. Tali fenomeni, infatti, sembrano situarsi in una “zona di indifferenza” tra anima e corpo, tra simbolo e cosa vivente; ma si trovano anche al di là dei recinti accademici della filosofia: in un territorio saccheggiato sia dall’antropologia che dalla medicina, sia dall’etnologia che dall’economia politica. Non sembra esserci, in senso proprio, una meta-fisica della fame e, probabilmente, neanche una psico-logia della fame. È difficile parlare di fame o di sazietà senza scontrarsi con una particolare difficoltà di “trasporto” – sia letteralmente metaforico, traduttivo, che, più sottilmente, emotivo. È difficile fare i conti con un’opacità, con un’ottusità ma anche con l’iper-concretezza di un’esperienza che non può lasciarci indifferenti e neutrali proprio perchè è innanzitutto, se non fondamentalmente corporea. C’è una refrattarietà quasi ansiogena della fame a farsi trasportare nella diafanità del concetto, perchè c’è una refrattarietà della fame a farsi “trasportare”: refrattarietà al methapherein, alla metaforizzazione stessa, come alla formalizzazione asettica della pluralità. I corpi hanno fame. I corpi sono sazi. Non sembra possibile “metaforizzare” questa disseminazione, questa differenza concreta, trasponendola nel gioco del simbolico. Anche quando, ad esempio nell’anoressia-bulimia, la fame non è più semplicemente biologica (sempre che possa mai esserlo “semplicemente”), essa, tutt’al più, diviene un corpo metaforizzato, un corpo nel quale la metafora è ingoiata o espulsa, mai “parlata”, simbolizzata attraverso un linguaggio, e perciò così devastante. Certo, l’opposizione tra il divorare la metafora e l’espellerla può essere riportata comunque al gioco simbolico, ad un simbolismo “elementare”; i corpi, si dice, “parlano” comunque, al di là delle intenzioni coscienti dei soggetti. Ma in tal modo non si rischia di misconoscere quell’insorgenza di non-senso, di “chiusura al senso” e, quindi, al simbolo, che i corpi, affamati o sazi, degli anoressici o dei bulimici, dei consumatori occidentali o dei neonati africani, attestano? Fino a che punto la tradizionale strategia antropo-logica e psico-logica, la strategia del logos, funziona rispetto alla loro “domanda”, o alla loro nausea di cibo? Questioni aperte e ineludibili su cui occorre oggi, più che mai, una riflessione, anche perchè la fame è (oggi più che mai) mondiale. Il mondo ha e avrà fame e sete, visto che le risorse cominciano a scarseggiare (a partire proprio dall’acqua). La verità extra-logica del nostro mondo, delle sue forme e delle sue strutture sociali, delle sue istituzioni politiche e della sua stessa sopravvivenza resta, per così dire, legata alle prioritarie questioni della fame e della sete. Ed anche in quest’ambito siamo ricondotti al proliferare opaco dei corpi e, per dirla con Nancy, al loro scarto areale (i corpi sono estesi, sono-hanno un’area), al loro essere partes extra partes. Qui si apre, dunque, l’immenso intreccio di problemi che animano l’attuale orizzonte della bio-politica (un orizzonte dischiuso da Foucault sia nel senso dell’attualizzazione, appunto, che in quello della problematizzazione), soprattutto perché le “forme di vita” occidentali sono sostenute dalla fame del mondo. Il mondo che ha fame è, infatti, anche produttivo di plus-valore, è anche produttivo di ricchezza (in particolare per l’Occidente), ma lo è di un plus-valore, di una ricchezza de-privati della loro “creatività immateriale”, rimasta, quasi esclusivamente, nel mondo ‘ricco’. La geografia della fame tende quasi a sovrapporsi alla geografia delle cosiddette “zone industriali di esportazione”, zone de-nazionalizzate in cui masse di forza-lavoro producono immense quantità di merci anonime, prive di marchi e di qualità, ma per ciò stesso utili al riprodursi sistematico dell’esclusione: fame o sazietà. Le zone di privazione del cibo tendono sempre più drammaticamente ad essere zone di privazione dello “spirito”. Così, anche sul versante economico e bio-politico si ripropone, in tutta la sua problematicità, la coimplicanza tra corpo e spirito, tra fame del corpo e privazione simbolica. Il presente numero di Kainos cercherà di corrispondere a tali questioni aprendo quattro diverse aree di riflessione: 1) un’area propriamente teoretica, in cui saranno posti in discussione i fondamenti e le condizioni di una possibile simbolica della fame e della sazietà; 2) un’area etno-antropologica in cui saranno criticamente re-interpretati i principali approcci culturalistici alla tematica del nutrimento; 3) un’area medico-psichiatrica in cui saranno valutati gli studi più recenti sui fenomeni dell’anoressia e della bulimia, e più in generale sui disturbi dell’alimentazione nel mondo occidentale; 4) un’area economico-biopolitica in cui saranno affrontati, in un’ottica non convenzionale, i nessi tra la geografia della fame e la geografia della ricchezza. |