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1. Un dubbio La mia riflessione prende le mosse da quell’affermazione di Nietzsche, ormai talmente risaputa da essere quasi un luogo comune, per la quale il titolo del suo libro Umano, Troppo Umano significava “dove voi vedete cose ideali, io vedo – cose umane, ahi, troppo umane!” 1. Affermazione che, in fin dei conti – e lo stesso Nietzsche non credo l’avrebbe contestato – non è che un ampliamento della concezione tradizionale di Feuerbach per il quale la teologia non era che un’antropologia. Il semplicismo della battaglia di Nietzsche contro la metafisica e la religione era sicuramente al suo tempo giustificato dalle esigenze polemiche. Ma, seguendo in ciò il dubbio sviluppato da Giorgio Colli in Dopo Nietzsche, in un certo senso è oggi obsoleto, anche per l’ormai avvenuto indebolimento (concettuale, anche se purtroppo non politico) dei bersagli, soprattutto religiosi, contro cui si scagliava. Per cui ritengo oggi possibile, ed opportuna, una messa in discussione di quello schematismo; ed in complesso di tutte quelle impostazioni che tendono a dare, delle esperienze del religioso e del sacro, interpretazioni generalmente “umanistiche”, che le riconducano solamente a concrete radici umane, materiali-economiche, psicologiche o politiche, volontà di potenza, proiezioni o lotte di classi che siano. In sintesi, le note che seguono nascono dalla mia insoddisfazione per una spiegazione tutta e soltanto sociologica del sacro. 2 . Il “sacro” nel pensiero di Renè Girard Prima di procedere ad una differente problematizzazione, occorre fare brevemente i conti con quella che ritengo sia la più significativa ripresa, nel nostro secolo, delle teorie umanistiche sul sacro: quella operata da Renè Girard, in una prospettiva che vorrebbe essere radicalmente inedita, ma che finisce per essere molto convenzionale. Se è vero, come in maniera convincente sostiene Gianni Vattimo, che non è altro che “una teoria del sacro fondata sul significato sociale di questo fenomeno”2, in continuazione di quella tradizione di pensiero ottocentesca che risale ad émile Durkheim. Nella sua opera più nota, La Violenza e il sacro, Girard in sostanza sostiene che il sacro altro non sia che il misconoscimento e al tempo stesso la maschera della violenza originaria e fondatrice alla base delle società umane. Girard vuole “individuare, dietro ad atti religiosi…un progetto perfettamente intelligibile”.3 Ritiene che i riti plachino forze malefiche, la cui natura sfugge perché “tali forze malefiche provengono dalla comunità stessa”.4 Vuole costruire una teoria dei miti e dei rituali, “vale a dire del religioso nel suo insieme”, attribuendo al religioso “un’origine reale”5. Il pensiero religioso, per Girard, ritorna continuamente “all’ultima parola della violenza”, spostandola sul piano del sacro, per “prevenire qualsiasi ricaduta della violenza trascendente” nella società6. Il religioso sposta e nasconde nella dimensione sacra quella violenza che la comunità non potrebbe reggere se la riconoscesse nella sua origine umana: “il misconoscimento costituisce una dimensione fondamentale del religioso”7. In ultima analisi, la religione opera per Girard con lo stesso spostamento già individuato da Feuerbach, ma invertendone curiosamente i valori: mentre per l’autore de L’essenza della religione sulla divinità si proiettano tutti i valori positivi che l’uomo non riesce a realizzare, per Girard “la genesi del dio si effettua per il tramite della violenza unanime”8, e sul trascendente si scarica la responsabilità di tutta quella violenza concreta che la comunità umana non vuole più accettare. Il sacro “disumanizza la violenza, sottrae all’uomo la sua violenza al fine di proteggerlo da essa, facendone una minaccia trascendente e sempre presente che esige di essere placata da riti appropriati…pensare religiosamente, è pensare il destino della città in funzione di quella violenza che domina l’uomo…è quindi pensare quella violenza come sovrumana, per tenerla a distanza”9. In sintesi, il sacro strappa agli uomini la loro violenza e la divinizza completamente: per Girard “il processo sacralizzante dissimula all’uomo l’umanità della sua violenza“10. Questo modello interpretativo, decisamente razionalistico e sociologico, si espone a molte critiche che qui posso solo ricordare. Volendo spiegare, come è esplicito progetto dell’autore, con un unico criterio tutti i fenomeni collegati alla sacralità (dalla tragedia al mito, dalla maschera alla festa alla possessione), si riduce ad essere un modello di grande potenza esplicativa “in superficie” ma ben poco profondo, perché annulla tutte le distinzioni. E finisce col diventare, proprio per la pretesa universalità, molto generico, una specie di chiave passe-partout che, come la sessualità nella vulgata freudiana, spiega tutto e spiega nulla. Come tutte le forme di riduzionismo, il modello di Girard riconduce il sacro ad una sola radice, ma ovviamente ignora e non riesce a spiegare l’irriducibile. Se si vuole, Girard è lo stereotipo del maestro del sospetto, bensì privo, per l’univocità tirannica del suo schema, della flessibilità e ricchezza interpretativa dei suoi predecessori. Ma, per quanto riguarda il problema che qui mi interessa, il limite più evidente del modello di Girard è una mancata, netta distinzione, terminologica e concettuale, fra religioso e sacro. Per tutta la durata del libro si oscilla continuamente fra i due termini, usati disinvoltamente come interscambiabili. Il titolo stesso lo dichiara, tematizzando la relazione fra sacro e violenza, per poi subito introdurre l’analisi di atti e miti religiosi peculiari. In un certo senso, si potrebbe intendere che per Girard il sacro sia la dimensione apparentemente trascendente dislocata dal pensiero e dai riti religiosi sociali quali il sacrificio, ma questa gerarchizzazione non salva Girard dalla vaghezza della sinonimicità. Soprattutto, perché l’autore pensa i fenomeni religiosi ed il piano della sacralità come appartenenti allo stesso campo, sia semantico che genetico, e li riconduce all’unica comune origine della violenza umana. Se la mancata distinzione fra sacro e religioso spinge Girard ad appiattirne tutta l’esperienza su di un fondamento ahi troppo umano, cercherò dunque di mostrare come una più adeguata differenziazione ne permetta una visione meno riduttiva. 3 . L’ambivalenza del sacro Il punto di partenza per una comprensione meno restrittiva del sacro sono le riflessioni di Rudolf Otto, in particolare l’opera appunto intitolata Il sacro. In essa egli sviluppa una concezione dell’esperienza del divino che ne mette in luce la duplicità irrimediabile, fra razionale ed irrazionale, fra spiegabile ed inspiegabile. “Non bisogna credere che i predicati razionali […] possano esaurire l’esperienza del divino”11. L’esperienza del sacro è dominata dall’ambivalente presenza degli aspetti dell’affascinante e del terrificante, che la pongono a cavallo del piano del dicibile e dell’indicibile, dell’arreton, l’ineffabile inaccessibile alla comprensione concettuale, e dello sforzo comunque di dirlo: “Poiché pure in qualche modo occorre comprenderlo: ché altrimenti non sarebbe, in generale, possibile poterne dire qualche cosa. In fondo anche la mistica l’intende così, pur chiamandolo arreton, perché altrimenti non potrebbe consistere che nel silenzio, mentre la mistica è quasi sempre stata molto eloquente”12. Questa ambivalenza fra fascino e mysterium tremendum corrisponde in sostanza al sublime kantiano, quello per cui l’uomo esperimenta il sentimento del contrario e verifica la compresenza dell’illimitato e della propria capacità di confrontarsi con esso. Solo la comprensione di questo duplice piano permette di sottrarsi alle secche di quel razionalismo sociologico che abbiamo visto dominare lo sforzo integralmente esplicativo di Girard. Come afferma Otto, “Questa tendenza a razionalizzare predomina ancora, e non solo nella teologia, ma anche in generale nelle ricerche religiose, fino in fondo. Anche le nostre indagini sui miti, come lo studio delle religioni dei primitivi, e i tentativi di ricostruzione delle origini e delle cause prime delle religioni soggiacciono a questa tendenza [...]. Si presuppongono sempre concezioni e idee, specialmente le cosiddette “naturali” che appartengono al fondo comune del pensiero umano”.13 Ma non si creda che il rifiuto di ricondurre il sacro ad una dimensione univoca sia prerogativa di ricercatori animati da forti motivazioni religiose come Rudolf Otto. Anche antropologi pienamente laici ne hanno sottolineato l’ambivalenza, come ad esempio Van Gennep: “Tutto ciò mi induce a trattare […]ciò che si può definire come l’ambivalenza della nozione di sacro. Questa rappresentazione – e i riti che ad essa corrispondono – ha precisamente la caratteristica di essere alternativa. Il sacro infatti non è un valore assoluto, ma un valore che indica situazioni correlative. Un individuo che vive a casa sua, nel suo clan, vive nella dimensione profana; vive invece nel sacro da quando se ne va e si trova, come uno straniero, in prossimità di un luogo abitato da sconosciuti”14. 4 . Il recinto Proprio le ricerche di Van Gennep sui riti di passaggio ci permettono di sottolineare un altro aspetto del sacro: la sua separatezza. “Tra il mondo sacro e il mondo profano c’è un’incompatibilità tale che il passaggio dall’uno all’altro non può avvenire senza uno stadio intermedio”15. Ed assumono quindi importanza fondamentale i confini, i margini materiali e simbolici che dividono sacro da profano e al tempo stesso consentono di essere attraversati. La marca di confine, il passaggio da un territorio a un altro attraverso una zona neutra: “queste zone sono costituite, di solito, da un deserto, da una palude e soprattutto da una foresta vergine […]dato il carattere ambivalente della nozione di sacro, i due territori occupati sono sacri per coloro che vivono nella zona, ma d’altra parte la zona è sacra per gli abitanti dei due territori. Chiunque passi dall’uno all’altro si trova perciò, da un punto di vista materiale e magico-religioso, in una situazione particolare, nel senso che sta sospeso tra due mondi”16. Il sacro, anche filologicamente, significa il separato, come profano significa davanti, dunque fuori dal tempio, dal recinto delle cose sacre. Nell’immaginazione spaziale – e nella architettura materiale – esiste quindi un recinto che racchiude il sacro, isolandolo da ciò che sta fuori, per proteggerlo e proteggersene. Come mostrano le ricerche di Burkert sui culti misterici, esistono tutta una serie di limiti fisici alla dimensione della sacralità. La kiste, la cesta in cui erano racchiusi i segreti: “la segretezza era un attributo necessario degli antichi misteri, e si esprimeva nella forma della cista mistica, una cesta di legno chiusa da un coperchio”17. I telesterion, i palazzi delle iniziazioni, di cui quello per antonomasia era il santuario di Eleusi per le celebrazioni dei misteri eleusini. Ed è interessante notare come proprio ad Eleusi il telesterion fosse sostanzialmente uno spazio vuoto privo di passaggi, apparecchiature o addobbi, in quanto ciò che contava era solo la recinzione. Nel sacro funziona quindi un meccanismo di esclusione ed inclusione che non è sociologico, di classe o di genere. Si ricordi ad esempio che tutti i misteri antichi, con l’esclusione di quello di Mitra che era una società segreta maschilista-militare, erano aperti alle donne. Ciò che conta è passare ad un altro territorio, fisico e psichico, spesso segnato da un diverso stato di consapevolezza, “dai misteri ci si attendeva una qualità speciale di esperienza, di là dallo schema sacrificale comune. Un vero e proprio cambiamento di coscienza nell’estasi è tipico di due divinità principali dei misteri, Dioniso e Meter […] la “follia” è un tratto distintivo”18. Il sacro come spazio dell’estasi, cui si accede attraversando una differenziazione fisica spesso irrilevante (un coperchio, un recinto, le mura di un tempio che racchiudono uno spazio indeterminato) ma ritualmente segnata e psicologicamente altra. Uscire da sé (ékstasis) per entrare in una diversa dimensione, attraversando dei confini che si oltrepassano a condizione di riti determinati, di purificazioni, di modifiche nello stato di coscienza. 5 . Il mostruoso Questa visione del sacro come altro e diverso, come zona oltre il confine, può essere portata alle sue conseguenze più radicali; ed allora il sacro diventa il meraviglioso, il prodigioso, il mostruoso in tutta la valenza etimologica del termine. Sia in senso fisico che psichico, il miracoloso ma anche l’orribile ed il deforme: in ultima analisi, ciò che va al di là della normale natura delle cose. L’antropologia ha frequentemente rilevato questa prodigiosità del sacro, nelle sue gradazioni dal sorprendente (l’arcobaleno, i segni bizzarri sulle pietre) all’orribile (il tuono, i suoni rombanti degli aborigeni australiani, i grandi cetacei) fino alla vera e propria teratologia dei draghi, dei centauri e degli esseri a più teste. Come scrive Mauss, “le abitudini popolari sono disturbate da ciò che sembra turbare l’ordine delle cose […] ad ogni percezione dello straordinario la società esita, cerca, attende…è questa attitudine a far sì che l’anormale sia mana, cioè magico”19. E la letteratura ha spesso giocato con l’idea che la dimensione del sacro sia quella dello straordinario e dell’anormale, fino ad arrivare agli dei idioti ed animaleschi dei racconti di Lovecraft. Ma la forma più estrema di questa riflessione penso emerga dall’analisi che Pierre Klossowski dedica all’opera narrativa e filosofica del Marchese de Sade. Il mostruoso è divino: “l’ateismo sadiano reintroduce il carattere divino della mostruosità: divino nel senso che la sua ‘presenza reale’ si estrinseca esclusivamente attraverso dei riti”20. E la divina mostruosità si capovolge presto in mostruosa divinità, tale per cui gli “atei benpensanti” mai perdoneranno a Sade “d’aver raggiunto la mostruosità dell’arbitrio divino con il sotterfugio dell’ateismo”21. La mostruosa ferocia dei filosofi scellerati altro non è che l’essenza dell’Essere supremo in malvagità, per cui Sade “accetta l’esistenza di Dio per dichiararlo colpevole e trar partito dalla sua colpevolezza eterna […] e in seguito confondere questo Dio con una natura non men feroce”22. La divinità è per sua natura mostruosa. Ma se vogliamo, la mostruosità del sacro non è neppure quella della ferocia e della crudeltà; Dio, come dice Bataille, non è affatto il male. ”Dio è peggio e più remoto del male, è l’innocenza del male”23. È la mostruosità della disperazione, della nevrosi, dell’impossibile, del niente. “Questo Dio che sotto le nubi ci anima è pazzo. Lo so, lo sono. Miserere Dei”24. La mostruosità del divino, per Bataille, al di là di ciò che può essere, lo trascina verso il nulla e l’assenza. Dio può essere sì “una prostituta, perfettamente uguale alle altre”, ma in più il superamento di sé, nel senso “dell’orrore e dell’impurità”, ed infine la sua assenza, che “non indietreggia davanti a nulla. Essa è dovunque sia impossibile aspettarsela: è di per sé un’enormità”25. 6 . Conclusione. Umano ed inumano Dopo questo breve viaggio, nella multiformità del sacro, si può provare a trarre una provvisoria sistemazione della problematica di partenza. L’ambivalenza del sacro, fascinoso e terrificante, sorprendente e mostruoso, familiare e straniero, dicibile ed ineffabile, distinto ed irraggiungibile, non è altro che la compresenza, nella sua esperienza, di umano e inumano. Il sacro è questa duplicità. Il sacro è l’ordine del rito; è il desiderio della parola e della comprensione, che sta tutto dal lato dell’umano; ma anche, sul versante dell’inumano, la sua impossibilità. “Dio, se ’sapesse’, sarebbe un porco. Cosa potrebbe avere di umano chi cogliesse l’idea sino in fondo?”26. Di conseguenza, se tale è il sacro, esso si pone su di un piano radicalmente altro rispetto al religioso. Questo davvero si svolge tutto sul versante umano dei bisogni, delle strutture, della violenza presente nella società umana. Del religioso certo si potrebbe dire, con Girard, che abbia un’origine reale, che provenga da un progetto intelligibile, che sia un pensare il destino della città in funzione della violenza umana. E si potrebbe persino ripetere con Marx che sia “oppio dei popoli”, al servizio di strutture socioeconomiche di potere di cui costituisce una maschera. Ma il grave equivoco del sociologismo di Girard (e di tutte le razionalizzazioni umanistiche) è stato a mio parere credere che, con la dimensione religiosa, si sia chiarita tutta l’esperienza del sacro; credere, avendo ricondotto la religiosità a fondamenti umani, di avere ricondotto tutta la sacralità a spiegazioni umane e razionali. La sinonimicità di religioso e sacro non è soltanto una mancata sottigliezza linguistica: è la conseguenza - o forse la causa? – di un appiattimento unidimensionale dell’ambivalenza e multivocità dell’esperienza del sacro. In un certo senso, questa mia obiezione si pone su di un piano analogo a quello di Derrida, il quale, come già notava Vincenzo Cuomo in un articolo apparso su Kainos,27 distingue la religione dalla fede, attribuendo solo alla prima una fonte comune alle istanze razionaliste della tecnoscienza, sulla base di un “meccanismo teologico”. Per Derrida l’alterità autosufficiente delle istituzioni religiose e scientifiche sfocia inevitabilmente in uno “stesso movimento che rende indissociabili religione e ragione teletecnoscientifica” in una “fatale logica dell’autoimmunità dell’indenne che assocerà sempre Scienza e Religione"28. Semmai, rispetto a Derrida, preferirei individuare, come dimensione non riconducibile alle istanze canoniche e socialmente normative della religione, il sacro – esperienza dell’impossibile – piuttosto che la fede, che mi sembra ancora esprimersi sul piano delle affermazioni e delle presenze discorsive. In ogni caso, proprio per salvaguardare l’autonomia dell’ineffabile ed evitare la riduzione dell’irriducibile, il suo appiattimento nel campo del teologico e della legge divina, proporrei di ricorrere d’ora in poi ad una più precisa distinzione terminologica e concettuale. Burkert sosteneva che, per gli antichi misteri, “si deve abbandonare il concetto di religioni misteriche”, laddove nelle religioni storiche come cristianesimo o islamismo si è posta “enfasi sulla definizione che esse danno di se stesse e sulla delimitazione di una religione contro l’altra”29. Allargando questa osservazione, suggerisco di utilizzare il termine religioso per quanto di storico, sociale, umano si può trovare in un insieme di usanze ed istituzioni organizzate relative ai rapporti col divino. Di usare invece il termine sacro per tutto ciò che cerca di coglierlo al di là delle umane definizioni, oltrepassandone gli interessi sociali e sfondando il recinto in cui l’ordine profano del lavoro, della città, della ragione si trova rinchiuso. Il religioso nasce e muore nella dimensione dell’umano. Il sacro, per quanto da questa dimensione inevitabilmente, per noi, prenda le mosse, si slancia ed apre sull’inumano. 7 . Espansione: mundus imaginalis Quali sono i rapporti che intercorrono fra religione e sacralità? È possibile ristabilire, dopo avere operato la diversificazione, una relazione fra l’umano-troppo umano del religioso e l’ambivalente costellazione umano-inumano del sacro? Ritengo che il piano di una mediazione fra le due dimensioni, tutta da esplorare in un possibile sviluppo di questi temi, sia quello del cosiddetto mundus imaginalis. Quella realtà intermedia, fra materialità corporea ed ineffabile cielo delle idee, di cui parla la Scienza dei simboli cui Renè Alleau ha dedicato le sue ricerche. Il livello della potenza immaginativa dell’anima, in cui Henri Corbin, cui dobbiamo il concetto di mundus imaginalis, situa la creazione di miti, filosofie ed opere d’arte. Quel mondo iconico da cui Pavel Florenskij vede nascere la pittura, ad opera dell’artista che ha colto l’indicibile e vuole discenderne per esprimerlo in un linguaggio umano. Fra terra e cielo, materia e spirito, umano ed inumano si stende il vasto ed inesplorato territorio dell’immaginario, in cui l’arreton, l’ineffabile del sacro, assume tutte le forme che l’anima riesce a produrre nello sforzo di ricondurlo alla propria sensibilità. Ma, come mostra Jean-Luc Nancy ne La rappresentazione interdetta, l’immagine non va intesa come la pesante presenza della “stupidità dell’idolo”, respinta dai tanti iconoclasti della storia; ma come l’absenso, il ritrarsi del divino che consente l’apertura all’abisso inesauribile dell’umano senso. Come conclude Gilbert Durand, che col suo Le strutture antropologiche dell’immaginario ha dato vita al tentativo più organico di esplorare il mundus imaginalis, gli stessi teologi hanno bisogno di “una teologia iconofila, una teologia umile perché si china su quella condizione umana – quel ‘mondo intermedio’, né angelo né bestia – e che si ricordi, dopo tutto, che l’uomo è fatto ‘a immagine e somiglianza di Dio’”30.
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Note con ritorno al testo |
1 Friedrich Nietzsche, Ecce Homo, tr. it. di Silvia Bortoli Cappelletto, Roma, Newton Compton, 1978, p. 67.
2 Gianni Vattimo, Tecnica ed esistenza, Torino, Paravia, 1997, p. 117.
3 Renè Girard, La Violenza e il sacro, tr. it. di Ottavio Fatica e Eva Czerkl, Milano, Adelphi, 2003, p. 139.
4 Ibidem, p. 143.
5 Ibidem, p. 149.
6 Ibidem, p. 177.
7 Ibidem, p. 149.
8 Ibidem, p. 202.
9 Ibidem, p. 191.
10 Ibidem, p. 224.
11 Rudolf Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale, tr. it. di Ernesto Buonaiuti, Milano, Feltrinelli, 1984, p. 15.
12 Ibidem, p. 16.
13 Ibidem, p. 17.
14 Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, tr. it. di Maria Luisa Remotti, Torino, Boringhieri, 1981, p. 12.
15 Ibidem, p. 4.
16 Ibidem, p. 16.
17 Walter Burkert, Antichi culti misterici, tr. it. di Maria Rosaria Falivene, Bari, Laterza, 1989, p. 12.
18 Ibidem, p. 148.
19 Henri Hubert e Marcel Mauss, Teoria generale della magia, tr. it., Roma, Newton Compton, 1981, p. 137.
20 Pierre Klossowski, Sade prossimo mio, tr. it. di Aurelio Valesi, Milano, Sugar Editore, 1970, p. 10.
21 Ibidem, p. 21.
22 Ibidem, p. 120.
23 Georges Bataille, Il Piccolo, tr. it. di Eugenio Ragni, Roma, Gremese Editore, 1981, p. 119.
24 Ibidem, p. 124.
25 Id., Prefazione a Madame Edwarda, in Id., L’erotismo, tr. it. di Adriana Dell’Orto, Milano, Oscar Mondatori, 1976, p. 282.
26 Id., Madame Edwarda, tr. it. di Eugenio Ragni, Roma, Gremese Editore, 1981, p. 55.
27 Vincenzo Cuomo, L’altro nella rete (problemi di mediazione culturale), Kainos n. 2, sezione Ricerche.
28 Jacques Derrida, Fede e sapere. Le due fonti della "religione" ai limiti della semplice ragione, traduz. di A.Arbo, in Annuario filosofico europeo, La religione, a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 47-48.
29 W. Burkert, Op.cit., p. 8.
30 Gilbert Durand, L’universo del simbolo, in René Alleau, La scienza dei simboli, tr. it. di Giovanni Bogliolo, Firenze, Sansoni, 1983, p. 248.