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Mario Pireddu e Antonio Tursi (a cura di),

Post-umano. Relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti


Guerini e Associati, 2006, € 21,50, ISBN 88-8335-78




Un’antologia per raccogliere gli umori e le conclusioni di un attualissimo dibattito, quello sul post-umano. Questo è Post-umano. relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti.

Un ventaglio di teorie filosofiche e non, che, tra il gennaio e l’aprile del 2005, si sono alternate dando voce al problema del post-umano nelle reti nell’ambito di un seminario organizzato dalle cattedre di Sociologia delle comunicazioni di massa e di Teoria e tecnica dei nuovi media dell’Università di Roma ‘La Sapienza’.

Umano, inumano, trans-umano. Processi culturali come processi ibridativi, post-umano come continuo spostamento di soglia. Dai corpi del vissuto esperienziale alle astrazioni del sapere organizzato, dall'artificializzazione della natura all'antropomorfizzazione della tecnologia, dai territori alle istituzioni e, dunque, alla crisi dei soggetti tradizionali e dei luoghi storici della politica”. Così uno dei curatori del volume riassume l’intento argomentativo. “Se l'essenza del post-umano è da rintracciare nell'apertura virtualizzante dell'umano, ovvero nella “saldatura organizzata di più entità”, occorre riflettere su questa saldatura, su questo accoppiamento strutturale tra umano e inumano che trova la sua origine nel rapporto uomo-natura, origine spesso negata dalla civilizzazione e dai saperi tradizionali.

Su queste basi, attraverso un percorso interdisciplinare e approcci eterogenei, dalla filosofia alla mediologia, dalla sociologia alla psicologia, dall'estetica al diritto, le relazioni raccolte da Mario Pireddu e Antonio Tursi testimoniano l’attento confronto del mondo accademico con il post-umano.

I saggi sono raggruppati in due parti, La carne e La politica: nella prima sono raccolti i contributi che più si indirizzano alla ridefinizione delle soggettività contemporanee sulla base di una forte rivalutazione del corpo, al di là della denigrazione a cui a lungo è stato sottoposto, contrapponendolo a qualcosa che si è chiamata anima. Sulle orme di questa rivalutazione, i contributi della seconda parte cercano di cogliere i possibili esiti politici della società delle reti, soffermandosi in particolare sul concetto foucaultiano di biopolitica.

Proprio la relazione di uno dei curatori, Mario Pireddu, sviscera le contraddizioni del corpo post-umano e del suo rapporto con la macchina.

Le tecnologie, vecchie e nuove, agiscono nell’ambiente e nella realtà sociale, venendone a loro volta modificate. Organico e inorganico interagiscono sin dalla realizzazione dei primi utensili. Tuttavia, resta da chiedersi se con le fusione di meccanico ed elettrico si verifichino cambiamenti inediti nel rapporto uomo-macchina. È un’interazione diversa quella che sperimenta l’uomo con la propria tecnologia, dopo questa ibridazione?” (p. 15).

È l’energia e la sua capacità di trasmissione delle informazioni ad aver modificato il linguaggio e, quindi, l’intero sistema di comunicazione: “Per McLuhan le nostre estensioni elettriche scavalcano lo spazio e il tempo e creano problemi di coinvolgimento e di organizzazione per i quali non esistono precedenti” (p. 17). La tecnologia elettrica disegna un diverso tipo di interazione tra organico e inorganico, rendendo in qualche modo quest’ultimo sempre più simile al primo: “con le tecnologie dell’elettricità l’inorganico perde le qualità tipicamente meccaniche che lo avevano caratterizzato nell’era pre-elettrica, finendo per somigliare sempre più all’organico” (p. 18).

Si definiscono le caratteristiche del post-umanesimo: “nella definizione di umano non si può prescindere da ciò che umano non è, e soprattutto non si può prescindere dall’organico. Non solo il corpo deborda oltre i confini della propria pelle attraverso estensioni tecnologiche, ma accoglie al suo interno l’alterità, ed è “agito” dal complesso relazionale che si produce tra sé e il mondo” (p. 21).

Ma quanto il post-umanesimo si differenzia dall’umanesimo? Mario Tursi sostiene che il post-umanesimo nasce dalla ripresa di alcune idee già importanti per gli umanisti: “l’accento posto da questi ultimi sulla contingenza dell’esistente e sulla fallibilità dell’esperienza umana è da leggere in questo senso come il trait d’union più stretto con l’epistemologia del post-umano” (p. 22).

L’attenzione si sposta sul rapporto tra corpo e mondo passando attraverso l’ecologismo di Bateson e la fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, tanto da poter trarre la prima conclusione: “fenomenologia e post-umano sembrano dar linfa anche ai recenti tentativi di fondare una mediologia davvero capace di dar conto dei mutamenti sociali e della complessità dei processi comunicativi. La concezione astratta e disincarnata della comunicazione lascia ormai spazio a studi interdisciplinari che privilegiano approcci non dualistici e si fondano sulla consapevolezza dell’importanza dell’ibridazione e del rapporto intimo tra uomo, cultura e tecnologia” (p. 25).

È l’aspetto antropologico delle nuove tecnologie, se così possono definirsi, ad interessare Roberto Marchesini, che nel suo saggio sottolinea come la “tecnologia possa ritenersi un epifenomeno della struttura etografica dell’uomo e quindi il portato stesso della sua complessità biologica o, viceversa, la stampella esonerativa delle mancanze biologiche della nostra specie” (p. 29). Sì, continua, perché la struttura neurobiologica dell’uomo nonché la dimensione epimeletica della nostra specie giustificano la “richiesta del nostro cervello ad essere plasmato dall’esterno per realizzare le proprie intime istanze” (p. 32). Sono proprio i cervelli ridondanti delle antropomorfe ad aver bisogno “di apprendimento per realizzare il retaggio filogenetico e a poter usufruire del più vasto orizzonte di possibilità ontogenetiche” (p. 32).

A ben vedere l’ibridazione tecnologica, l’accoglienza dell’altro, del non umano, nasce dalla naturale capacità evolutiva della specie umana. Ne rappresenta un naturale bisogno: “Il tratto comune delle diverse filosofie post-human sta nel considerare l’uomo non più autosufficiente per fondare l’umano; più che una filosofia di superamento dell’umano ritengo sia corretto considerare il post-umanesimo un pensiero inclusivo del non-umano.” (pp. 39-40).

Il trasferimento di informazioni da un corpo ad un supporto tecnologico è l’ulteriore compromesso (da considerarsi vantaggio?) del pensiero post-umanista. Antonio Caronia ricorda ciò che Moravec teorizzava: “la possibilità di trasferire l’intera personalità di un essere umano su di un supporto diverso da quello del suo corpo naturale (personality download).” (p. 44).

Null’altro è raccontato se non la storia del corpo replicato: da automa settecentesco si trasforma in robot, da robot in ibrido dal corpo umano ‘modificato’ da una tecnologia che lo invade, che penetra sotto alla pelle a corpo disseminato riconoscibile “attraverso sofisticate simulazioni al computer, con le quali, per esempio connettere il nostro corpo fisico con dispositivi, rivelatori, sensori che fanno muovere degli avatar sul nostro schermo così come si muove il nostro corpo.” (p. 47).

Eludendo il passaggio nel quale Caronia ribadisce quanto la virtualizzazione del corpo sia in relazione con categorie concettuali e filosofiche come i concetti di possibilità e di realtà, di necessità e di contingenza (argomento già trattato nel suo libro qui recensito Cyborg. Saggio sull’uomo artificiale), mi sembra interessante la sua (non originale se integrata al detto del volume nel quale è inserita) definizione del contemporaneo stato del post-umano.

Dire post-umano oggi significa semplicemente prendere atto che la normale scala evolutiva delle culture umane sta subendo oggi un’accelerazione, per cui i tradizionali modelli descrittivi di tipo quantitativo non sono più sufficienti, e occorrono forse nuovi modelli di tipo quantitativo. (p.53) […] Dire post-umano significa dunque dire che il ritmo di trasformazione culturale e le possibilità aperte al campo della cultura in generale, oggi, cominciano a mettere in discussione addirittura la biologia dell’essere umano come limite.” (p. 55).

È il corpo, e il suo rapporto con la natura o con ciò che natura non è, il soggetto (a volte oggetto) delle relazioni di questo densissimo volume, in entrambe le declinazioni scelte: la sua carnalità e il suo esser politicizzato.

Pier Luigi Capucci, accertato lo spostamento dell’asse percettivo che avviene con l’oleografia tra la vista e il tatto, analizza le immagini di simulazione fino all’anacronistica considerazione: “noi viviamo ancora immersi nel realismo della rappresentazione prospettica.”(p. 60).

E di simulazione dello spazio bisogna parlare quando ci si riferisce all’uso “quotidiano dei personal computer: basta guardare all’evoluzione dell’interfaccia dei sistemi operativi, che cerca di simulare l’ambiente di lavoro mediante la metafora della scrivania, delle cartelle, dei documenti, del cestino” (p. 60). Ed ancora: “nell’ambito delle interfacce uomo-macchina vi sono esperienze ancora più avanzate. Si tratta delle interfacce cerebrali, basate su sensori che riescono a leggere una particolare attività del cervello, che può essere addestrata a gestire i computer. Questo tipo di interfaccia consentirebbe di interagire con il computer mediante il pensiero, un sogno che l’umanità culla da sempre.”(p. 61).

Si giunge, dunque, al saggio di Derrick de Kerckhove che già dalle prime battute pone un azzardo tematico: “la questione che pongo è se la nostra società non si sia incamminata verso un neototemismo, in cui l’elettricità è il terreno e la metafora comune.”(p. 70). Continua più avanti: “la struttura delle collettività ibride è basata su attributi riconosciuti nei non-umani e le qualità di tali collettività sono desunte dall’identità presunta, dalla condivisione di attributi tra umani e non-umani.” (p. 74).

Viene percepita una sorta di continuità tra umani e non-umani, natura e cultura, natura e tecnologia, tecnologia e cultura, tecnologia e psicologia. “Una continuità dalla quale emergono le qualità che definiscono l’identità dalla quale e nella quale si svolge il processo dell’essere. Questa è, a mio avviso, la condizione presente e il rapporto che intratteniamo con la tecnologia è un rapporto totemico […] Il non-umano che incarna meglio questa qualità è l’elettricità.” (p. 74). La fase cognitiva dell’elettricità è il digitale: l’elettricità si esprime sullo schermo con il linguaggio. “Il mondo dell’elettricità non è una ripetizione del passato, ma è un ri-creato sempre e di nuovo al momento.” (p. 75).

Il neototemismo segnalato da De Kerckhove rappresenta la nostra attuale condizione, quella di “uno stretto isomorfismo tra il mondo e l’essere umano: l’elettricità rappresenta oggi la proprietà fondamentale che garantisce energia, sicurezza, vita, la qualità che segna il nostro rapporto isomorfo con il nostro nuovo totem.” (p. 79).

Impossibile tener conto degli infiniti spunti teorici, nonché argomentativi, suggeriti dal volume: il suo esser una sapiente raccolta di saggi impedisce il puntuale rimando alle singole relazioni per non correre il rischio di snaturare la funzione di una recensione.

La tecnologia comincia a sposarsi con la teoria, si comincia a generare una sorta di spazio dell’informazione” (p. 82), continua Giuseppe O. Longo. “Nel mondo della comunicazione, in particolare nel mondo degli esseri umani, ciò che conta è la differenza. è la differenza che porta l’informazione e che innesca le azioni. Un’informazione è una differenza che genera una differenza” (p. 85). Nella società dell’informazione tutto è messaggio, tutto è codice.

Codici che si manifestano anche nell’arte e nelle letteratura:


Il cielo sopra il porto aveva il colore della televisione sintonizzata su un canale morto. (Gibson, 1984)


Vi sono tutta una serie di elaborazioni letterarie e artistiche che hanno sviluppato tematiche convergenti su quello che sarà definito post-umano” (p.89), sottolinea Massimo Canovacci.

Un rapporto intermittente quello tra l'arte e il corpo, attivato di volta in volta da sensori diversi e da stimoli ambivalenti. Un'arte della contaminazione, un'arte che crea luoghi, direzioni, intrecci. L’arte della trasformazione di neorganismi, di nuove situazioni cognitive, di nuove estensioni del corpo. Una dimensione dell'arte che assume una rivoluzionata concezione di ciò che si intende per corpi della mutazione, degli organismi come ribellione, delle nuove categorie di umano, transumano, postumano. L’arte della nuova carne.

Ed è qui che si inserisce il discorso del corpo trasformato e del suo bíos. Un approccio politico.

La definizione di biopolitica è da attribuire a Michel Foucault: “L’uomo moderno è un animale nella cui politica è in questione la sua vita di essere vivente” (Foucault 1976); con questo termine, intepreta Tursi, egli intendeva “fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze…” (p. 113). La biopolitica, continua Antonio Tursi, “è parte del biopotere che, legato a doppio filo al capitalismo e al suo pensiero, si articola appunto in bio-politica e anatomo-politica” (p.114).

Tursi passa in rassegna la teoria di Hanna Arendt sulla vita activa, quella di nuda vita di Walter Benjamin, per segnalarci quanto “la traduzione dei bisogni dei corpi in diritti ha segnato un’altra tradizione politica, radicata nella nostra società, ma che solo nel Novecento si è dispiegata in strategie di cittadinanza che hanno cercato di dare compimento alle promesse racchiuse nel concetto di democrazia.” (p. 117). “Solo la democrazia con i suoi radicamenti nei corpi è capace di tradurre la Gewalt in possibilità di emancipazione e inclusione.” (p. 118). Inoltre considera il post-umano quell’orizzonte in cui la vita si ribella alla sua riconduzione ad una forma di vita, “al pensiero che l’ha tenuta ingabbiata per il tempo storico.” (p. 119).

Naturalmente anche il linguaggio risente dell’introduzione della mediologia e del continuo confrontarsi, scontrarsi ed infine confondersi, con la tecnologia.

Alberto Abruzzese abbozza una teoria “sulla stretta relazione tra società e innovazione delle sue piattaforme comunicative” (p. 132) e Roberto Esposito ripercorre le tappe “della natura dopo l’umanesimo.”(p. 143). La Lettera sull’«umanismo» di Heidegger (trad. it. Adelphi, 1995) sembra “chiudere la vicenda umana dell’umanesimo”. Lo stesso Heidegger aveva dichiarato che “occorre pensare ‘contro l’umanesimo perché esso non pone l’humanitas dell’uomo a un livello abbastanza elevato’” (p. 144). La tesi del filosofo tedesco è “che per cogliere la realtà umana più a fondo di quanto abbia mai fatto l’umanesimo, bisogna pensarla fuori dall’orizzonte comune di ciò che solamente vive. La verità dell’uomo sta, per Heidegger, oltre, o prima, della sua semplice vita – come dimostra anche il suo sostanziale disinteresse per la sfera del corpo.” (p. 145).

Esposito constata quanto il linguaggio heideggeriano non sia del tutto diverso da quello dell’umanesimo classico. Vi è una “pregiudiziale antinaturalistica a trattenere l’humanitas di Heidegger nelle vicinanze di quella tradizione umanistica che pure vorrebbe eccedere.” Ancora: “una volta abbandonato da Dio al suo destino mondano, l’esistente di Heidegger ne eredita non soltanto l’assolutezza, ma il primato su ogni altra specie da cui è separato non da una diversa struttura, ma precisamente dalla sua strutturale mancanza: l’essenza dell’uomo sta più nell’estraneità all’ambito naturale che nell’appartenenza a una specifica natura.” (p. 146). Così Sartre scrivendo «che l’uomo è libero e che non c’è natura umana su cui io possa fondarmi» (1946) non fa che “riproporre l’idea originaria da cui la tradizione umanistica aveva preso le mosse”.

Ad inaugurare un nuovo linguaggio postumanistico sono stati Charles Darwin e Friedrich Nietzsche. Darwin con la sua teoria dell’evoluzione integra natura e storia “secondo un concetto di storia naturale che implica la modificazione della natura umana in base ad una serie di scarti dalla norma non predeterminabili in anticipo, ma prodotti spontaneamente e per caso. […] La natura umana non è un tutt’uno che progredisce verso il meglio, ma il risultato, sempre modificabile, di un conflitto inesauribile tra tipologie biologiche diverse che competono per affermarsi.” (p.148). Nietzsche traduce in termini biologici l’antico mito pichiano della plasticità umana assumendo ad oggetto della produzione, da parte dell’uomo, della propria essenza non “l’anima o la condizione sociale, ma il corpo medesimo dell’uomo – o meglio l’uomo come un insieme biodeterminato in cui anima, condizione sociale e corpo fanno un unico organismo vivente.” (p. 149). Ma, aggiunge Peter Sloterdijk, «non soltanto l’umanesimo della prima età moderna , ma anche la sua ritraduzione politica nelle culture nazionali ottocentesche va considerato un fenomeno sostanzialmente esaurito.» (Sloterdijk 1999).

E stigmatizza Esposito: “l’umanità dell’uomo non può più essere pensata al di fuori del concetto, e anzi della realtà naturale, del bíos. La vita singolare e collettiva, nelle sue esigenze di conservazione e di sviluppo, è oggi l’unico criterio di legittimazione universale che dia senso alle pratiche politiche, sociali, culturali del nostro mondo.” (p. 151). Gli fa eco Michele Prospero, che ribadisce quanto “le necessità naturali del corpo rappresentino la radice inestirpabile del politico che si avvale di relazioni giuridiche.” (p.156).

Stefano Rodotà inverte il percorso espositivo proponendosi di rintracciare la validità di alcuni diritti fondamentali dell’uomo nell’era post-umana o trans-umana.

Per terminare, viene affrontato il problema della contaminazione.

L’uomo produce tecnologia, ma contemporaneamente ne è prodotto: la sua identità storica (e individuale) va sempre riferita alla cultura tecnologica in cui si colloca la sua esperienza, come a dire che l’incorporazione della tecnica nella sfera del sensibile ha realizzato da tempo il superamento dell’ontologia del corpo naturale.” (p. 188-189).

Il senso compresso del tempo proprio dei media elettronici avrebbe plasmato un nuovo modo di pensare, per frammenti di suono e di immagini, eclissando le strutture razionali deduttive e la continuità narrativa proprie della mentalità precedente.” (p. 197).

Esiste, dunque, una continuità tra l’umano e il non-umano? Siamo nient’altro che il trasferimento dei dati inseriti nel nostro cervello alla memoria di un computer?

Forse, ‘postumanamente’, siamo anche questo.



(Sara Matetich)












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