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Peter Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger

a cura di Anna Calligaris e Stefano Corsara


Milano, Bompiani, 2004, ISBN 88-452-1209-2



Questa raccolta di saggi di Sloterdijk è di grande interesse per il tema cui il presente numero di Kainos è dedicato. Vi si trovano concetti e argomentazioni di notevole valore chiarificante sia per le relazioni tra tecnica e cultura sia per la messa in questione di una Verwindung dell’umano in una condizione esistenziale che sempre più sarà condizionata da una tecnica capace di modificare la natura umana così come la natura in generale.

Non potendo descrivere neanche per sommi capi le ampie analisi critiche che questi saggi contengono (dedicati innanzitutto ad una serrata Auseinandersetzung con Heidegger ma anche ad un confronto critico con Adorno e Luhmann), mi soffermerò sul saggio principale, considerato uno dei principali contributi teorici di Sloterdijk, e cioè su quello intitolato La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung.

La proposta di Sloterdijk, provocatoria ma chiarificante al tempo stesso, è quella di una interpretazione antropologico-filosofica del pensiero dell’essere di Heidegger. E tale proposta interpretativa trova nell’ampio saggio in questione forse il suo punto di partenza o comunque uno dei luoghi in cui meglio e più chiaramente è esposta.

Pensando Heidegger contro Heidegger, come lui si esprime, si tratta di capire che cosa abbia dato inizio al fenomeno umano e alla relazione tra essere e uomo. Se Heidegger parla della Lichtung dell’essere, della apertura, della radura dell’essere in cui l’uomo soggiorna, allora si tratta di pensare “come l’uomo sia giunto alla Lichtung o come la Lichtung sia giunta all’uomo. Dovremmo sapere come venne prodotto il lampo, nella cui luce il mondo ha potuto illuminarsi come mondo” (p. 122).

Sloterdijk parte dalla necessità di quel che chiama il “circolo antropotecnico”. Per comprendere la “condizione umana”, egli afferma, non si deve presupporre l’uomo, ma è al contempo necessario avere come prospettiva la comprensione dell’uomo nello stato attuale di civilizzazione. A nulla vale elaborare una teoria antropologica se questa poi non chiarifica la condizione attuale del fenomeno umano.

La sua tesi principale è che l’uomo sia un prodotto della Lichtung. Ma che cos’è la Lichtung? Per rispondere a tale domanda, secondo Sloterdijk bisogna comprendere il processo di de-animalizzazione dell’animale che ha avuto come conseguenza la comparsa dell’uomo.

Mentre l’animale si muove e vive nel suo ambiente (Umwelt) – come è noto a partire da von Uexküll – il proprium dell’uomo è quello di distanziarsi/uscire dall’ambiente per “irrompere nella dimensione ontologica priva di gabbia” (p. 128) che tradizionalmente chiamiamo “mondo”. Solo l’uomo, continua Sloterdijk, spezzando la gabbia dell’ambiente “viene al mondo”. Ed è proprio una teoria del “venire al mondo”, una teoria spaziale-orizzontale dell’evento del mondo e dell’evento dell’umano, quella che deve sostituire, o quanto meno integrare, la teoria della caduta verticale nell’esistenza preferita dallo Heidegger di Essere e tempo.

Per Sloterdijk, l’uomo è un prodotto, naturalmente aperto ad ulteriori modificazioni, di meccanismi antropogenici pre-umani e non-umani (p. 132).

Nella Lettera sull’umanismo Heidegger, andando al di là della sua preferenza per la relazione tra l’essere e il tempo, ci dà, malgré lui, le parole-chiave del passaggio dall’ambiente al mondo: la casa dell’essere, l’esistenza come abitare. A patto da intendere tali espressioni in senso più concreto, c’è in esse, non esplicitata, una originale teoria dello spazio umano e dell’entrata in esso. Proponendosi di esplicitare tale teoria Sloterdijk introduce il concetto di sfera. La sfera, egli afferma, è qualcosa di molto vicino al concetto platonico di chora, se inteso, come ha mostrato Derrida, come “matrice delle dimensioni in generale”. Le sfere sono “descrivibili come i luoghi della risonanza interanimale e interpersonale, in cui i modi in cui gli esseri-viventi stanno insieme acquisiscono un potere plastico. […] È all’interno delle risonanze della sfera che dal muso animale si sviluppò il volto umano” (p. 137). Esse sono innanzi tutto paragonabili a delle “serre” in cui l’umanità dell’uomo è maturata e che hanno operato come “aperture mediane” tra “ambiente” e “mondo”, come veri e propri “agenti di cambio” tra le forme di coesistenza corporeo-animali e quelle simbolico-umane (vedi p. 138).

Resta da mostrare come queste serre-sfere si siano formate e come in esse sia potuta avvenire l’ominazione.

Come entrò in gioco l’effetto serra? Riassumendo e interpretando importanti ricerche paleo-antropologiche (Miller, Gehlen, Alsberg, Bolk, Portmann), Sloterdijk parla di quattro meccanismi antropo-genici che, agendo sinergicamente, hanno prodotto la Lichtung e, di conseguenza, l’uomo:

1. Il meccanismo di insulizzazione
2. Il meccanismo di liberazione dai limiti del corporeo
3. Il meccanismo della neotenia
4. il meccanismo della trasposizione.

Il primo meccanismo, quello dell’insulizzazione, trova origine nella storia degli animali che vivono in comunità e risale fino al mondo delle piante. In base ad esso, tra gli animali che vivono in branco, quelli che si trovano ai margini producono un effetto di “parete vivente” che produce protezione (vantaggi climatici, protezione dai predatori…) per gli animali posti al centro: le madri animali e i loro piccoli. In tal modo si aggirano le leggi darwiniane del fitness selettivo. Il risultato più importante dell’insulizzazione, scrive lapidariamente Sloterdijk, “consiste nella trasformazione del piccolo in bambino” (p. 140).

Il secondo meccanismo, quello della liberazione dai limiti corporei, “dipende da una specifica attivazione della mano” (p. 142) ed è probabilmente sorto con l’uso delle pietre per colpire e per lanciare. È l’età della pietra che dà forma all’uomo. Attraverso colpi e lanci e tagli, scrive Sloterdijk, “il preominide produce i primi buchi e strappi nell’anello dell’ambiente. [...] Come primitivo tecnologo della pietra, come lanciatore e operatore con strumenti contundenti, il presapiens divenne un praticante del mezzo duro. Il divenire uomo accadde sotto la protezione delle litotecnica, poiché è con l’impiego delle pietre per lanciare, colpire e tagliare che entra per la prima volta in azione il principio della tecnica, e cioè: ciò che ci libera dal contatto corporeo con ciò che abbiamo intorno” (p. 143). Ne derivano conseguenze importanti: a) i confini del lancio diventano i confini di una dimensione che è al di là dell’ambiente (il “mondo”); b) lo sguardo che segue il lancio produce la prima forma di teoria; c) l’anticipo dei risultati del lancio produce la prima forma di progetto; d) la sensazione di aver colpito il bersaglio è la prima forma di esperienza della verità. “In questo senso si può dire – egli scrive – che il risultato dell’età della pietra è consistito nella conquista di quella distanza dalla natura, che permette l’esplosione dell’anello dell’ambiente, e va in direzione dell’essere aperto del mondo” (p. 146). Ma c’è dell’altro. Nel contrasto tra il lancio andato a segno e l’orizzonte “che nessun lancio raggiunge, che nessun colpo danneggia, che nessun taglio ferisce” (Ivi) accade per la prima volta la differenza che verrà poi tematizzata come la differenza ontologica tra essere e ente.

Già l’interazione tra questi due meccanismi può cominciare a spiegare come lo sviluppo evolutivo umano sia stato di tipo “lussureggiante”, in quanto non ha premiato le capacità di adattamento ad un ambiente ostile ma ha premiato, al contrario, lo sviluppo delle capacità di dis-adattamento all’ambiente. Nella serra antropogenica non sopravvive il più robusto bensì il più avvantaggiato dall’effetto serra (quindi il meno adatto ad affrontare l’ambiente extra-serra).

Per chiarire ulteriormente questo aspetto dell’antropogenesi, Sloterdijk introduce il terzo meccanismo, quello della neotenia. La casa dell’essere, la Lichtung, egli scrive, acquista sin dall’inizio la caratteristica di un “utero esterno predisposto tecnicamente, in cui i nati, per tutto l’arco della vita, godono dei privilegi dei feti. Di conseguenza gli esseri-viventi, che un giorno saranno uomini, si riproducono esclusivamente in un vivaio, che possiamo meglio definire un parco autogeno” (p. 149). La serra antropogenica avrebbe funzionato, quindi, da incubatrice, da luogo in cui i piccoli vengono “viziati”, ritardandone la maturazione. Sorge così il tempo esistenziale che Heidegger avrebbe chiamato la Sorge, l’aver-cura: “il viziare obbliga ad aver cura e l’aver cura stabilizza la condizione viziata”, conclude Sloterdijk (p. 152). Gli uomini, prendendo in custodia se stessi divengono animali-da-cura. In tal modo, “l’uomo lussureggia ontologicamente, poiché lussureggia fisiologicamente, e lussureggia fisiologicamente perché vive in una serra che deve essere stabilizzata” (p. 153). Queste serre, che saranno un giorno chiamate “culture”, sono dei “sistemi della cura di sé”. Nascendo come creature dell’abitare gli uomini sono instabili e flessibili, ma non privi di essenza: “essi sono essenzialmente viziati ed essenzialmente disposti a difendere il loro essere viziati con un impegno estremo” (p. 156).

I rischi di tale evoluzione lussuosa, secondo Sloterdijk, sono essenzialmente quelli legati alla liberazione di impulsi eccessivi che possono giungere fino alla liberazione di una violenza paranoica, orgiastica e autodistruttiva. Ma qual è l’origine di tale rischio?

Per la verità su questo punto essenziale il suo discorso appare manchevole, nonostante un generico rimando a Gehlen. Della violenza egli parla come di un “effetto collaterale”, come di un rischio legato all’evoluzione lussuosa, e non tratta della questione in quanto tale, così come non tratta delle relazioni tra la violenza e la morte.

Fatto è che, spiega Sloterdijk, per difendersi dalla violenza – della cui origine non dà conto – gli uomini hanno prodotto delle procedure di auto-formazione, delle antropotecniche che compensano ed elaborano la plasticità dell’uomo generata dalle serre antropogeniche. Resta fermo che le antropotecniche (educazione, allevamento, disciplinamento) presuppongono un essere umano educabile prodotto da “meccanismi antropogenici” primitivi e inconsci.

L’ultimo di tali meccanismi, quello della trasposizione, è così spiegato da Sloterdijk: dato l’elevato grado di insulizzazione, le differenze tra interno ed esterno (di grado sempre più elevato, man mano che l’evoluzione lussureggiante va avanti) fanno sì che le irruzioni del mondo circostante siano spesso catastrofiche. Allora lo spazio interno implode. Per tale ragione scatta un meccanismo simbolico immunologico che consiste all’inizio nella creazione di religioni riparatorie e di riti di ricomposizione e rigenerazione.

Anche su questo punto colpisce il fatto che Sloterdijk veda nel rito religioso primitivo e nel rito in generale solo degli strumenti di acclimatazione all’imprevista e possibile catastrofe della Lichtung prodotta dal “fuori”, quasi come se fossero unicamente strumenti di preparazione alla catastrofe, aventi in qualche modo la stessa funzione dell’angoscia di preparazione di cui parlava Freud. È come se Sloterdijk concepisse il rito solo come mezzo di riduzione del (possibile) disordine senza prendere in considerazione il fatto che esso di solito svolga il ruolo di un’istituzionalizzazione del disordine (si pensi ai riti dionisiaci o anche ai contemporanei rave), che, in quanto tale, regola e permette il disordine e l’eccesso violento stesso. Da tale punto di vista, quindi, il rito potrebbe essere pensato (e lo è stato, ad esempio da Bataille) come un’istituzione paradossalmente “anti-immunologica”.

Ma torniamo al testo, comunque fondamentale, di Sloterdijk. Il meccanismo di trasposizione, egli rileva, è anche alla base del “divenir adulti” che, in ultima istanza, consiste nella capacità di assumere come “domestiche” le situazioni di estraniazione e di pericolo. Il linguaggio come “casa dell’essere” di cui parla Heidegger è, da questo punto di vista, l’organo generale della trasposizione. La sua funzione è quella di assimilare l’estraneo al proprio, ma ampliando i limiti del proprio (è questa in fondo la tesi di Wozu Dichter? di Heidegger, nonostante Sloterdijk non vi si soffermi).

Che cosa sta accadendo ora? Tutto ciò che Slotedijk ha descritto fino a questo punto risulta all’improvviso un solo grande preambolo all’evento che stiamo vivendo, cioè la scomparsa della “casa dell’essere”. Il progresso della tecnica non appare più addomesticabile (né semplicemente “trasponibile”). Cresce l’estensione dell’estraneo e dell’inabitabile. È ciò che Heidegger ha chiamato l’assenza di patria, la spaesatezza, ma anche il compimento della metafisica.

Quando Dolly bela lo spirito non è in patria, a casa, presso di sé” (p. 169). Inoltre le macchine intelligenti attestano che lo spirito è confutato all’interno delle cose. Sta venendo meno la distinzione metafisica tra natura e cultura. Per pensare quest’evento, secondo Sloterdijk, c’è bisogno di una nuova logica e di una nuova ontologia (vedi p. 172 sgg.).

La previsione a cui egli giunge, che è anche una provvisoria conclusione delle sue argomentazioni, è la seguente: fermo restando che la Lichtung stessa (sfera, cultura) non è pensabile senza la sua origine tecnogena, “la plasticità umana rimane una realtà fondamentale e un compito inevitabile” (p. 177). Allora, ciò che può “salvarci” è ancora la tecnica, quella che è già apparsa, che ha già cominciato ad operare grazie alle tecnologie intelligenti. È la tecnica che Sloterdijk chiama “omeotecnica”. Essa, in contrapposizione alla vecchia [allo]tecnica, è descritta come una tecnica capace di utilizzare le cose senza far violenza ad esse. Tale omeotecnica, che si è annunciata, sottolinea Sloterdijk, sotto i nomi di ecologia e di teoria della complessità, non è un dover-essere, ma già una realtà.

Forse potremmo chiosare questa conclusione (provvisoria) di Sloterdijk ricordando il famoso verso hölderliniano, più volte citato da Heidegger, secondo cui “nel pericolo cresce anche ciò che salva”.

Nella tecnica cresce anche la tecnica che ci salverà?



(Vincenzo Cuomo)




Indice:
1. Caduta e svolta. Discorso sul pensiero nel movimento di Heidegger
2. Luhmann, avvocato del diavolo. Del peccato originario, dell’egoismo dei sistemi e delle nuove ironie.
3. La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung
4. Che cos’è la solidarietà con la metafisica nell’attimo della sua caduta? Appunti sulla teoria critica ed eccessiva.
5. Alétheia o la miccia della verità. Per il concetto di una storia del disvelamento.
6. Regole per il parco umano. Una risposta alla Lettera sull’umanismo di Heidegger.
7. L’offesa delle macchine. Sul significato epocale della più recente tecnologia medica.
8. L’ora del crimine mostruoso. Per una giustificazione filosofica dell’artificiale.
9. Il revanscista disinteressato. Nota su Cioran.
10. “Il Dasein ha una tendenza essenziale alla vicinanza”. Note in margine alla dottrina heideggeriana del luogo esistenziale.














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