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Dignità (in)umana nel pensiero di Günther Anders di Aldo Meccariello
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La domanda «che cos’è l’uomo» (o in modo più pretenzioso, per così dire più esistenziale: «chi è»), domanda che anche Heidegger ha posto ancora senza esitazione, non ha senso finché non si chiariscano i presupposti (cosa che non ha fatto neppure lui Heidegger) su quello che s’intende con il «che cosa» (o con il «chi»), cioè quale tipo di risposta ci aspettiamo o crediamo di doverci aspettare1.
È chiaramente evidente che queste taglienti osservazioni andersiane del 1979 tendano a denunciare il carattere antiquato di ogni forma di antropologia filosofica perché ogni domanda sul che cosa o sul chi è sempre inadeguata e in molti casi fuorviante. In aperta polemica con Heidegger che ha sempre preso sul serio tali domande, Günther Anders nega decisamente che si possa parlare di essenza dell’essere «uomo», la cui esistenza è sempre contingente. L’uomo senza mondo cioè estraneo e acosmico è il motivo sul quale Anders costruisce un’ontologia del mondo senza essere che è poi il nucleo di quell’antropologia negativa che nel 1929 abbozza in una conferenza dal titolo Die Weltfremdheit des Menschen che – come ricorda l’Autore – «tenni allora presso la Kantgesellschaft di Francoforte e nella quale, anni prima di Sartre, trattai la libertà dell’uomo come affermazione in positivo del suo non potersi stabilire in alcun luogo. La conferenza in tedesco non esiste più, mentre la versione francese è poi stata pubblicata sette anni più tardi, ma ancor sempre troppo in anticipo, con il titolo Pathologie de la liberté nelle Recherches Philosophiques del 1936»2. Anni prima di Jean Paul Sartre, e con sempre troppo anticipo, dunque, Anders affronta le tematiche dell’esclusione dell’uomo dall’appartenenza al mondo, della instabilità come dato naturale, della nascita come trauma, della libertà come patologia. Pathologie de la liberté e Une interprétation de l’a posteriori i due saggi andersiani degli anni ’30, contengono una lucida e radicale riflessione sulla natura quale nodo irrisolto dell’antropologia filosofica. Pathologie de la liberté è un raffinato saggio di antropologia negativa. L’essenza dell’uomo è l’instabilità perché egli non prevede né riconosce se stesso, come non prevede né riconosce il suo mondo. È questa la premessa della “non identificazione” che è poi il sottotitolo del saggio. Anders disegna lo scenario di una antropologia negativa che si dibatte tra una tesi e un’antitesi cioè tra i termini di una dialettica senza sintesi. La tesi corrisponde all’atteggiamento dell’uomo nichilista, l’antitesi all’atteggiamento dell’uomo storico.
L’uomo nichilista è colui che perde la possibilità di identificarsi con se stesso, cioè si esperisce come contingente, ontologicamente apolide, estraneo al mondo e a se stesso:
L’uomo si esperisce come contingente, come qualunque, come «proprio io» (che non si è scelto); come uomo che è proprio così com’è (benché possa essere tutt’altro); come proveniente da un’origine a cui non corrisponde e con la quale tuttavia deve identificarsi; come «qui» e «ora». Questo paradosso fondamentale dell’appartenenza reciproca della libertà e della contingenza […] si chiarisce nel modo seguente. Essere liberi significa essere estranei; non essere legati a niente di preciso, non essere tagliati per niente di preciso; trovarsi nell’orizzonte del qualunque; in un’attitudine tale per cui il «qualunque» possa anche essere incontrato tra altri «qualunque» […]. Incontrato come contingente, l’io è per così dire vittima della sua libertà. Il termine contingente deve di conseguenza designare questi due caratteri: «la non costituzione di sé attraverso sé» dell’io e la sua «esistenza in quanto tale»3.
La nozione andersiana di contingenza è una nozione estrema, una nozione choc che rovescia radicalmente l’idea heideggeriana dell’uomo come «essere gettato nel mondo» e soprattutto rifiuta l’idea sempre heideggeriana dell’uomo come da sempre essere nel mondo.(Je-schon-in-der-Welt-sein). Lo choc di esserci è di per sé una forma di spaesamemento/straniamento: l’uomo da un lato è determinato da se stesso e dall’altro proviene da un’origine che non può riconoscere come sua e con la quale non può identificarsi. Lo choc provoca mancamento e non può non tradursi in una proposizione interrogativa o come dice Anders in una “subordinata anacoluta”. Chi sono io? L’uomo andersiano colto dallo choc della contingenza si stupisce e ancora di più si vergogna. Ma cos’è la vergogna ?
Lo stato di choc del contingente come atteggiamento di vita, e spogliato il più possibile di ogni carattere scioccante, si chiama vergogna. La vergogna non è, all’origine, vergogna di aver fatto questo o quello, benché questa forma di onta significhi già che io non m’identifico con qualcosa che emana da me, dalla mia azione, e che tuttavia io dovrei, dunque, per forza, identificarmi con essa […]. E tuttavia l’uomo fa qui una scoperta: proprio mentre si esperisce come non posto-da sé-, avverte per la prima volta di provenire da qualcosa che non è in lui; per la prima volta presagisce il passato, non comunque ciò che siamo soliti denominare il «passato: non il proprio passato familiare, storico, ma il passato estraneo, irrevocabile, trascendente, quello dell’origine. L’uomo presagisce il mondo da cui proviene, ma al quale non appartiene più come io. Così la vergogna è soprattutto vergogna dell’origine4.
L’originalità dell’antropologia andersiana non si rivela tanto nel nucleo proprio della contingenza come tratto caratterizzante la condizione umana, ma che questa si manifesti come un’ellissi i cui due fuochi sono lo choc da un lato e la vergogna dall’altro. La vergogna è soprattutto vergogna dell’origine perché il marchio che l’uomo si trova addosso è quello di scoprirsi come non posto da sé e quindi abbandonato a se stesso. I suoi sforzi sono indirizzati a superare questa condizione e quindi ad esperire la libertà come gesto, come atto, come esperienza di fuga5. Tutta la drammaticità di questo sentimento della vergogna si trova nella imperatività che condanna l'uomo a se stesso e ad essere se stesso. Appare in questo caso l'impossibilità di qualsiasi gesto. Incatenati a noi stessi, ogni via di fuga è sbarrata, perché non si vuole fuggire dall'altro ma da se stessi. La vergogna, con la sua forza violenta capace di incatenare l'uomo alla sua presenza, è una lacerazione nell'esistenza. La vergogna appare come un atto riflessivo che degenera in una condizione di totale perturbamento psichico. La vergogna è soprattutto vergogna dell’umano L’uomo andersiano, al pari della nascita, percepisce così la vergogna come trauma, come evento-choc, al punto che non si sente di appartenere al mondo e si vergogna della sua umanità. Egli reagisce con la libertà, la quale non può essere che patologica, e poi con la fuga. Essere liberi vuol dire essere estranei, non essere legati a niente di preciso. Questa libertà non ha nulla a che vedere con le problematiche morali. Essa è una possibilità di essere concepita piuttosto come disponibilità di uno spazio dove poter collocare il proprio essere che sconta l’estraneità rispetto al mondo. Il senso originario di questa libertà consiste in un Principium individuationis, come un fatto di individuazione che contrassegna una relativa autonomia dell’uomo rispetto al mondo: il suo carattere spaziale sta ad indicare che la libertà gioca un ruolo fondamentale nella (non) appartenenza dell’uomo al mondo perché egli si mantiene in questa dinamicità attraverso la ricerca di stabili equilibri.
«Lo spazio è dunque Principium individuationis. Certo questa differenza reciproca sarà manifesta solo all’essere che può passare da che può passare da un punto ad un altro, all’essere che può uscire dall’elemento con cui di solito a che fare. Ciò non può essere realizzato dall’animale, poiché malgrado la cinesis, resta nel suo spazio vitale specifico, nel suo ambiente e non si sposta in ciò che è estraneo come tale. Solo all’uomo questo è possibile»6
La libertà spaziale dell’uomo, pertanto, si esprime nell’«io avrei potuto essere là, ma anche lì e là» dove innumerevoli punti si presentano senza alcuna differenziazione. Il richiamo alla distinzione tra l’uomo e l’animale è centrale nel primo saggio, “La natura dell’esistenza”, in cui l’Autore rimarca il motivo della posteriorità dell’uomo che deve venir chiarita attraverso un confronto con l’essere animale7. Per quest’ultimo il mondo si offre in anticipo, a priori, perché ciò che l’animale fa o ciò che trova è immutabile e non ammette scelta. L’animale non ha né teoria né pratica laddove per l’uomo la teoria e la pratica sono i rami stessi della libertà e il mondo esiste a posteriori. Diversamente dall’animale, l’uomo è privo di materia a priori: «tributario della realtà che non è e che gli tocca anzitutto realizzare, l’uomo è così estraneo, così poco adatto al mondo, così distaccato da quest’ultimo, che egli si pone lo strano problema della realtà del mondo esterno»8. In un denso appunto newyorkese del 30 Aprile 1949, Anders chiama in causa la posizione eretta dell’uomo come un preciso motivo della sua proposta antropologica perché anzitutto è «affrancamento dal suolo» e «in un sol colpo d’occhio la stazione eretta si propone come l’essere-homo faber e come spirito[…]La conseguenza più importante della stazione eretta è dunque la libertà della mano». Qui è il discrimine tra l’uomo e l’animale perché «non c’è sguardo più disperato di quello degli animali, la cui struttura e postura corporea impedisce ciò che la loro tenerezza desidererebbe»9 Tuttavia, lo choc della contingenza deriva all’uomo dal non avere un mondo già dato o pre-dato. Per questo motivo egli si sente estraneo al mondo e si sente libero di prendervi congedo in qualsiasi momento. La sua dimensione è la «non costituzione di sé attraverso sé», una dimensione che, in termini temporali, si traduce nel futuro anteriore e del condizionale: «Che l’uomo possa dichiarare “io sarò stato”, che possa, per così dire, sopravvivere a se stesso nel pensiero: questo costituisce un atto sorprendente di libertà e di astrazione da sé. Nel ricordo anticipatore, egli ritorna a sé come se non fosse imprigionato nell’ambito della sua vita attuale, come se fosse capace di vivere la sua vita in anticipo, di trasportarsi al di là di questa e di conservarne la memoria»10. In tal modo il futuro diventa passato, precipita irrimediabilmente nel ricordo. Così l’essere umano oscilla tra lo spazio e il tempo (forme, vorremmo aggiungere, a posteriori) scoprendosi, quindi, senza radice, privo di mondo, errante nella sua condizione ontologica. L’angoscia per il precipitare del futuro nel passato e lo spaesamento per l’indifferenza dei luoghi spaziali concepiti come due forme aperte, comprimono l’uomo nella sua irrimediabile contingenza11. L’aspetto positivo di questa forma temporale è: poter progettare la propria esistenza in anticipo mediante la capacità del pensiero di far astrazione dal presente. L’aspetto negativo invece è la progettazione anticipata del futuro che rende quest’ultimo già passato. In sintesi, l’uomo da un lato è determinato da se stesso e dall’altro proviene da un’origine con la quale non può identificarsi.
Se la condizione del nichilista si esprime nella formula «io sono proprio io», la condizione dell’uomo storico si riassume nella formula «io sono quello che ero». L’uomo storico altro non è che questo stesso uomo che oggi si stupisce della sua contingenza, che ha la possibilità di ricordare d’essersi stupito ieri per la medesima ragione.
In questo modo, un minimo di identificazione è raggiunto, per così dire, in modo cartesiano; l’Io non insiste più ora sul suo essere-qui – e il suo-essere-adesso –, egli ha improvvisamente scoperto in sé una determinazione (lo choc del contingente di ieri) con la quale può in piena coscienza identificarsi oggi. Egli non scopre più solo l’uomo contingente che ha evitato, ma colui che evitava la contingenza. Ma il fatto strano è che entrambi sono unificati nel ricordo […]. Due tipi diversi di identificazione s’intrecciano: prima l’Io di oggi che si identifica con quello di ieri; poi nell’Io di ieri, l’Io formale e l’io contingente si confondono. Questo secondo punto è il più importante: nell’io di ieri tutto quello che gli accadeva, quanto esperiva, si trova confuso. L’io di ieri, infatti, non è esattamente un «io», ma un frammento di vita, perlomeno agli occhi del ricordo di oggi12.
L’uomo storico andersiano, dunque, riunifica io e vita per neutralizzare gli effetti della sua ontologica discrepanza e per potersi affermare come produttore della sua stessa esistenza che riacquista senso nel suo fondamentale legame col tempo. Il ricordo abolisce, dunque, ciò che di indeterminato e di contingente avevamo rinvenuto nell’esperienza. L’io si riappropria della sua vita attraverso il ricordo incamerando così le sue esperienze vissute a partire dal momento in cui scopre di avere un nome e crede di avere una storia. Rispondendo al proprio appello e chiamandosi con il proprio nome, l’uomo si ritrova e stabilizza la propria condizione identitaria: «dal punto di vista della situazione stabile, egli ricorda il barone di Münchhausen, che si tira fuori da solo, per i capelli, da una palude»13. Ma di che cosa ci si ricorda? Il ricordo è sempre il ricordo di una situazione: anzitutto ci si ricorda del proprio nome, di eventi o di situazioni che ci siamo lasciati dietro. «Il ricordo abolisce, dunque, ciò che di indeterminato e di contingente avevamo rinvenuto nell’esperienza». Ma non è tutto. Non sono solo le esperienze frammentarie a conservarsi nella memoria, ma «la vita come totalità, la vita nel senso di vita biografica»14. Raccontarsi o declinare il proprio nome significa per l’io ritrovarsi, stare presso di sé nella propria vita perché «la vita è la mia vita».
«L’uomo, attraverso la sua storia, che lo avvolge ed è un tutt’uno con lui, sfugge all’estraneità del mondo e alla contingenza del suo essere proprio io» 15
L’uomo storico andersiano ha il suo proprio passato «un passato nel quale egli non è solamente unito alle sue esperienze, ma ad altri esseri e ad altre persone»16, è il veicolo per riportarsi all’evento dell’origine, lo spazio di una ritessitura identitaria che ancora non risarcisce la frattura ontologica tra l’uomo e il mondo. Persino l’animale mostra di possedere un coefficiente di integrazione che l’uomo venuto al mondo non ha. «L’animal est en quelque sorte l’expression d’un certain coefficient d’intégration»17. A differenza dell’animale che non viene al mondo, ma il suo mondo viene con lui, l’uomo andersiano è un essere mancante «privo di materia a priori», tributario di un mondo che non gli tocca e radicalmente estraneo anche a se se stesso. La natura dell’esistenza. Un’interpretazione dell’a posteriori è il titolo dell’altro saggio andersiano che demolisce la presunta superiorità metafisica dell’uomo rispetto all’animale. L’a posteriori è il vero carattere a priori dell’uomo perché dipende soltanto da un mondo dato a posteriori. Diversamente dall’animale, l’uomo si pone come un essere dotato di libertà perché non avendo un mondo già dato a priori è libero di prendere congedo dal suo mondo proprio in quanto il suo mondo è sempre un artificio che l’uomo costruisce, e dal quale è altrettanto libero di prendere congedo. «Ora, è proprio in se stesso che l’uomo trova il potere di sradicarsi dal mondo»18. La presa di congedo consiste nell’affermare il non-essere del mondo attraverso la negazione di ciò attraverso cui si prende congedo, cosa che sarebbe, a dir poco, impossibile se il mondo fosse connaturato all’essere dell’uomo.
Ora, queste considerazioni andersiane sull’uomo e l’animale rivelano, forse, il tentativo più sistematico di ripensare la nozione di natura umana non più in termini umanistici o valoriali come è stato fatto da importanti correnti del pensiero novecentesco. Se oggi l’uomo ci appare come «inumano», non è perché egli possieda una natura animalesca o sia equiparato in termini ontologici all’animale ma perché è retrocesso a «funzioni di cosa»19. L’essere umano ridotto a cosa, cioè reificato nelle sue funzioni vitali somiglia sempre più a certi personaggi beckettiani come Vladimir ed Estragon, in cui troviamo la triste «parabola dell’uomo senza senso»20 e senza storia.
Estragon e Vladimir rappresentano’uomini in generale’; anzi sono «astratti» nel senso più crudele della parola: cioè abstracti: sradicati, avulsi. Avulsi dal mondo non vi hanno più nulla da fare, e non vi trovano quindi più nulla, perciò anche il mondo diventa astratto: perciò sulla scena non vi è più nulla […]21.
La tragicità degli eroi beckettiani consiste nel fatto che neppure la tragedia viene loro più concessa. L’(in)umano è ormai dentro l’umano. Quella beckettiana non è più una tragedia né una commedia ma una farsa ontologica22. I corpi beckettiani sono ormai scorie non redimibili, non riciclabili, non sostituibili. Questa visione post-istorica della condizione umana già evocata in questa Summa estetica che è l’opera beckettiana, si traduce, nell’antropologia andersiana, come la modalità rivelativa più devastante del dominio della tecnica che da quando ha cominciato ad assoggettare noi esseri umani, «la nostra storia si è tramutata in una ininterrotta storia della cancellazione istantanea del presente»23. La post-histoire è il metro con cui Anders misura il logoramento progressivo della condizione umana degradata e detronizzata dalla macchina che si impone come il nuovo, raffinatissimo soggetto della storia, una totalità dinamica in espansione il cui impulso è insaziabile24. Il mondo sembra così essere sempre più un luogo di esperienze senza colui che le vive cioè senza l’uomo. Nell’età della tecnica, «oggi il nostro fato», l’uomo è antiquato perché non è più in grado di competere con la hybris prometeica, anzi, più egli si impoverisce rinchiuso nella fatalità dei propri limiti, più le cose sono dinamiche, libere e vive.
[…] La macchia fondamentale di chi si vergogna, è l’origine. T. si vergogna di essere divenuto invece di esser stato fatto, di dovere la sua esistenza, a differenza dei prodotti perfetti e calcolati fino nell’ultimo particolare, al processo cieco e non calcolato e antiquatissimo della procreazione e della nascita. […] Ma egli si vergogna di questa sua origine antiquata, si vergogna naturalmente anche del risultato difettoso ed ineluttabile di questa origine: di se stesso.25
Vent’anni dopo la pubblicazione dei memorabili saggi degli anni ’30 sopra richiamati, Anders ritorna sul motivo della vergogna come vergogna dell’umano cioè dell’origine, imprimendo una svolta antiumanistica all’antropologia novecentesca e anticipando i nuclei profondi della riflessione esistenzialista. Mettere l’accento, tuttavia, sulle laceranti patologie dell’umano significava per il giovane esule in terra francese cogliere non tanto un generico spaesamento del soggetto moderno quanto piuttosto un dato ontologico della condizione umana, che Anders esemplifica come il dislivello prometeico26 che è lo scarto tra la perfetta fisiologia della macchina e la lacerante patologia dell’umano o in altri termini la dissociazione tra l’artefice e il mondo degli artefatti.
«Prometeica» chiamo però quella differenza che si manifesta quale dislivello fondamentale; cioè quel dislivello che sussiste tra la nostra «prestazione prometeica», tra i prodotti fabbricati da noi, «figli di Prometeo» e tutte le altre prestazioni; il fatto che non siamo all’altezza del «Prometeo che è in noi»27.
L’uomo andersiano perde il controllo delle sue facoltà che vede sempre più divaricate e lontane le une dalle altre, soprattutto percepisce uno scarto progressivo tra il suo fare e il suo sentire, tra la sua capacità produttiva e la sua capacità immaginativa. Egli, anzi, si scopre privo del suo mondo originario, cioè naturale, mentre viene catapultato allo stesso tempo in un secondo mondo, artificiale, da lui stesso forgiato e modellato28, ma sempre più sensibilmente soprasensibile.
Il carattere patologico di questa situazione è ascrivibile al dominio illimitato della tecnica che espropria l’uomo «dell’azione» e del «discorso» e Anders non manca di far sentire il suo debito nei confronti della dottrina marxiana del «feticismo della merce» che consiste nel fatto che «soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi assume per essi la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose»29. Se per Marx le cose acquistano una vita propria, traendo linfa dal proprio valore di scambio e gli uomini di conseguenza si impoveriscono, riducendosi a meri servitori che operano al servizio di esse, per Anders assistiamo ad una completa e gigantesca personalizzazione delle cose e degli apparati, che sembrano meno di ciò che sono, mentre gli uomini sono completamente assoggettati come meri strumenti in(umani)30. «Non viviamo più nell’èra del materialismo […] ma nella seconda èra platonica», perché brevettare un’invenzione significa proteggere un’idea dalla sua imitazione31. È questa visione duplicata o meglio moltiplicata delle idee, a causa dell’inflazione delle invenzioni, che rende gli esseri umani «forestieri della vita», corrosi e consumati nella propria umanità, vittime di questo secondo platonismo che non tollera copie ma solo originali. Sono le macchine i veri esemplari della contemporaneità, sono le macchine ad essere considerate adulte e ad esigere cosa deve diventare il corpo e come deve essere educato. Con largo anticipo Anders approda a ridefinire la condizione umana in termini di una Human Engineering cioè di «un’ingegneria applicata all’uomo», come un vero e proprio rito di iniziazione dell’epoca dei robot. Che ne è del mondo umano, dunque? Quasi nulla, un residuo antiquato, defraudato ed espropriato dei suoi poteri e delle sue capacità. Il mondo umano è ripiombato velocemente in una condizione preistorica, prossimo all’autodistruzione perché nel frattempo l’uomo ha fabbricato e sperimentato l’ordigno nucleare. Infatti, la creazione della bomba nucleare è lo spettro che Anders evoca in alcune dense pagine de L‘uomo è antiquato. L’orrore di Hiroshima cambia i connotati della condizione umana, trasforma il problema morale fondamentale: alla domanda “Come dobbiamo vivere?” si è sostituita quella: “Vivremo ancora?”32. All’uomo senza mondo si sostituirà un mondo senza uomo. Eppure, da questo inquietante e desolante scenario si può trovare una via di resistenza e/o di fuoriuscita che ripensi l’umano all’altezza delle sfide immani che lo attendono. Per Anders, «se le cose stanno così, se non vogliamo che tutto vada perduto, il compito morale determinante del giorno d’oggi consiste nello sviluppo della fantasia morale, cioè nel tentativo di vincere il dislivello, di adeguare la capacità e l’elasticità della nostra immaginazione e del nostro sentire alle dimensioni dei nostri prodotti e all’imprevedibile dismisura di ciò che possiamo perpetrare»33. Questo motivo dell’ampliare il volume del sentire e del saper sentire, o più in generale dell’ascolto che ha un chiaro riferimento rilkiano, evidenzia – secondo Anders – il lato di impreparazione dell’umano e di conseguenza l’arretratezza/inadeguatezza del paradigma antropologico che non ha mai pensato l’uomo fino in fondo, nel senso che non ne ha abbassato la definizione teorica, ancora cosparsa di elementi nostalgici e umanistici. Semmai, occorre superare la tradizione umanistica per costruire le condizioni di rovesciamento della vergogna prometeica che pensi l’umano – come spiegava Nietzsche in un celebre aforisma: Nobilitazione attraverso la degenerazione34 – punto di congiunzione tra degenerazione e innovazione in grado di riscattarsi come potenza d’essere. L’uomo non è ancora, non è più, non è mai ciò che ritiene di essere. Il che significa non ritrovare alcuna vicinanza dell’essere ma esporsi in maniera disobbediente al dominio della tecnica.
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webmaster: andrea bonavoglia 2006
Note con rimando automatico al testo
(1)Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen, München, Beck, 1980, tr. it. M. A. Mori, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, p. 117.
(2)Ibidem, pp.117-118. Cfr. Id., Une interprétation de l’a posteriori, in «Recherches Philosophiques», IV, 1934-35, Boivin & Cie, Paris, Pathologie de la liberté, ivi, VI, 1936-37, [tr. it. Patologie della libertà, Saggio sulla non-identificazione, introd. di K. P. Liessmann e postfaz. di R. Russo, Bari, Editrice Palomar, 1993]. Il volume raccoglie la traduzione dei due testi, il primo col titolo, La natura dell’esistenza , tr. it di F. Fistetti, pp. 29-51 e il secondo col titolo, Patologia della libertà, tr. it. di A. Scricchiola.
(3)Ibidem, pp. 57-58. Il motivo del venire al mondo è, come è noto, anche un tema di Hannah Arendt che Anders sposò nel 1929. La nascita per Anders è un choc, per Arendt è un miracolo. Natalità è arendtianamente sinonimo di dicibilità nel senso che è con l’atto della nascita che si profilano le coordinate dell’essere umano la cui storia può essere raccontata e narrata ad altri esseri umani provocando una sorta di ricordo.
(4)Ibidem, pp. 66-67.
(5)Sul motivo della vergogna, la letteratura è vasta. È importante notare come la vergogna sia una spirale di dolore. Il rossore, ad esempio, è la peculiare caratteristica che distingue l'uomo dall'animale, è un ulteriore motivo di vergogna. Il tentativo di fuga, di allontanarsi dall'altro, di nascondersi è del tutto sconfitto da questa maschera che non fa altro che richiamare l'attenzione dell'altro attirando il suo sguardo sulle guance coperte di rosso. Per una descrizione fenomenologica della vergogna riportiamo qui alcuni passi del testo di Maria Emanuela Novelli, Psicologia della Vergogna (Roma, Edizioni Universitarie Romane, 1986, p. 13): «Helen Lewis ha scritto una dettagliata descrizione della fenomenologia della vergogna. Nella vergogna, il sé è considerato come oggetto di disprezzo e scherno. La persona vergognosa si sente piccola, ridicola, limitata. Sentimenti di abbandono, inadeguatezza, e persino di paralisi riempiono la coscienza. L'adulto vergognoso si sente infantile con tutte le debolezze esposte a prima vista di se stesso e di altri. Il sé è percepito come funzionante poveramente o affatto percettore, pensante, attivo. Nella vergogna l'individuo vede l'altro come sorgente di disappunto, scherno e ridicolo». L'aspetto del sociale è la premessa della vergogna, la condivisione di valori rispetto al gruppo appare necessaria perché possa verificarsi l'emozione della vergogna. In La Vergogna e il Delirio, di Arnaldo Ballerini e Mario Rossi Monti, il motivo della vergogna è da ricercare nel «disvelamento agli altri di una propria mancanza di “potere” rispetto a determinati scopi» (p. 121); inoltre, viene sottolineato come la stessa vergogna impedisca la rimozione: «il sentimento della vergogna evita la rimozione impedendo idee o desideri che potrebbero essere causa di rimozione» (p. 123), Cfr., inoltre, Agnes Heller, Il potere della vergogna. Saggi sulla razionalità, a cura di V. Franco, Roma , Editori Riuniti, 1985; e Sidney Levin, Leon Wurmser, La vergogna, Torino, Bollati Boringhieri, 1996.
(6)Günther Anders, Patologia della libertà, cit., pp. 74-75.
(7)Günther Anders, La natura dell’esistenza, cit., in Patologia della libertà, cit.
(8)Ibidem, p. 35 e p.45.
(9)Günther Anders, Amare, ieri. Appunti sulla storia della sensibilità, tr.it.di S.Fabian, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, pp.107-108.
(10)Ibidem, p. 71.
(11)Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, tr. it. di M. A. Mori, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, pp. 311-329. Ci riferiamo al capitolo sul tempo e lo spazio considerati come impedimenti se considerati col metro del paese della Cuccagna.
(12)Ibidem, pp. 82-83.
(13)Günther Anders, Patologia, cit. pp. 91-92.
(14)Günther Anders, Patologia, cit., p. 85.
(15)Ibidem, p.85.
(16)Ibidem, p.86
(17)Günther Anders, Une interprétation, cit., p. 67.
(18)Günther Anders, Une interprétation, cit., p. 48.
(19)Günther Anders, Kafka.Pro e contro, tr. it. di P. Gnani e a cura di B. Maj, Macerata, Quodlibet, 2006, p.33.
(20)Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p. 230.
(21)Ivi.
(22)Ibidem, p. 231.
(23)Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, cit., p. 275.
(24)Cfr. P. P. Portinaro, Il principio disperazione. Tre studi su G.Anders, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 116. L’autore, uno dei massimi specialisti in Italia dell’opera di Anders, ricostruisce in questi saggi aspetti editi ed inediti del suo pensiero premettendo che Anders è «il rappresentante tipico di un secolo in cui s’infrange la concezione storica del mondo che la tradizione umanistica aveva elaborato e che la modernità aveva elevato alla filosofia del progresso» (p. 8).
(25)Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, cit., p. 58.
(26)«Chiamiamo dislivello prometeico l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande», ibidem, p. 50.
(27)Ibidem, p.279.
(28)Nel secondo volume de L’uomo è antiquato, cit., l’Autore chiosa la differenza tra l’esperienza della vergogna prometeica e quella del dislivello prometeico, riconoscendo una sorta di forzatura speculativa nell’espressione vergogna prometeica e in una nota aggiunge: «È possibile che venticinque anni prima, allorché introdussi la vergogna prometeica, io abbia fatto una cattiva speculazione, cioè, che abbia fatto passare un postulato come se fosse un fatto reale e in tal modo oltrepassato il confine con la Philosophy Fiction. Dunque, forse devo rivedere questa tesi della vergogna» p. 405. Più che di vergogna intesa come il turbamento dell’identificazione dell’uomo con il suo prodotto, si dovrebbe parlare di narcisismo prometeico come ha suggerito Portinaro, mentre il dislivello prometeico non è tanto lo scarto tra le facoltà umane e il mondo artificiale dei suoi prodotti, quanto il processo di autonomizzazione delle cose e dei processi produttivi unitamente all’autonomizzazione delle potenzialità distruttive dei mezzi di dominio.
(29)Karl Marx, Il Capitale, libro I, cap. I, 4, Roma, Editori Riuniti, 1968, pp. 104-105.
(30)Numerosi sono i riferimenti di Anders al pensiero di Marx. Cfr. Id., L’uomo è antiquato, I, cit., p. 50. .
(31)Günther Anders, L’uomo è antiquato, II, cit., p. 30.
(32)Günther Anders, L’uomo è antiquato, I, cit., pp. 259-273. Cfr. Marco Revelli, Oltre il Novecento, la politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 200, p. 26. Commentando le posizioni di Anders, Revelli ritiene che «l’ultimo esempio di eterogenesi dei fini è la bomba atomica, estremo prodotto dell’uomo, mezzo del tutto irrazionale poiché identifica il suo carattere strumentale non nell’impiego (che causerebbe inevitabilmente l’estinzione del soggetto e quindi di ogni possibile fine) ma nel mantenimento di una condizione di potenziale utilizzo. La radice di questi “deliri” è segnalata da Revelli nella degenerazione dell’homo faber, che si svela in due sue caratteristiche: nell’incapacità di commisurare la possibilità produttiva (i giganteschi effetti della tecnica) con la possibilità cognitiva del soggetto (la limitata capacità di immaginarne e controllarne gli esiti); e nella sua condizione di elemento di un Apparatenwelt, un mondo ridotto interamente alla dimensione della fabbrica fordista, estremamente meccanizzato e burocratizzato, luogo dell’alienazione del lavoratore rispetto alla sua opera, dunque dell’estraniazione rispetto agli effetti del proprio agire. E’ esattamente ciò che descrivono Hannah Arendt e Günther Anders: uno stato divenuto gigantesca macchina burocratica, costituito di fasi interdipendenti che coinvolgono tutti nel loro spazio assoluto, è in grado di de-responsabilizzare i singoli lavoratori, impegnati a compiere il loro gesto minimo e svuotati di capacità di giudizio. Rende dunque possibile la discesa al fondo del disumano, che ha il volto di «un uomo desolatamente comune».
(33)Günther Anders, L’uomo è antiquato, I, cit., p. 282.
(34)Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, I, afor. 224, tr. it. di S. Giametta e nota di M. Montinari, Milano, Adelphi, 1992, p. 161-162. Cfr. Età dell’inumano. Saggio sulla condizione umana contemporanea, V. M. Bonito e N. Novello ( cura di), Roma, Carocci editore, 2005.