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L’inumano nell’umanoL’inumano è ciò che accade all’uomo, ciò che gli succede. Al di là di ogni immagine negativa dell’inumanità, essa è ciò che inevitabilmente portiamo con noi, ciò che ogni volta ci attende e ci spetta. L’uomo abita l’estremo, ovvero l’esperienza in tutta la sua potenza, che lo contamina fino a rovesciarlo del tutto, fino a farlo diventare altra cosa, cosa morta. La tradizione occidentale ha spesso preposto all’emozione e alla passione l’imperturbabilità e la forma. Una tale disposizione appare come una giustapposizione alla natura informale dell’umano. Per natura informale intendiamo la capacità di fare esperienza del disfacimento della forma, la possibilità che una data cosa possa presentarsi sfigurata. Informale è anche e soprattutto quel procedimento artistico in cui l’uomo scompare come forma e come creatore di forme e si confonde con il gesto stesso della creazione. Il pittore americano Jackson Pollock è uno dei maggiori esponenti di tale procedimento. Dipinge forze, tratti intensivi, non più identità. La pittura di Pollock rinuncia al compito classico di dipingere dei soggetti e tenta invece di esprimere movimenti, energie, ovvero ciò che afferra l’umano e lo possiede. L’inumano che Pollock esprime è l’intrusione permanente a cui l’uomo è soggetto, la sensazione prima della percezione. Il non-umano che assilla l’umano, in un intreccio che l’opera di Pollock restituisce attraverso la più imponente scomparsa della figura e della rappresentazione. Fondamentale è la sua dichiarazione circa il suo diverso approccio alla tela: non più di fronte al pittore, come in un rapporto soggetto-oggetto. Così afferma: La mia pittura non nasce sul cavalletto. Non tendo praticamente mai la tela prima di dipingerla. Preferisco fissarla non tesa al muro o per terra. Ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del quadro, perché, in questo modo, posso camminarci intorno, lavorare sui quattro lati, ed essere letteralmente nel quadro.1 L’artista si coglie nel quadro, come se si trattasse di una singolare ospitalità, e continua affermando: “Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quello che faccio”. Pollock porta la logica della composizione alla sua radicalità: al contrario di Poe che calcolava la minima emozione, il più piccolo effetto, la composizione in Pollock è posizione di un cum, di “un dare e avere”, che si oppone tanto all’ispirazione romantica quanto al calcolo dell’autore moderno. Quando Pollock dice di essere nel quadro, non si sta riferendo a una possibile rappresentazione al suo interno, rappresentazione che da Velasquez in poi è diventata una vera e propria sfida pittorica. Si tratta di concepire “nel” secondo una logica della relazione al di là di ogni rappresentazione. Forse secondo una logica macchinica. Secondo Louis Marin, il tentativo di Pollock di sottrarre l’accidentale alla casualità lo spinge verso un singolare automatismo pittorico, dove il dripping, la sgocciolatura con il colore liquido, è deciso dall’opera nel suo stesso farsi: Se si ha l’impressione che la colata tracci essa stessa il proprio disegno obbedendo a un certo disegno, ciò dipende molto semplicemnte dal fatto che esiste un “disegno” che determina le tracce e i reticoli. È sufficiente vedere a questo proposito il film su Pollock all’opera. Che la tecnica del dripping comporti in sé nella sua esecuzione un margine notevole di accidenti, gocce, schizzi, ma forse non così considerevole quanto si crede, è sicuro. […] L’accidente va qui pensato come la circostanza di un processo pittorico, un processo che non si realizza in verità se non tracciando e tessendo circostanze […] un processo pittorico che sarebbe l’accumulazione degli accidenti e delle sostanze che esso produce. […] Di qui la mia conclusione, che lo spazio Pollock nel/del quadro […] è, se vogliamo, un automaton, una macchina […] 2 A tal proposito, Robert Motherwell sottolinea la necessità creativa cui giungeva il pittore proprio attraverso il singolare procedimento di dipingere con la tela attaccata al suolo: “Lavorando a terra le sgocciolature non si spargevano, e poteva così dipingere in «contrappunto», cioè per strati successivi, raggiungendo una complessità fisica di cui i suoi colleghi erano incapaci. […] il lavoro a terra ha dato a Pollock la spontaneità estrema del disegno automatico, in uno spazio controllato ipso facto.”3 Il pittore si dissolve nel dipingere automatico, secondo una ragione interna all’opera, una ragione dell’evento. È quest’ultimo a disumanizzare, a disfare ogni volta le forme rendendole informali, ovvero contaminate dall’improbabile, e, per tale motivo, ogni volta irriconoscibili. CaducitàIl rapporto con la tela non più frontale, ma dall’alto in basso secondo un fondamentale processo di caduta, sigilla l’inumanità espressa nell’opera di Pollock. Centrale non è più la visione capace di prevedere e di rimediare, ma l’irrimediabile sgocciolio, che simboleggia il nostro essere al mondo: soggetti a delle gravità non umane, a delle forze che ostacolerebbero la fondamentale ascesi dell’uomo. Non esiste immagine dell’uomo che non sia legata alla salvezza in un’ascensione, che non lo allontani dalla caduta. L’uomo è colui che deve evitare di cadere. La caduta è il male, capace di distruggere la nostra umanità. Pollock non dipinge tanto delle linee, quanto piuttosto delle traiettorie, che per il pittore possiedono un’intrinseca necessità, un destino. Interrogandosi sull’aspetto non canonico della linea in Pollock Marin arriva a definirla traccia dell’evento. Si può ancora chiamare linea? […] In Autumn Rhythm: n. 30 del 1950, la linea di Pollock è una traccia, cioè l’impronta lasciata da un passaggio sulla tela, impronta e sequenza di impronte, indicazione e serie di indici. Però un’impronta paradossale, poiché ciò che è accaduto e che ha lasciato la traccia del suo passaggio non ha mai toccato la tela, né direttamente né indirettamente per il tramite di uno strumento, pennellessa, pennello, spatola o coltello. Solo il liquido che cola, o cade goccia a goccia, tocca la tela; di fatto non la tocca, vi si espande e vi si deposita, come indice di ciò che è passato, di ciò che è accaduto. La linea di Pollock è la traccia di un evento.4 Sottolineando inoltre come tali tracce perdano il rapporto con il pennello, e dunque con la manipolazione dell’uomo, Marin ci avvicina al genius loci che l’opera di Pollock cerca di esprimere: l’intervento di forze impersonali, preindividuali e non umane nella composizione. Non l’angoscia, ma l’agonia primordiale che eccede i corpi, abitando piuttosto lo spazio interstiziale della sensazione, che, come ci ricordano Deleuze e Guattari, è “composto delle forze non-umane del cosmo, dei divenire non-umani dell’uomo e della casa ambigua che li scambia e li adatta, li fa turbinare come il vento.”5 Pollock riprende così il senso del pain proprio del painting: sulla tela appaiono le differenti e intensive forze in gioco, che assillano ogni individuo, una complicazione inestricabile. I titoli che Pollock dà alle sue opere, come Sea Change o Lavender Mist, non indirizzano verso una rappresentazione, bensì verso un’astrazione che proietta sulla tela le forze che possiedono la cosa. Le traiettorie sono caducità, accadimenti. Inevitabili cadute in cui l’umano ha poco peso, una leggerezza insostenibile, perché non oppone significativa resistenza a ciò che ci trascina verso la morte. L’Action Paintig di Pollock appare allora come una sorta di danza pittorica, di comprensione estetica delle forze. Come giustamente ha notato Deleuze: Action Painting, “danza frenetica” del pittore intorno al quadro, o piuttosto nel quadro che non è montato, in tensione sul cavalletto, ma inchiodato, disteso al suolo.6 Il tentativo di assecondare le forze diviene un vero e proprio rito per raccogliere l’evento della loro complicazione. Come i danzatori della pioggia, Pollock sembra danzare intorno al quadro per trattenere le forze nella tela. Anche le misure del quadro, a volte enormi o semplicemente inusuali, sembrano essere stabilite dall’opera stessa. Non vi è pittura più evocativa di quella di Pollock. Un’evocazione dell’inumano.
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Note con rimando automatico al testo |
1J. Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1991, p. 70.
2L. Marin, Lo spazio Pollock, in L. Corrain (a cura di) Semiotiche della pittura, Meltemi, Roma 2005, p.223
3J. Pollock, Lettere, riflessioni, testimonianze, cit., p. 109.
4L. Marin, op. cit, p. 216.
5G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, a cura di C. Arcuri, Einaudi, Torino 1996, p.189.
6G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2002, p. 172.